Conrad, linee d'ombra e capitani coraggiosi
Secondo Italo Calvino, il midollo del leone della narrativa di Joseph Conrad è “una integrazione nel mondo conquistata nella vita pratica, il senso dell’uomo che si realizza nelle cose che fa, nella morale implicita nel suo lavoro, l’ideale di saper essere all’altezza della situazione, sulla coperta dei velieri come sulla pagina”. Lo scrive in un articolo su L’Unità del 1954 (I capitani di Conrad); lo aveva affermato con altre parole qualche anno prima nella sua tesi di laurea proprio su Conrad e lo ribadirà nella sua ultima opera, Lezioni americane.
Calvino si riferisce soprattutto a opere come La linea d’ombra, Gioventù, Tifone, Al limite estremo, L’avventuriero, Lord Jim, Cuore di tenebra, dove il protagonista deve affrontare tempeste di mare, bonacce senza fine, ma anche i propri, a volte irrimediabili, errori. Rasentando l’abisso senza caderci dentro, come scrive Calvino – e questo vale per il Marlow di Cuore di tenebra –, o cercando disperatamente di risalirlo, per recuperare il proprio onore perduto, come farà Jim. A volte i capitani coraggiosi di Conrad superano la prova, come avviene al capitano MacWhirr di Tifone, che salva nave, equipaggio e coolies (lavoratori cinesi) stipati nella stiva, e al capitano Allistoun di Il negro del Narciso; altre volte vengono sconfitti nonostante lottino con tenacia sino alla fine, come il vecchio lupo di mare Peyrol di L’avventuriero, che lascia la tranquilla vita sulla costa che si era conquistato dopo anni di navigazioni da corsaro, e riprende il mare per difendere il suo Paese, e l’anziano capitano Whalley di Al limite estremo, che non si arrende alla sua infermità per dare un avvenire alla figlia.
L’importante, lascia trasparire tra le righe Conrad, è non arrendersi mai alle avversità e alla sfortuna, per senso di responsabilità verso se stessi e verso gli esseri umani di cui si condivide il destino. I veri sconfitti sono coloro che perdono la testa nel momento del pericolo, che tradiscono i propri principi per un momento di viltà, come il protagonista di Lord Jim, o per un gesto d’ira, per quanto comprensibile, come il giovane ufficiale Leggatt di Il compagno segreto. Sia Jim sia Leggatt sono dei one of us, fanno parte di una schiera di uomini di mare che credono sin da ragazzi nel coraggio, nella lealtà, nella generosità verso i compagni e verso gli altri esseri umani a loro affidati, ma alla prima vera prova perdono il timone della propria vita.
Spesso viene rimarcata l’eccezionalità di un autore che nasce nel 1856 in una famiglia polacca, studia il francese, impara l’inglese a vent’anni e diviene anni dopo uno dei più grandi scrittori britannici, ma è altrettanto rimarchevole la parabola di un ragazzino di Cracovia che sogna avventure sul mare nei libri di Victor Hugo, George Byron ed Herman Melville, e diviene un giorno capitano di una nave della Marina inglese. Passione per la letteratura e per la storia, e abilità ed esperienze sul mare si intrecciano saldamente le une alle altre nella vita di Joseph Conrad. Della sua competenza sul ponte di una nave ci è rimasta una testimonianza importante, quella dello scrittore John Galsworthy, che lo incontrò per la prima volta in Australia, nel marzo del 1894, a bordo di uno dei più bei clipper della Marina inglese. Galsworthy era un giovane uomo che non aveva ancora deciso che direzione prendere nella propria vita: diplomato in legge a Oxford, preferisce la letteratura e sta tornando da un viaggio nel Pacifico dove ha inutilmente cercato di incontrare Robert Louis Stevenson. Il viaggio di ritorno verso l’Inghilterra durò 56 giorni, e Galsworthy, il futuro autore di La saga dei Forsyte, ebbe modo di ammirare il valore di quel primo ufficiale: nel domare un incendio scoppiato nella stiva, nell’affrontare prima una burrasca al largo di Capo Leeuwin – la punta più a sud-ovest dell’Australia – poi un tifone in pieno Oceano Indiano, e nel guidare i marinai con l’esempio. “Tra loro era stimato e autorevole; per lui erano individui, non una mera ciurma”, così ricorderà quei giorni sul mare scrivendo un ritratto dell’amico dopo la sua scomparsa. Durante il viaggio i due divennero amici conversando di romanzi e di saggi storici, e così il rammarico per il mancato incontro con Stevenson scomparve di fronte alla nascita di un’amicizia che durerà sino al 3 agosto 1924, quando Conrad muore e viene sepolto nel piccolo cimitero di Canterbury.
