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Being freelance. L'infinita valutazione
La scorsa settimana Tiziano Bonini, in un bellissimo articolo su queste pagine, ha immaginato un futuro nel quale il lavoro dei freelance sarà oggetto di valutazione proprio come un titolo di stato, sottolineando che il valore dei lavori comunemente detti “creativi” oggi è dato non da ciò che il creativo produce, ma dalla reputazione attorno ad esso. Che certamente ha, almeno in parte, a che fare con ciò che si produce – ma molto di più ha a che vedere con i processi di generazione di un capitale simbolico personale, che diviene fonte di fiducia. Quando ho iniziato ad approcciarmi al lavoro freelance come oggetto diretto del mio lavoro di ricerca, con l’idea di osservare in che modo la reputazione fosse centrale nelle dinamiche di ricerca di lavoro e successo professionale tra le reti di professionisti indipendenti, il termine “rating” era di uso comune nei telegiornali. Si sentiva spesso citare, all’epoca, soggetti come Standard & Poors, oppure Fitch – chi di voi lettori avesse buona memoria ricorderà che queste agenzie operano una valutazione sui titoli di stato dei Paesi, in modo da offrire agli investitori una certa forma di misura sul più intangibile dei capitali intangibili: la reputazione, appunto. Oggi quelle dinamiche sembrano lontanissime – eppure sono tra noi, nel mercato del lavoro. Quell’articolo parla di un futuro che è già presente. Ma per arrivarci, partiamo da lontano.
Le coincidenze fra il “lavoro” dell’artista e quello che contraddistingue le professioni che Richard Florida chiamava inopinatamente “classe creativa” sono note, ma forse ci manca un passaggio determinante per far funzionare tutto il circuito. La parola chiave è imprenditoriale. La natura del lavoro cosiddetto creativo è infatti sostanzialmente una versione salariata del lavoro artistico, con il quale condivide le skills e il milieu culturale, che oggi da salariato diviene imprenditoriale. In un certo senso si può dire che questo sia l’esito di un processo iniziato quasi un secolo fa, come ci ricorda Walter Benjamin, che già nel 1936 si poneva domande riguardo alle criticità del lavoro dell’arte nell’era della riproducibilità tecnica, e arriva sino a quello che Fredric Jameson chiama tardo capitalismo, la cui logica è culturale, postmoderna, artistica. La dimensione estetica prima si macchinizza, poi si industrializza facendosi milieu, e infine mercato. Da Wagner a Myspace, un unico filo.
In questo passaggio il processo di appropriazione della dimensione estetica da parte del mercato non ha solo coinvolto l’oggetto, il lavoro, ma ha travolto i soggetti, i lavoratori, con l’istituzionalizzazione del lavoro su commissione dentro i meccanismi del mercato del lavoro. Il sociologo Andrew Ross parla di questi soggetti definendoli con il termine “urban bohemia”, riferendosi a quella che potremmo chiamare “generazione Starbucks” – che poi è il luogo archetipico dove i creativi, e in particolare i freelance, sono andati per anni a lavorare, prima che arrivasse il coworking, con i Macbook aperti sul tavolo a scrivere e a bere il caffè. Quando il bohemien si imprenditorializza, per dirla con Paolo Virno, il lavoratore si fa “virtuoso”, nel senso che svolge un lavoro cognitivo per il quale non contano più le skills, ma come le si comunica – un’accezione affettiva che lo rende molto simile a una performance. I lavoratori diventano “bravi come il loro ultimo lavoro” e fanno parte di una “scena”. Come in un loop, il sistema socio-economico si adatta inglobando questa logica di valore nel meccanismo di mercato. Essere un creativo implica così non solo avere iniziativa imprenditoriale ma diventarne soggetto e non solo esserne attore: l’individuo diviene brand. Crolla il meccanismo tempo-valore. Ed entra in gioco la reputazione.
Nel libro Status Update, la studiosa dei media Alice Marwick definisce la reputazione come il
mosaico di informazioni pubblicamente disponibili su di un soggetto e che altri possono raccogliere. La reputazione assume un ruolo centrale nella Rete, divenendo tangibile e, sotto alcune condizioni, persino misurabile grazie ai like, ai followers e i retweet – misurazioni del sé e del suo potenziale o reale valore economico. I freelance trovano nella Rete il territorio ideale per sviluppare il proprio percorso professionale e la propria carriera, utilizzando “strategicamente” queste risorse non solo per cercare nuove opportunità lavorative, ma anche e soprattutto come strumenti di lavoro. Agiscono come dei brand perché sono dei brand. Il loro valore è essenzialmente “sociale”, in quanto prodotto delle loro relazioni e del mosaico di informazioni che si crea attorno ad esse. Il loro capitale è la reputazione, oggetto di investimento e di trading. Se pensiamo alla distinzione dei capitali di Bourdieu, la reputazione si pone a metà strada fra il capitale simbolico e il capitale sociale. Rappresenta un capitale relazionale perché dalle relazioni si costruisce e con le relazioni si alimenta, diventando fonte di fiducia – essendo in altre parole pre-condizione per la creazione di capitale economico via capitale sociale.
