Nei troni e nei totem di Adolf Vallazza / L’antico silenzio delle montagne
Novembre 2019, dopo alcuni giorni di neve salgo verso Ortisei, vado in visita da Adolf Vallazza, artista del legno. Dei troni e dei totem. Dei Don Chisciotte e delle civette, degli uomini che leggono e che pensano. Ma è anche un amico colpito da un grave lutto.
Nel salone per le esposizioni, una serie di troni disposti a cerchio da sua figlia Sabina. Si avverte subito il loro slancio verso l’alto, e una sorta di quieta eleganza: sembrano in attesa di un incontro tra antichi cavalieri, “amanti di cortesie fuggite”, sognatori di montagne, viaggiatori. In quei troni Adolf vede le altezze e sente l’eco delle montagne, evoca le leggende di Karl Felix Wolff e dei Monti Pallidi, ma anche culture lontane e diverse: lavorandoli sente tutta la storia di quei legni antichi e la possibilità di dar loro una nuova vita.
Le sue opere nascono quasi sempre da un’idea stilizzata a matita su un foglio, poi un disegno a colori, sufficientemente definito, poi un dipinto vero, e la scelta del legno, infine il lavoro di intaglio, levigatura e incastro.
Nato nel 1924, cresce in un ambiente che soffre l’italianizzazione forzata avvenuta dopo la fine della Grande Guerra: la tradizione del legno non è solo un buon modo di guadagnarsi il pane, ma anche la possibilità di preservare l’identità di un popolo. Oltre che per la scultura, ha anche una grande passione per la pittura, nata probabilmente ammirando le opere del nonno materno Josef Moroder Lusenberg, forse il più importante pittore ladino, abile nel ritrarre con sensibilità uomini e paesaggi; le sue opere si possono ammirare nella chiesa di Ortisei e in molti altri luoghi del Trentino.
Adolf dimostra presto una straordinaria abilità tecnica, scolpendo volti e figure di impressionante forza e aderenza al vero. In seguito, su libri e cataloghi scopre l’arte, e gli viene il desiderio di superare la ripetitività dell’artigianato gardenese, fatto di vie Crucis, presepi, pastori, cacciatori, animali, un mondo immutabile che si ripete all’infinito come in una bolla di vetro. Potrebbe divenire un bravo artigiano, con una vita tranquilla cadenzata dal passare delle stagioni e dei turisti, ma decide di intraprendere un’altra strada.
Visita la Biennale di Venezia, impara a conoscere Picasso, Braque, Brâncuși, Giacometti, Moore, Cascella, Marini. Soprattutto lo scultore romeno Constantin Brâncuși, è per lui un forte riferimento, per la sua capacità di ridurre i volumi, mirando all’essenziale. Scolpire figure realistiche è comunque una premessa necessaria, la tecnica e la conoscenza del corpo umano sono per Adolf un passaggio obbligato per qualsiasi artista, solo dopo si può aspirare all’astrazione.
Pochi giorni prima della mia visita è scomparsa Renata, la compagna di tutta una vita. Si sposano nel 1952, Renata Giovannini è una ‘straniera’, di Pesaro, venuta in villeggiatura a Ortisei, un’unione difficile in quegli anni e in quei luoghi. Per Adolf è l’incontro più importante della sua vita: sia per i lunghi decenni di amore e complicità che vivranno insieme, sia soprattutto perché lei lo incoraggia a rischiare, a cercare l’arte. Adolf ha l’abitudine di fotografare le sue opere e Renata ha il coraggio di prendere un’iniziativa inconsueta per quei tempi: parte da sola per Milano e porta le foto ai più importanti galleristi. Questi apprezzano, non lo invitano per una esposizione ma lo indirizzano alle gallerie del Trentino, affinché cominci da lì. Adolf ha poi l’amara sorpresa di dover pagare un costo non lieve a una nota galleria di Trento, ma è comunque un inizio, decisivo: da lì in avanti il suo percorso artistico non si ferma più. Sceglie di restare ancorato a Ortisei, perché, pur sentendosi in parte diverso per gusti e apertura verso mondi e culture lontane, ama profondamente quella piccola patria e la sua storia. Qualche anno fa ho chiesto a Renata se erano stati duri i suoi primi anni in Val Gardena. Lei ha sorriso, mosso la mano come a scacciare qualcosa davanti al viso, e mi dice: “Avevo tanto da lavorare per i miei quattro figli e anche per Adolf, sono passata sopra a tante cose”.
