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Rambo, il primo sangue
Nel 1980 l’American Psychiatric Association incluse il disturbo da stress post-traumatico (PTSD) nel manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali. Il disturbo era già noto – si parlava più comunemente di shell shock o di neurosi da guerra – ma non era ancora stato formulato in questi termini, offrendo un quadro diagnostico più chiaro e una comprensione più ampia delle cause e dei sintomi associati al trauma. Quando John Rambo, già berretto verde in Vietnam, e cioè impegnato sul terreno con le forze speciali dell'esercito americano, torna negli Stati Uniti, si trova confrontato da un lato con la diffidenza e l’ostilità dei compatrioti che hanno letto della guerra sui giornali o visto le immagini dei massacri in tv, dall’altro con una neurosi da guerra che fa scattare in lui reazioni apparentemente inconsulte, ma perfettamente in linea con una diagnosi da PTSD, non appena si vede sventolare davanti una lametta da barba (sintomo da intrusione: flashback nel campo di prigionia dove viene torturato dai carnefici vietnamiti con dei coltelli).
Proviamo per un attimo a fare astrazione da Sylvester Stallone, dalle sue doti attoriali e dalla deriva che la saga legata a Rambo prese nel tempo. Il primo film della serie può essere considerato un classico a prescindere dai suoi pregi artistici, non soltanto perché contribuì con altre pellicole a disegnare la traiettoria di un’America che dall’era di Nixon si apprestava ad accogliere quella di Reagan, ma soprattutto perché in questo film è possibile cogliere la chiave del riallineamento di Hollywood con il Pentagono e la politica militare statunitense. È insomma un classico non soltanto per i suoi meriti inerenti (la rappresentazione del PTSD e come questo disturbo può alterare la percezione della realtà in chi ne è afflitto, la messa in scena di un eroe fragile sul piano psicologico ma al tempo stesso indistruttibile, le tematiche sociali che affronta, uno stile di combattimento più realistico rispetto a un film d’azione convenzionale), ma soprattutto perché non è né un film di propaganda militare come sarebbero diventati gli episodi successivi della saga, né un film di denuncia contro la guerra. È piuttosto un film terapeutico, un film di cui gli Stati Uniti avevano un gran bisogno.
Il titolo, tanto per cominciare, non è il Rambo dell’edizione italiana, bensì First Blood. Così si intitolava infatti il romanzo di David Morrell del 1972 da cui il film è tratto. Morrell aveva iniziato a scrivere il romanzo quattro anni prima, nel 1968, dopo aver ascoltato i resoconti dei suoi studenti reduci dal primo tour of duty in Vietnam. Con l’espressione first blood in inglese si indica il primo morto o ferito in battaglia, o il primo colpo inflitto in combattimento capace di provocare una ferita sanguinante. È il colpo che apre le ostilità ma è anche il colpo che dà un vantaggio sul nemico e per esteso sull’avversario, anche in ambito sportivo. Nel caso di Rambo il first blood si trasforma in una sorta di alibi per giustificare il furore e la vendetta: è stato lui a essere colpito per primo dalla polizia. È dunque il primo sangue versato, o soltanto l’allarme di un conflitto imminente, a provocare in lui la reazione (PTSD) che lo porterà a scatenare l’inferno nella provincia americana. Allo stesso tempo, si potrebbe dire, è il primo sangue provocato da Rambo a innescare la risposta spropositata delle forze dell’ordine. È insomma un punto di non ritorno. Valicata quella soglia l’essere umano è fuori controllo. Sangue chiama sangue. Nella mente di Rambo: tu mi tiri uno schiaffo e io ti rado al suolo il paese. Diremmo una puntuale trasposizione filmica dell’american way sul piano politico e militare. Proprio nel 1972, lo stesso anno del romanzo di Morrell, un musicista come Randy Newman pubblicava la canzone Political science, dove s’immaginava più o meno la stessa cosa: nessuno ci ama, e non capisco il perché; gli diamo dei soldi e ci disprezzano; non ci resta che sganciare una bomba atomica e facciamola finita. Polverizziamoli. Chiaramente in Rambo non c’è né l’ironia né il disincanto di Newman: la polverizzazione è determinata, più che dalla supremazia militare o dall’offesa subita, da una superiorità morale.