Nella Rete, complessi algoritmi chiamati “online reputation systems” sono alla base di piattaforme di successo come eBay, Amazon e TripAdvisor. Simili algoritmi regolano anche i mercati del lavoro digitale. La più importante piattaforma per freelance al mondo è Elance-oDesk, un portale con milioni di iscritti in crescita esponenziale, provenienti da 121 nazioni nel mondo, con un valore di lavoro complessivo che sfiora i 4 miliardi di dollari. Qui il cliente non incontra mai fisicamente il freelance. L’interazione fra domanda e offerta è mediata dall’algoritmo che aggrega i feedback sui lavori svolti e li pesa insieme a una serie di altri fattori, alcuni visibili come il tasso di lavori ripetuti con lo stesso cliente e il valore economico dei lavori svolti, altri non visibili, segreto industriale dell’azienda. Questa aggregazione porta a uno score, un punteggio, che si chiama Level. I clienti assumono freelance, di fatto, solo sulla base del Level – cioè dell’algoritmo, nello stesso modo in acquistiamo su eBay da un venditore affidabile, o le stelline di TripAdvisor ci guidano nella scelta di un ristorante. Su Elance si trovano grafici, illustratori, traduttori, ma anche accountant e giornalisti, consulenti di marketing e web designer. Non sempre, anzi raramente, si va a cercare il lavoro che costa meno. Conta solo la reputazione. Questo modello è in crescita e non solo per i lavoratori della conoscenza. Ad esempio il portale Angie’s List, negli Stati Uniti, mette in contatto domanda e offerta nel mercato di elettricisti, idraulici e tecnici di varia natura su base locale, grazie al codice postale – e a un sistema di reputazione digitale.
Uno studio, condotto in partnership proprio da Elance-oDesk insieme con la Freelancers
Union, il sindacato di riferimento tra i lavoratori indipendenti americani, rivela che 53 milioni di americani ottengono reddito, in parte o in totalmente, da lavoro freelance. Lungi dall’essere “figlio di un dio minore”, come spesso viene trattato dalle nostre parti – nel Jobs Act, ad esempio – il lavoro freelance emerge come un pilastro ormai centrale nel mercato del lavoro statunitense, al punto da essere definito “un nuovo standard” a tutti gli effetti. Lo studio rivela che sono in particolare i cosiddetti Millennials, lavoratori al di sotto dei 35 anni, a guardare con interesse a forme di lavoro freelance – il 38% di questa fascia di popolazione lavora con questa modalità. La ricerca ci mostra anche come un ruolo decisivo nell’emergere di queste nuove forme di lavoro sia giocato dalla tecnologia, che permette di lavorare a distanza e con tempi “personalizzati”, e in particolare come sia ormai sempre più comune utilizzare la Rete per trovare nuove opportunità di lavoro. Il 31% degli intervistati dichiara addirittura di essere in grado di trovare un lavoro online nel giro di 24 ore.
Certo non mancano nemmeno le contraddizioni. Sebbene lavorare freelance sia sempre più frutto di una scelta e non di una costrizione, il reddito incostante è ancora il centro dei problemi. Ad esempio, tra le tipologie di lavoro freelance evidenziate da questo studio spicca quella dei moonlighters, lavoratori che “arrotondano” un reddito altrimenti insufficiente svolgendo lavoro freelance nelle ore serali. Appare sempre più centrale negli Stati Uniti il ruolo svolto proprio dalla Freelancers Union, non solo nelle relazioni industriali ma come interfaccia per ottenere più welfare per i freelance – un ruolo che qui da noi sta cercando di assumere Acta, il sindacato delle partite IVA. Un recente studio mostra che l’adesione alle unions è in crescita negli Stati Uniti nella fascia più giovane dei lavoratori, e in particolare fra quelli della conoscenza e quelli dei servizi, come ristoranti e bar, accomunati da un insolito destino. A distinguerli, però, c’è proprio quell’ethos imprenditoriale per cui fluttuano tra gli algoritmi e fanno trading della loro reputazione. Anche se, per loro, la Borsa funziona un po’ come TripAdvisor.