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Nei video di Isis
In pubblicità esiste una cosa chiamata call to action. È un esplicito invito ad agire rivolto al pubblico. Di solito è verbalizzato con l'imperativo dei vari scopri, vai, clicca, gusta, non perderti, lasciati tentare eccetera. Bastano, questi imperativi, perché l'azione desiderata si compia? Certamente no, ma pronunciarli tranquillizza gli autori. Di sicuro i vai e fai sottintendono una visione statica del proprio spettatore, quasi fosse un sacco di patate da animare, di norma incerto sul da farsi ma adesso dotato di uno scopo.
I video diffusi dalla propaganda ISIS sono dei potenti inviti ad agire. Fissando dall'inizio il proprio interlocutore (A message to America, A message to the allies of America) ne rendono quasi obbligata la reazione militare. ISIS sa che la passiva, straziante visione di ostaggi minacciati col coltello e poi decapitati davvero non può che produrre nei governi occidentali la necessità di un intervento. In questo senso la sua è un'infallibile call to action.
Se però quei corpi usati come materia comunicativa, così come quelli dei torturati di Abu Ghraib, stanno ampliando il vocabolario del corpo sottomesso in guerra, e del corpo del nemico ucciso (vedi De Luna, 2006), il loro destinatario finale sembra essere il nostro, di corpo, raggelato davanti allo schermo di una tv, di un pc, di un tablet.
Solo a noi, videospettatori del 2014, si rivolge l'estetica dei filmati di ISIS da qualche analista confusamente definita "da videoclip". Si tratta invece della sconvolgente introduzione, in questi materiali, di una vera regia televisiva. Espunte le oscene riprese delle decapitazioni, infatti, resta qualcosa che tocca nel profondo l'immaginario del pubblico occidentale.
Arriva sei secondi dopo l'inizio del discorso di James Foley, quando vediamo ciò che non è mai stato visto: l'inquadratura stacca sulla destra. Come in una qualunque ripresa televisiva. E pochi secondi dopo torna sul campo largo, continuando così ad alternare – sino al suo tremendo finale – i due punti macchina, con tecnica indifferenza a quanto sta per accadere.
La nostra familiarità con questa visione è autenticamente perturbante. Come lo è la presenza sottintesa, fuori dalle due inquadrature, di una regia, di un fonico, di competenze grafiche – elementari quanto si vuole ma qui impressionanti – che consentano di comporre dei testi scegliendo un font adeguato. Così come turba, proprio perché già presente nella nostra esperienza di spettatori, il proporsi di questi video come materiali seriali, con i loro macabri appuntamenti conclusivi che, mostrando nuovi ostaggi, creano l'insostenibile attesa di nuove tragedie.
Un lungo percorso ci ha portati fin qui, davanti a questo schermo. Quando dei fondamentalisti islamici rapirono e decapitarono Daniel Pearl, nel 2002, la pessima qualità del materiale filmato sembrava corrispondere alla bestialità dell'accaduto. Bernard Henry Levy, nel suo Chi ha ucciso Daniel Pearl?, aveva osservato che il carnefice inquadrava il suo ostaggio troppo da vicino, "che non è così che si fa una ripresa, che gli farà la testa effetto "fisheye" tipico dei cineoperatori principianti". L'imperizia tecnica confortava, forse, e separava nettamente i campi avversi.
Del 2004 fu l'orrenda prigionia di Kenneth Bigley, il cui video, ancora malfatto, conteneva però una sorta di simbolica messa in scena. Il prigioniero era mostrato in catene, dietro una gabbia e vestito con una giubba arancione, con solidale allusione ai reclusi di Guantanamo. Queste prime rudimentali rappresentazioni gettarono le basi per i video di ISIS, a tutti gli effetti delle produzioni televisive.
Secondo alcuni esperti i loro filmati sono pensati anche per arruolare nuovi seguaci occidentali. Oltre ai governi, l'invito ad agire si rivolge dunque a nuovi potenziali jiahdisti. E noi? Che azione vuol invitarci a compiere il grande califfato che ha portato a perfezionamento la sua violenza visiva? Forse vuol dimostrare che la nostra coscienza democratica si paralizza davanti al male assoluto? Non sa che per noi – per la prima volta nella storia, e nessuno sa cosa questo significhi – guardare equivale a un'azione. Se un'escalation militare verrà, ce ne sarà un'altra, conseguente, di nuove visioni. Così agiremo tutti. Facendo spazio, nei nostri occhi, ad altre immagini e altri orrori.
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