La Rete nella narrativa americana di oggi / Qualcos'altro di cui avere paura
Il bel libro di Luca Pantarotto Fuga dalla rete. Letteratura americana e tecnodipendenza (Milieu edizioni, 2021) pone molte domande sulla tecnologia che influenza le nostre vite. La rivoluzione digitale ha finito per coinvolgere anche la letteratura e Pantarotto ci offre un censimento accurato di tutto quello che gli scrittori di narrativa americani, il Paese della Silicon Valley dove nasce Internet, hanno prodotto in un arco di tempo che va dalla nascita del "cyberpunk" all'ultimo racconto appena uscito di Don De Lillo. Nessuno degli scrittori presi in esame riesce a restituire in un romanzo il mimetismo cui ci siamo conformati, non appena la rete e i social network hanno colonizzato l'esistenza, invadendo il nostro tempo e il nostro pensiero. Nessuno di loro ci ha messi di fronte a questa spregiudicata capacità di adattamento, che ha ridisegnato velocemente i confini delle convinzioni sociali, politiche e morali.
Una delle prime ragioni per le quali l'America non ha ancora prodotto il "Grande Romanzo Americano dell'era di Internet" sta nelle biografie degli scrittori. I più giovani, più o meno della stessa generazione, sono Mark Doten nato nel 1978 (43 anni), Jarett Kobek del 1980 (41) e Ling Ma del 1983 (38). Nessun nativo digitale (ipotizzando il 2000 come la data di inizio della generazione che familiarizza in modo "naturale" con le nuove tecnologie) ha per ora scritto un romanzo sulla vita di oggi (potrebbe, se pensiamo che Moravia ha scritto Gli indifferenti quando aveva tra i diciassette e i ventidue anni).
I romanzi di questi tre autori sono, secondo Pantarotto, il primo segnale di risveglio, il primo tentativo di riflettere sulla rete al di fuori degli schemi facili e delle interpretazioni ideologiche degli altri "grandi scrittori" che, in uno o più libri, hanno fatto i conti con Internet e la tecnologia. La rete delude i più giovani semmai perché la vedono come un sistema di prevaricazione e di controllo, tuttavia le loro opere hanno il pregio "di dichiarare ufficialmente guerra alla narrativa del rifiuto, quella più interessata a scrivere 'bei romanzi' che a capire il proprio tempo". Ma anche i libri di questi tre autori (Io odio Internet, 2016; Febbre, 2018; Trump Sky Alpha, 2019), pur adottando "scelte stilistiche e approcci tematici propri... arrivano, ognuno a modo suo, alla medesima conclusione: non esiste scampo se non nella fuga". Da Internet, dai social, dalla tecnologia scappano tutti, sicuramente gli scrittori più anziani del Gotha della letteratura statunitense, da Pantarotto messi implacabilmente con le spalle al muro: Dave Eggers, David Foster Wallace, Stephen King, Jonathan Franzen, mentre Don De Lillo, tra tutti, è quello che, secondo l'autore, ha descritto nel modo più vivo l'osmosi tra uomo e macchina.
C'è tuttavia un nodo che nessuno dei romanzi presi in considerazione in questo saggio sembra riuscire a sciogliere, forse nemmeno Il Silenzio di De Lillo, nonostante sia il più attento a non cadere nella retorica del rifiuto: quello della rete raccontata come "oggetto" che incombe sulle nostre vite, e quindi qualcosa di estraneo ad esse, qualcosa da analizzare, da svelare nei suoi reconditi significati, da prendere in considerazione, da capire e da spiegare. Nessuno per ora ha scritto un romanzo in cui la rete sia presente nella nostra quotidianità e che parli, come diceva D.H. Lawrence, "dell'uomo vivo" e non dell'opzione tecnologica che lo assoggetta o lo manovra. Un romanzo scritto non sull'ideale di vita modellato sull'accettazione o sul rigetto della rete, ma dove la rete sia – come l'amore, la passione, il dolore, il sesso, le merci, la morte – nella consuetudine dei nostri giorni. Il disincanto cinico dei più vecchi sembra il prezzo da pagare per autori che non vogliono mettere a confronto la loro intelligenza con il diabolus ex machina che, fin dalla citazione in esergo di Purity tratta dal Faust di Goethe, Franzen evoca per descrivere Internet e il Web e la loro capacità di modificare "il nostro approccio alla realtà e i confini della nostra personalità". Noi europei restiamo profondamente delusi, abituati come eravamo a guardare alla letteratura americana come a una finestra sul (nuovo) mondo: autori come Whitman, Melville, Faulkner, Sinclair Lewis che affascinarono Pavese e Vittorini; Ginsberg, Kerouac, Corso, Ferlinghetti che conquistarono la generazione successiva, e poi i Miller, i Roth fino ad arrivare al forse sottovalutato Brett Easton Ellis (non citato nel saggio di Pantarotto), l'unico che, senza moralismi di alcun tipo, introdusse la moda e i brand dei consumi di lusso nel suo bellissimo American Psycho (1991).