Orfano a 11 anni, profugo a Marsiglia a diciassette – per inseguire i suoi sogni sul mare e sfuggire all’obbligo di prestare servizio militare per molti anni (ricadeva sui figli di condannati per motivi politici), Józef Teodor Konrad Korzeniowski (questo il suo vero nome) naviga poi per quasi vent’anni a bordo di velieri e piroscafi della Marina mercantile britannica, infine vive la terza parte della sua vita nella campagna inglese, con modeste risorse economiche per mantenere moglie e figli, stante le scarse vendite dei suoi libri (il primo libro di successo sarà Chance, nel 1913).
Il romanzo breve La linea d’ombra, pubblicato nel 1916, in origine avrebbe dovuto intitolarsi Primo comando, ed è la storia di un giovane ufficiale di Marina che si trova per la prima volta al comando di una nave, un magnifico veliero. Il libro è scritto e pubblicato durante la Grande Guerra, ed è dedicato a “Borys e a tutti gli altri che come lui hanno varcato nella prima giovinezza la linea d’ombra della loro generazione”. Borys, il figlio primogenito, era andato in Francia come volontario, per contribuire alla sua difesa dalle armate germaniche. Sopravvivrà, ma tornerà ferito e sconvolto. Joseph Conrad darà anch’egli un contributo personale nella lotta contro l’aggressione tedesca: si imbarca sul Ready, una delle navi civetta che, travestite da imbarcazioni commerciali, cercavano di attirare e poi colpire le navi da guerra nemiche. Conrad era convinto che Inghilterra e Francia, con tutti i loro limiti, fossero un baluardo di libertà e di civiltà nei confronti di un Paese militarista e liberticida come la Germania che, oltretutto, insieme alla Russia zarista occupava da oltre un secolo la sua Polonia.
Il sottotitolo del libro, Una confessione, il fatto che il nome del protagonista non venga mai indicato, la narrazione in prima persona e alcuni documentati legami alle vicende biografiche dell’autore – il primo comando, a bordo del brigantino a palo Otago – fanno immaginare che il giovane capitano sia proprio lui, Conrad: da quattro mesi ormai navigava come secondo ufficiale a bordo di un piroscafo a vapore, da un porto all’altro dell’arcipelago della Malesia, una vita monotona e senza futuro; l’occasione di un primo comando, su un veliero, gli era parsa imperdibile.
Così avviene nel racconto, stessa decisione di chiudere un’esperienza che poteva prima o poi far divenire il protagonista uno dei tanti “insabbiati” tra Borneo e Celebes, stessa irrequietezza, stessa scelta di cogliere al volo un primo comando, tornando alle vele e al rumore del vento.
Detto questo, il racconto si eleva a significati, rimandi e allegorie di valenza universale. Ransome ad esempio, il cuoco malato di cuore che aiuta con abnegazione il capitano sino all’ultimo, porta un nome che evoca un riscatto morale, una redenzione. La creatività di Conrad, più che in questi indizi evocativi, si avverte nella scrittura che, nel dipanarsi, dà respiro epico e forza drammatica alle vicende del suo primo comando: il filo della memoria diventa romanzo, opera artistica. Pensando alla famosa dicotomia di Walter Benjamin tra narratori e romanzieri, Conrad è senz’altro ascrivibile alla seconda categoria.