Nel 1972 la figura dell’eroe di guerra negli Stati Uniti era probabilmente ai minimi storici. La guerra in Vietnam aveva infuocato piazze e università, e l’arte stava diligentemente registrando quello stato di cose. Hollywood fece la sua parte, denunciando e sbeffeggiando in un sol colpo guerra ed esercito: nel 1970 Robert Altman aveva diretto M.A.S.H., di quello stesso anno sono Catch-22 di Mike Nichols e Kelly’s Heroes di Brian G. Hutton; Slaughterhouse-Five di George Roy-Hill è del 1972. Nel giro di poco al racconto critico o satirico sulla guerra si sommò la messa in scena del disagio del reduce, pensiamo a Taxi Driver di Martin Scorsese (1976), dove Travis Bickle, il personaggio interpretato da Robert De Niro, era un veterano del Vietnam; Tornando a casa (1978) di Hal Ashby, con Jane Fonda e Jon Voight nei panni di un veterano paraplegico, ma soprattutto Il Cacciatore (1978) di Michael Cimino, film che ebbe un forte impatto emotivo sull’America del periodo (si pensi soltanto alla disarmante sequenza finale in cui chi è rimasto canta a mezza voce una mesta versione di God bless America, sorta di inno non ufficiale degli Stati Uniti composto anni prima da Irving Berlin), un filone che avrebbe poi trovato in Apocalypse Now! (1979) di Francis Ford Coppola il suo allucinato manifesto.
Il film Rambo che uscì in sala nel 1982 va dunque proiettato sullo sfondo di un trauma nazionale, oltre che come tassello di un importante filone cinematografico che restituiva la frattura provocata dalla guerra in Vietnam. Si veniva da una stagione che aveva ribaltato di netto gli assunti veicolati da una pellicola di pura propaganda militare come Berretti verdi (1968), un film fortemente voluto e interpretato dal repubblicano John Wayne (l’attore scrisse una lettera all’allora presidente Lyndon B. Johnson affinché finanziasse, via il Pentagono, la produzione del film mettendo a disposizione strateghi militari ed elicotteri, cosa che puntualmente avvenne). Va anche sottolineato che i film di denuncia della guerra degli anni ’70 sono da inserire in un quadro più ampio che raccontava di una crescente diffidenza nei confronti dell’apparato governativo in senso lato, oltre che di un divorzio fra opinione pubblica e classe politica, qualcosa che troverà conferma in classici come I tre giorni del Condor di Sydney Pollack (1975) o Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula (1976).
L’insediamento di Ronald Reagan alla Casa Bianca nel 1981 portò, fra le altre cose, anche a un riallineamento fra Hollywood e il governo americano, con relativo ristabilimento della fiducia reciproca. Nel libro Hollywood, il Pentagono e Washington. Il cinema e la sicurezza nazionale dalla Seconda guerra mondiale ai giorni nostri (Fazi Editore), Jean-Michel Valantin, dottore in studi strategici e sociologia della difesa, sottolinea come sia stato proprio il film Rambo a innescare il mea culpa di Hollywood, e inquadra in termini di strategia problematica l’errore che commette una società civile allorquando rigetta il proprio esercito stigmatizzandolo in quanto criminale. John Rambo in questo senso si fa portavoce della rabbia, del risentimento e della sofferenza di chi ha servito il proprio paese per poi vedersi respinto dalla comunità per la quale ha combattuto. Sempre secondo Valantin, il film Rambo s’inserisce appieno nel quadro della “rivoluzione conservatrice” che, proprio a grazie a Reagan, fece dello slogan America is back il suo credo propulsivo (uno slogan in fondo non dissimile dal più recente Make America Great Again di Donald Trump).