L’idea dei troni nasce alla fine degli anni Settanta proprio grazie a una intuizione di Renata. Guardando alcuni totem più lunghi e alti di altri gli dice: “Sembrano delle spalliere di un trono, prova a trasformare questi totem in sedie. Prova a creare qualcosa che aggiunga funzionalità e umanità”.
I troni hanno schienali allungati, sproporzionalmente alti, forme che richiamano a volte i castelli del Tirolo, altre volte la verticalità di certe crode dolomitiche, altre volte lo slancio vitale degli alberi. Chi ha provato a sedersi su un trono ne ha scoperto una imprevedibile comodità. Vuoti, nel silenzio dell’atelier, evocano assenze perse nel tempo.
“Come per le montagne, è la prospettiva frontale a catturare lo sguardo” mi spiega Adolf, “Non è necessario girargli intorno per capire cosa c’è dietro”.
Nello studio-laboratorio dove Adolf lavora da tanti anni, ammiro una grande scultura in legno che, mi dicono, abbellirà la tomba di Renata: una porta, alta, volta non a chiudere ma ad aprire lo spazio e il tempo. Come sempre l’ha prima immaginata e disegnata, i fogli sono ancora lì nella sua scrivania. “Mi è sempre stata vicina, mi aveva tanto incoraggiato quando ho iniziato la via dell’arte. A volte mi sembra di vederla, mi viene da parlare con lei, ma lei non c’è più”.
Nel salotto di casa dove Renata amava lavorare a maglia e discorrere con garbo e ironia, si percepisce un senso di vuoto, di parole inascoltate; è rimasto il suo viso sorridente, impresso nel bronzo tanti anni fa da Augusto Murer, lo scultore di Falcade amico di Adolf. Entrambi per un certo periodo sono accomunati da un modo di scolpire che fa emergere dal legno figure umane raccolte e contratte, piene di forza e di dolore trattenuti: è il periodo dei ‘torsi’, soggetti intagliati in forme ruvide su tronchi di legno, spesso di olivo, seguendo uno stile che si avvicinava all’Espressionismo: l’abbraccio disperato di Il figliol prodigo, l’abbraccio sensuale e avvolgente di Paolo e Francesca, la forza trattenuta del Centometrista, il tragico torso con fori denominato Massacro, che evoca le tragedie del ‘900, l’enorme Crocefisso con un Gesù disperato che alza le braccia al cielo (oggi nella chiesa di Pegli, in Liguria).