La vicenda inizia e si svolge con tempi lenti e una crescente tensione, poi, nella seconda parte, il ritmo diventa serrato e si entra nel cuore di una storia indimenticabile, che per molti rappresenta il punto più alto della sua narrativa breve. Il giovane capitano dovrà superare la lunga bonaccia che inchioda la nave in alto mare, la malattia che rende inabili quasi tutti i marinai, la fissazione del suo primo ufficiale Burns, che addebita la sfortuna della nave a una maledizione lanciata dall’ex capitano del veliero, la tempesta che li coglie nel momento di maggior sfinimento collettivo. Il giovane ce la farà, dominando le avversità e restando al comando sino alla fine. Non è un romanzo di formazione come L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson o Capitani coraggiosi di Rudyard Kipling, di superamento della linea d’ombra che delimita la vita dei sogni giovanili da quella della maturità: il giovane comprende presto che tutta la vita sarà un susseguirsi di prove da affrontare e superare. L’esperto e bonario comandante Giles gli suggerisce alcuni consigli per l’avvenire, per altre tempeste e altre bonacce che dovrà affrontare, anche quelle interiori: “…un uomo deve saper affrontare la sua cattiva sorte, i suoi errori, la sua coscienza e tutto questo genere di cose. Accidenti – contro che cos’altro vorrebbe combattere, altrimenti?”
I capitani di Conrad non vogliono sfidare tempeste o mostri marini come il capitano Achab di Herman Melville, vogliono solo resistere – a bonacce e a tifoni, a tenebre africane e londinesi –, tenendo salda la ruota del timone usque ad finem, salvando la nave, i marinai e la propria integrità.
Alcuni critici hanno individuato richiami ai drammi shakespeariani (soprattutto Amleto e La tempesta), altri a Coleridge (La ballata del vecchio marinaio). Józef aveva letto Shakespeare sin da ragazzino, e le tensioni che avvitano certi capitani di Conrad hanno indubbie affinità con i tormentati eroi del Bardo. Al contrario, la sfortuna che perseguita i velieri al centro della Linea d’ombra e del poema di Coleridge è l’unico punto di contatto. Le interpretazioni che coinvolgono l’ambito del sovrannaturale furono smentite dallo stesso autore nella prefazione a una ristampa di La linea d’ombra (1920): “Il mondo dei vivi contiene già abbastanza meraviglie e misteri”, le teorie del sovrannaturale sono “un insulto alla nostra dignità [...] vane favole comuni a tutte le epoche, di per sé sufficienti a colmare di indicibile tristezza chi ama il consesso umano”.
Quando il primo ufficiale Burns sostiene a più riprese che la nave sarebbe vittima dello spettro dell’ex comandante – un uomo spregevole sotto ogni punto di vista, umano e professionale –, il giovane capitano gli risponde sdegnato che non c’è alcun fantasma, e nessuna maledizione opprime la nave. Mare piatto e niente vento, malattia e paura, questi gli avversari da battere.
È di Cesare Pavese un rapido e memorabile giudizio che coglie l’essenza profonda di La linea d’ombra: «Conrad mantiene davanti all’enigma, all’angoscia del vivere, una ironica e rassegnata alterezza; alza le spalle e a denti stretti, se pur non convinto, sta sulla breccia e dà una mano, sempre distaccato, sempre corretto. I piccoli uomini che, febbricitanti e risoluti, tengono duro in questo racconto sulla bella nave stregata – gli umili e sorridenti che, senza un gesto, s’immolerebbero per i compagni – escono da una stirpe di coraggiosi, non di santi».
L’invito a non aver paura ha una valenza universale, vale per ciascuno di noi quando affrontiamo la prima linea d’ombra, e tutte le altre che verranno dopo. Conrad continua a dircelo con le parole del capitano MacWhirr “C’è una certa quantità di uragani in giro per il mondo, e non di più; è giusto passarci attraverso. Prua al vento, sempre prua al vento… Lei è un marinaio giovane. Metta la prua al vento. E testa a posto” e con il passo d’addio dell’avventuriero Peyrol “Questo è l’ultimo ordine che ti do. Ora vai a prua, e non aver paura di niente”.
In copertina, Joseph Conrad a bordo della nave civetta Ready, il 2 novembre 1916, durante la Grande Guerra.
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