Nell’impossibilità di riabilitare su due piedi l’esercito dopo i crimini perpetrati in Vietnam, ecco che Hollywood si affida, per cominciare, a un ex-soldato d’élite dal carattere mite ma dal potenziale esplosivo che indossa i jeans e porta i capelli lunghi. Mai vedremo Rambo combattere in divisa militare nel corso della saga. Sempre al servizio dell’esercito ma in mise da guerrigliero, sudato, sporco, un classico maciste nell’era dei primi palestrati, un irregolare capace di insinuare il sospetto che l’esercito americano sia in fondo un’istituzione disposta ad accogliere lo sbandato di turno, persino il combattente che non rispetta le regole e la disciplina e fa tutto di testa sua, purché inquadrato in una cornice morale condivisa da un ufficiale vecchio stampo come il colonnello Trautman. Rambo si configura come il guerrigliero perfetto per la rivoluzione conservatrice di Reagan, ingannevole equivalente di Che Guevara a beneficio dei ragazzi di Malibu o di Albuquerque che combatte al servizio dell’esercito americano e del governo con un’attitudine, un guardaroba e una forza d’animo se non proprio una purezza di cuore che lo imparenta alla figura del ribelle caro alla generazione degli anni ’60 e ’70. Salvo che Rambo combatte essenzialmente per sé stesso (nel primo film della serie, quanto meno), e da solo, più avanti, vincerà la guerra in Vietnam, che per lui e gli sceneggiatori di Hollywood non è mai finita. Che cosa vuole, in fondo, questo giustiziere solitario? La risposta di Rambo nel secondo episodio della saga è: che il paese ami i suoi soldati come i soldati amano il loro paese. Non che lo si voglia contraddire (meglio di no, data la sua suscettibilità), ma forse la pretesa di Rambo è piuttosto che il paese ami i suoi soldati come i soldati amano una certa idea di Patria. Che non è proprio la stessa cosa.
La vulnerabilità collettiva che la guerra in Vietnam aveva insinuato nella mente del paese trova una sua esplicitazione esemplare proprio nella figura di Rambo. Il monologo finale del film, lo sfogo rivolto al colonnello Trautman (al tempo stesso compasso morale e valvola di sfogo del soldato), dopo che ha raso al suolo il paese, vale la pena di essere ricordato, seppur succintamente:
Non era la mia guerra. Ho fatto quel che dovevo fare per vincerla, ma qualcuno ce l’ha impedito. E il giorno che torno a casa mia trovo un branco di vermi all’aeroporto che mi insultano e mi sputano addosso. Mi chiamano assassino e dicono che ho ammazzato vecchi e bambini. E chi sono per urlare contro di me, eh? Chi sono per chiamarmi assassino se non sanno neanche di che cavolo stanno strillando? Per me la vita da civile non esiste. In guerra c’è un codice d’onore. Io copro te e intanto tu copri me. Qui non c’è niente. Io là pilotavo gli elicotteri, guidavo un carro armato. Rispondevo di attrezzature per milioni. Qua non riesco neanche a trovare lavoro come parcheggiatore! Dove sono finiti i miei amici? Dove sono finiti tutti quei ragazzi? Qui non c’è più nessuno. Certe volte mi sveglio e non so neanche dove mi trovo. Non parlo con nessuno, a volte per giorni, per settimane… Com’è possibile? Che devo fare…? Che cosa devo fare…?