Sono proprio tutti i romanzi di Ellis (fino all'ultimo Bianco, 2019, un ibrido tra saggio e memoir dominato dalla sua dipendenza da Twitter) a offrire un controcanto rivelatore a queste "epifanie catastrofiche", a queste "morti di massa", a queste "dipendenze da computer" che uccidono la libertà degli uomini mentre sembrano concedergliela come mai accaduto prima. Nessuno degli scrittori americani di oggi prova a raccontare la vita senza "scetticismo, perplessità, talvolta fastidio" dice Luca Pantarotto nella sua illuminante introduzione. Ellis è sempre, invece, perfettamente calato nel flusso dell'esistenza che lo sottomette, plagiandolo, con le seduzioni del consumo, senza che mai i suoi personaggi vogliano distaccarsene per ideologia, né si sognerebbero mai di rifiutarle. Il problema è che la tecnologia, i social, il web sono visti, nella narrativa americana di oggi, come "un obbligo imposto" là dove per i nativi digitali appaiono nient'altro che "un piacere, un sistema che si adatta con naturalezza alle loro vite" perché Internet, come scrive Wayne Gladstone, si è fuso con la chimica del nostro corpo e "le informazioni e i messaggi istantanei" vanno e vengono "a un ritmo costante e involontario, come quello del respiro" (pag. 108). È sempre il problema dei modelli di comportamento e degli oggetti che li influenzano: la strada più facile è, come al solito, quella di dare la colpa ai "mezzi".
Prima al cinema ("Da ogni spettacolo cinematografico mi accorgo di tornare, nonostante ogni vigilanza, più stupido e più cattivo" scriveva Theodor Adorno in Minima Moralia 1954), poi alla televisione "cattiva maestra" (dell'americano Karl Popper, 1994), ora ai computer. Saul Bellow se n'era già accorto, come scrive Pantarotto, nel 1974 quando pubblicò su Harper's Bazaar il suo saggio Le macchine e le storie: la letteratura nell'era della tecnologia. Scriveva Bellow: "Nella maggior parte dei casi la scienza, l'ingegneria e la tecnologia facevano orrore agli scrittori". Non piacciono a Katherine Losse che nel suo Dentro Facebook (2012) racconta l'esperienza di impiegata di Facebook e di ghostwriter del suo ideatore, e che vede lo snaturamento progressivo della visione originaria che aveva dato vita a quel social network. In generale è la nostalgia, tornare al vecchio mondo, all' ipotetica normalità precedente questo tsunami digitale, il sottotesto taciuto nelle opere degli autori analizzati, ma che emerge qua e là, anche se "è impossibile per una ragione banale: la normalità è ormai Internet" (Gladstone). In Il Cerchio (2013), per esempio, di Dave Eggers, salutato dalla critica come il nuovo orwelliano "Grande Fratello" ma che – pur tentando di restituire la complessità attorno a cui ruota l'ingerenza della rivoluzione tecnologica nelle nostre vite – non riesce a uscire dai cliché del racconto della deriva umana di una società digitale "incontrollabilmente iperconnessa".
