La morchia e la mela / Odori sul treno
Oggi, mentre salivo sul treno per Venezia al binario 6, sullo stesso marciapiede, al binario 5, un vecchio locomotore verde e giallo dall’aspetto dismesso faceva manovra; contemporaneamente la ragazza bionda alle mie spalle mangiava una mela. La somma dei due odori, quello della morchia e quello del frutto, mi hanno riportato alla memoria Marco Paolini, o meglio, un ricordo della sua infanzia evocato in uno spettacolo: l’odore della borsa da lavoro di suo padre che, come il mio, era un ferroviere. Marco (mi scuso per la familiarità) lo sento quasi un fratello, forse perché quando parla di ferrovia dà voce a pensieri che, presuntuosamente, vorrei avere espresso prima io. Nel tempo il suo ricordo si è fuso con il mio. Sono stata io a ricordare oppure è stato lui a risvegliare il mio ricordo? Certo è che, per entrambi, fra la morchia e la mela mancano le sfumature del sentore di cuoio del borsone nero e dell’odore di inchiostro del giornale. Per quel che riguarda me, sono da aggiungere i due odori che sentivo quando baciavo mio padre: tabacco e fuliggine. Mi rivedo, la luce si accende nel corridoio, scendo dal letto e di corsa gli vado incontro, mi siedo sulla panca del cucinino, il borsone è aperto sul tavolo e io, come uno struzzo, ci metto la testa dentro, lui scherza con mia madre che gli sta scaldando la cena, ridono, è tardi? Forse lo è solo per una bambina di 3-4 anni, appena si accorgono di me mi dicono di andare a dormire. Sono sempre stata una bimba ubbidiente ed è con questo invito che anche ora mi addormento sul treno.
Ore 17,30, rientro.
Il giornale comprato all’andata è rimasto intatto, come la plastica del supplemento. Lo svesto quasi per dovere, con scarsa voglia di leggerlo. Mi cade una bustina di tisana in omaggio e un pieghevole con buoni sconto che trovano immediatamente la giusta collocazione nel cestino. Vado subito alla pagina dove c’è un rigonfiamento per staccare “l’altro regalo” e mandarlo a fare compagnia ai due precedenti, vengo però incuriosita dalla complessità della confezione. C’è una linguetta da tirare e un bottoncino da premere e, come un nativo americano di fronte alle conterie, pur sapendo che non lo devo fare, ci casco. Ne esce una “fragranza” che difficilmente potrebbe sedurre qualcuno, visto che ricorda un pandoro affogato in un vaso di fiori appassiti, in cui galleggiano delle caramelle al bergamotto. Sento che se non mi lavo immediatamente le mani il mio rientro a casa sarà difficile, il gatto avrà difficoltà a riconoscermi, potrebbe anche attaccarmi! Rido dandomi dell’idiota mentre mi dirigo in bagno ma ecco che, come al mattino, qualcosa affiora nella mia memoria, quell’odore è la somma di altri, vari e distinti, e mi ricorda la festa dell’epifania che veniva “celebrata” al Dopolavoro Ferroviario.
Mazzi di fiori accatastati sui tavoli per le mogli dei dirigenti, le signore profumate, lo zucchero a velo che “nevicava” su decine e decine di pandoro, le caramelle dal sapore indefinito imprigionate nelle reti a forma di calza, il tutto in mezzo a luci, confusione e all’allegro caos delle feste. Allegro per i grandi, non per noi bambini, merce da esposizione, che venivamo agghindati a dovere e sottoposti al sadico rituale della consegna personale, sul palco e dalle mani del presidente, del voluminoso pacco di cui conoscevamo il contenuto ma per il quale era d’obbligo simulare stupore e gratitudine. Non ricordo quando questa barbara pratica venne abbandonata, certo è che non ero ancora riuscita a elaborare una tattica che mi impedisse di inciampare nei gradini troppo alti del palco.
Devo ringraziare un dirigente illuminato e sicuramente single, se la distribuzione dei doni si trasformò da spettacolo pubblico a smistamento privato. Fu così che tutti i papà iniziarono a portare a casa da sé il “grande pacco” in anticipo o in ritardo rispetto all’epifania ma risparmiandoci, oltre alle brutte figure (parlo per me), gli sbaciucchiamenti della moglie del presidente. Per il resto, la situazione non era granché migliorata: il pacco teneva conto della differenza di sesso ma non dell’età, le bambole erano di marche sconosciute, i dolci sicuramente sponsorizzati dall’Unione Dentisti Italiani e i giochi didattici erano tutt’altro che stimolanti. Solo una volta ebbi una bella sorpresa: mi capitò il pacco di un certo Giovanni, conteneva un bellissimo aereo lucente e un “piccolo chimico” ma dovetti purtroppo renderlo al legittimo proprietario. La “cerimonia” di consegna avvenne nell’ufficio del dopolavoro: mentre i grandi scherzavano sull’episodio, il bambino di nome Giovanni, da dietro i pantaloni di suo padre, mi lanciò uno sguardo triste. Non so se ai tempi la mia immaginazione fosse troppo vivace, ma ebbi l’impressione che lui si fosse affezionato alla (mia) bambola tanto quanto io lo ero al (suo) aereo. Ora mi chiedo, se le cose fossero rimaste com’erano state decise dal caso, i nostri destini sarebbero cambiati? Io, ad esempio, avrei fatto il liceo scientifico e l’ingegnere aeronautico?
Ritorno al mio sedile cosciente di non essere riuscita a neutralizzare del tutto la “fragranza” ma di averla solo mascherata e coperta con l’odore del sapone liquido delle ferrovie, da sempre identico, ma quella è un’altra storia.