Il John Rambo del primo episodio della serie è un individuo forse non diverso dal Rambo che vedremo dal secondo numero in poi, ma decisamente meno profilato sul piano ideologico. È un uomo distrutto, per il quale non c’è futuro. È in fondo lo stesso ragazzo di cui, di lì a due anni, canterà Bruce Springsteen in Born in the U.S.A., urlando la stessa rabbia e la stessa disillusione per un paese da cui si sente tradito. La grande trovata del film Rambo fu quella di aver saputo incanalare la frustrazione e la sfiducia nei confronti del governo verso un più alto e nobile mandato: l’amore per la Patria. Se poi a farne le spese erano, come succede nel film, la polizia, la Guardia Nazionale e tutto l’apparato burocratico di Washington (ridicolizzati e colpevolizzati né più né meno di come Hollywood aveva fatto con l’esercito appena dieci anni prima), poco importava. Erano tutte entità spendibili per preservare qualcosa di più importante: l’egemonia politico-militare sul piano globale. Ciò che andava anzitutto ricostruito era un rapporto di fiducia con la bandiera e l’esercito, e John Rambo aveva, per questo, bastante spavalderia e le physique du rôle.
Il sopravvivente Rambo, grazie al survival kit che gli conosciamo, fatto di coltelli affilatissimi, frecce acuminate da neo-sioux o neo-apache, aghi e filo con cui ricucire le ferite davanti al fuoco, fucili mitragliatori indossati come una seconda pelle, si trasforma in un attimo da disadattato sociale in supereroe indistruttibile. Il ritorno allo stato primitivo che è l’habitat nel quale meglio si muove rappresenta in fondo il bisogno della nazione di ritrovare una sua purezza, sorta di versione aggiornata pur se immensamente più cruenta del Walden di Henry David Thoreau, quanto meno in termini di elogio dell’autosufficienza, dell’individualismo e dell’autodisciplina (per il resto, lasciamo stare). Qualcosa che, a intervalli regolari, riaffiora nel cinema americano (da Jeremiah Johnson di Sydney Pollack a Into the wild di Sean Penn, la lista è davvero lunga).
Al film Rambo seguì una lunga stagione di riabilitazione della coscienza nazionale e di ricostruzione della fiducia nell’apparato di difesa grazie a quelli che Valantin chiama i film di sicurezza nazionale, proprio come successo durante la Seconda Guerra Mondiale: film di guerra o di semplice reclutamento alla Top Gun (1986), realizzati da Hollywood attraverso contratti milionari stipulati fra gli studios e il Pentagono, accordi che contemplano aspetti legati alla logistica, alle attrezzature, la collaborazione di strateghi militari, l’accesso a strutture militari, il noleggio di intere squadriglie di caccia e relativi piloti, portaerei, carri armati, sottomarini, missili balistici… La messa in scena di pericoli da fronteggiare come nazione – “produzione di minaccia, produzione di consenso”, scrive sempre Valantin – è parte della storia di Hollywood. Accanto al film di guerra comunemente inteso Hollywood ci ha fatto dono di un catalogo di pellicole che presentano di volta in volta efferati alieni, minacciosi terroristi, corpi celesti diretti verso la Terra, tecnologie fuori controllo o, ça va sans dire, comunisti dagli occhi di ghiaccio. Per far fronte a cotante insidie sono chiamati di volta in volta attori specializzatisi nei cosiddetti “ruoli di sicurezza nazionale”: accanto a Sylvester Stallone i vari Chuck Norris, Steven Seagal, Arnold Schwarzenegger, Bruce Willis, Mel Gibson, Sigourney Weaver, Morgan Freeman, Denzel Washington, il Tom Cruise della saga Mission Impossibile o più avanti il Matt Damon della saga Bourne. Che poi i film da loro interpretati continuino a riempire le sale del pianeta e non solo quelle americane, è indice di un’egemonia di cui Hollywood, sappiamo, è solo uno dei tasselli.
Rambo è da considerarsi un classico? Se non sul piano estetico o per i suoi meriti artistici, certo per l’impatto culturale che ha avuto. Snobbare John Rambo è stato un po’ come prendere sottogamba Donald Trump. Mai sottovalutare un tale che non riuscirebbe a trovare lavoro come parcheggiatore o che stenta a mettere assieme una frase compiuta. C’è sempre la possibilità che tiri fuori un bazooka da sotto il giaccone e rada al suolo l’intero paese.
Il trailer del film (versione italiana)
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