È sempre il mondo dei persuasori occulti, di una religione salvifica che condurrà a una "sola moralità, a un solo complesso di regole... con tutti gli esseri umani che avranno gli occhi di Dio... perché ora tutti siamo Dio" (anche se alla Rete interessa poco una cosa indefinibile come l'anima, preferisce qualcosa di più concreto: i nostri dati da elaborare) che spunta dal libro di Eggers. Uno scenario che si ritrova perfino nel sofisticato Infinite Jest di Foster Wallace che, pur non maneggiando direttamente il tema della rete, stabilisce comunque le coordinate di intrattenimento e dipendenza che la tecnologia userà per asservire e dominare le masse. A un certo punto Luca Pantarotto tira in ballo i "brutti libri", quelli rivendicati dall'autore di Io odio Internet, ma aveva già assegnato la palma d'oro per il peggiore, purtroppo, "a uno dei più grandi scrittori viventi" Stephen King e al suo Cell di cui cita la "tagline" americana (lo slogan con cui si pubblicizzava), sconfortante: "There's a reason Cell rhymes with Hell". Il diavolo e l'inferno di Franzen, di nuovo. Ma "il mondo va avanti, la gente trova un modo" come dice rassegnato l'umorista Wayne Gladstone autore di Notes from the Internet Apocalypse (2011). Anche per lui gli zombie consumatori di Internet non sembrano però avere un futuro, possono solo sperare di ritrovarsi in "cerchie" di simili dove condividere gli stessi gusti.
Eppure la storia dei media americani è costellata di buone intenzioni: le ricorda Pantarotto elencando le varie copertine di Time che cercano di stabilire una corrispondenza amorosa tra le "macchine" e l'uomo, informandoci, nel 1983, che la "Machine of the year" era il computer (e mettendolo in copertina, al posto di Steve Jobs che ebbe una crisi isterica: sì, le macchine prendevano il posto dell'uomo anche sulle famose cover di quel settimanale. Un dettaglio rivelatore: Time non mise in copertina la foto di un vero computer ma "un calco di gesso realizzato dallo scultore George Segal", una mediazione con il "reale" traslato in opera d'arte, come presa di distanza, un modo di "nobilitare" un oggetto ancora sconosciuto, riportandolo nei confini rassicuranti della cultura mainstream). Poi, nel 2006 mettendo di nuovo in prima pagina solo lo schermo di un pc, con il monitor rivolto al lettore e il monitor era fatto di una superficie riflettente che "in pratica trasformava la cover in uno specchio: chiunque prendesse in mano la rivista avrebbe visto in copertina il suo stesso volto". "Si TU, Tu controlli l'Era dell'Informazione, benvenuto nel tuo mondo" strillava Time, dando il via a quegli anni di incredibile infatuazione per "Il nuovo Web. Davvero una cosa diversa. Uno strumento per riunire insieme i piccoli contributi di milioni di persone e renderli importanti... una vera rivoluzione".
Bisognerà arrivare al 2010 affinché Time sposti di nuovo la sua attenzione dalla macchina all'umano, segnalando come "uomo dell'anno" Mark Zuckerberg, l'inventore di Facebook. Non è servito a niente. Gli scrittori americani continuano anche oggi a ostentare superiorità, stando ben attenti a non farsi contaminare troppo dalla tecnologia, confortati da una saggistica che mette in allarme (Internet ci rende stupidi di Nicholas Carr, uscito nel 2010, è il manifesto di una serie di saggi espliciti, in dissonanza dagli Internet for Dummies, il proliferare di manuali per insegnare a usare Internet anche ai più sprovveduti). Si direbbe che Franzen & C. non ce l'hanno fatta a comprendere che l'integrazione articolata tra uomo e macchina assume sempre di più i tratti della simbiosi, e si sono rifugiati nella facile opzione di descrivere "qualcos'altro di cui avere paura". Il libro di Luca Pantarotto racconta questo timore, entrando nell'analisi dei testi più importanti dell'ultimo ventennio ma anche, parallelamente, descrivendo come il progresso tecnologico stia influenzando senza ritorno la nostra percezione del mondo.