Le stanze dello studio-atelier profumano di cera d’api, sono popolate di legni antichi e di ombre. Dopo il periodo dei torsi, viene il tempo dei totem, figure dense di richiami storici, epici, architettonici, naturalistici: don Chisciotte, civette, Menhir, alberi, antichi strumenti musicali. Per realizzarli Adolf ha un’intuizione che nasce dal caso: un vicino recupera molti legni antichi dalla dismissione di un vecchio maso e li accatasta proprio nei pressi della sua casa, in attesa di utilizzarli come legna da ardere. Adolf rimane colpito dalla bellezza e dalla vita di quei legni antichi, e gli sembra terribile l’idea che finiscano in brace. Decide di acquistarli, e immagina per loro una nuova esistenza. I totem nascono quindi dall’assemblaggio e dal lavoro di intaglio su una materia antica, restituita agli sguardi e al tatto di chi li va ad ammirare: legni di cirmolo, di abete, di larice, di pino; un tempo assi di porte, imposte di finestre, rivestimenti di stuben, scale, scandole. Il legno cambia colore nel tempo a seconda dell'esposizione al sole: nelle superfici a nord muta in un grigio color cenere, mentre in quelle esposte a sud assume tinte rossastre striate di giallo e di bruno. Per molti anni Adolf recupera porte, tavoli e finestre da masi centenari in disuso, salvandoli da una distruzione sicura; negli ultimi decenni il loro utilizzo diviene poi una foggia, e la ricerca di Adolf si fa via via più difficile. Quei legni sono divenuti altro: totem con una parte centrale a volte aggrovigliata, e le aree esterne più geometriche e distese, quasi a raccogliere e diffondere la luce; troni dove l’armonia e l’intarsio si sviluppano in orizzontale per accogliere, lungo linee verticali per inseguire il tempo, passato o futuro. Su alcune opere sono ben visibili i segni antichi di scarponi chiodati, di limature e di segni indecifrabili; mondi lontani e perduti sono passati tra quei legni, accarezzandoli, annusandoli e scrutandoli nella penombra se ne avverte l’eco.
Il legno, a differenza della pietra, del ferro e del bronzo, ha vissuto, ha un passato, visibile nelle linee dei suoi cerchi e nei colori imposti dal sole e dal gelo. Quando usa il legno di ulivo per realizzare figure umane, nel periodo dei tronchi, Adolf cerca di “vedere” le forme già contenute in esso, cercando poi di trasformarle in altro senza stravolgerle. Componendo i totem e i troni con il legno di larice e di abete lavora con lo stesso rispetto della materia, cercando di mantenere i colori originari, armonizzando le linee del legno con quelle dell’opera.
Nel corso degli anni i legni antichi di Adolf si sono sempre più alleggeriti, l’artista ha lavorato più per togliere che per aggiungere, cercando l’essenziale e l’armonia delle linee scultoree, giocando con la luce.
Attraverso le ampie vetrate del suo studio si vedono il cielo e alcune cime innevate. “Montagne a parte, vivi bene adesso qui a Ortisei? È cambiata molto, vero?” Adolf sorride: “Si, hanno costruito tanto, troppo, ingrandito alberghi, cercato ricchezza oltre il necessario. Intorno alla mia casa ricordo prati e alberi che sono stati sommersi dal cemento. C’è sempre stata diffidenza verso la mia arte, e questo mi ha dato dispiacere, però ho sempre avuto amici e persone che mi hanno voluto bene”. Tra loro, Sandro Pertini, che amava le montagne e tornava spesso in Val Gardena. “Ricordo perfettamente il 2 agosto del 1980: Pertini era qui, nel mio studio, e all’improvviso arrivarono i carabinieri, gli dissero qualcosa – seppi poi che si trattava della strage della stazione di Bologna – il suo sguardo divenne cupo, non disse una parola, si scusò e mi salutò, doveva partire per Roma”.
Sabina mi spiega che Adolf lavora ancora, con la passione di sempre, nonostante tutto. “È giusto, tua madre avrebbe voluto così” le dico. Adolf mi saluta donandomi un piccolo uomo che legge realizzato non molti giorni prima, un inaspettato segno di amicizia: “Passaci la cera d’api una volta all’anno, e il giorno dopo spazzola con un pennello”. Io guardo quegli occhi celesti ancora tenaci e guizzanti, e penso che lavorerà finché avrà occhi e mani per farlo, l’arte è la sua vita.
Tonino Guerra, scrittore, poeta e scenografo, gli dedicò una poesia: “I legni che sono stati leccati da bestie solitarie / e hanno sentito la voce della neve e del vento, / adesso hanno preso l’impronta di un uomo che gli ha cambiato vita / senza togliergli di dosso la storia che hanno / e tutto il silenzio delle montagne”.