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Immaginare il dopo / Cara plastica, ti scrivo
Cara plastica ti scrivo, così mi distraggo un po’. Da quando sei arrivata, c’è una grossa novità: sono finiti tempi d’oro, ma qualcosa ancora qui non va. Sembra che tutti si siano improvvisamente dimenticati di tutti i favori che ci hai fatto e così, mi dispiace dirtelo, sei diventata il nemico pubblico numero uno. Ti danno la colpa di tutto, dicono che se il pianeta sta andando in malora alla fine dei conti è per causa tua. So cosa stai pensando, che se qualcuno ti butta in mare bisognerebbe andare a chiedere a quel qualcuno, che c’entri tu? Il fatto che tu sia pressoché indistruttibile è una cosa meravigliosa, ma c’è chi per guadagnare di più ti ha usato per far cose che durano un giorno. Dubito sia stato per ignoranza.
Ricordi i bei tempi in cui per le signore bene il massimo della sostenibilità era ostentare una meravigliosa pelliccia di plastica? Pellicce ecologiche le chiamavano, e hanno continuato a osannarti, usandoti in borse e stivali esibiti con orgoglio ecologista. Il vento è cambiato, cara plastica. Ricordo che sei arrivata con una certa discrezione, a metà dell’Ottocento ti chiamavano Xylonite, evocando già quell’immaginario di futuro che è tipico tuo ed esploderà solo un secolo più tardi, tanto che forse anche la Kryptonite di Superman ti deve qualcosa. Certamente ti deve molto il cinema, se tu non ti fossi trasformata nel 1870 in Celluloide probabilmente il mondo non avrebbe mai conosciuto né Marilyn Monroe né Indiana Jones. Nel 1910 ti chiamavano Bakelite, nel 1912 PVC, l’anno dopo Cellophane, con cui continuano a farti avvolgere tutto quello che compriamo al supermercato. Ma è stato verso la fine degli anni Trenta che hai posto un problema fondamentale per chi crea, che sia un oggetto, una casa o un testo letterario: il problema della forma. Per tua natura non ce l’hai, esattamente come l’acqua prendi quella di chi ti contiene, quindi le puoi assumere tutte, gli unici limiti sono fisici e strutturali, derivano dall’uso che si farà di ciò che con te si vuole creare. Architetti e ingegneri si erano trovati a confrontarsi con lo stesso problema quando divenne d’uso comune l’uso del cemento, armato e non.
Essendo di fatto una pasta di roccia e di inerti, poteva assumere la forma che voleva dargli il progettista e spalancava una possibilità quasi infinita di soluzioni. Ci fu chi prese a sperimentare e ne scaturirono fantastiche strutture organiche, come fece l’architetto Erich Mendelsohn insieme a quelli che verranno chiamati espressionisti, tutti visionari dal talento vulcanico che progettarono e realizzarono edifici dalle forme curve e ardite fra i quali trova spazio anche il magnifico ingegnere italiano Pier Luigi Nervi, e ci fu chi preferì mantenersi sul sicuro e continuare a fare le cose dritte come se stesse usando solo una specie più sofisticata di mattoni.
Abbiamo dovuto aspettare la fine della grande guerra per cominciare a vederti entrare nelle nostre case e iniziare la tua vera rivoluzione. Ti ricordi la sedia DAR, Dining Armchair Rod? Era il 1948 quando gli americani Charles e Ray Eams parteciparono al premio Design for Modern Forniture organizzato dal MOMA con quella sedia rivoluzionaria per allora: sottili piedini di metallo a sostenere una scocca in vetroresina, materiale plastico rinforzato da fibre di vetro molto usato in nautica. Oggi quella sedia è tornata prepotentemente di moda realizzata in polipropilene, la si trova dappertutto, dai lounge bar agli uffici. La loro intenzione era “ottenere il meglio del meglio per il più gran numero di persone e al prezzo più basso.”
Cara plastica, è proprio questo il punto, tu non sei cara, anzi sei economica, umile, versatile, con te si possono fare cose che con gli altri materiali costerebbero molto di più e c’è stato chi ne ha approfittato mentre tu con grande modestia ti apprestavi a risolvere i nostri problemi di tutti i giorni come mangiare, per esempio. Ti ricordi la Margrethe? Non c’era del marcio in Danimarca quando, nel 1950, Jacob Jensen insieme allo studio di design di Sigvar Bernadotte e Acton Bjørn progettò una ciotola talmente perfetta che non si riuscì proprio a migliorarla e da allora milioni di persone in tutto il mondo la usano tutti i giorni. Quella ciotola diede l’avvio a innumerevoli altre ciotole, piatti, bicchieri, posate, bottiglie, tutte cose che usiamo quotidianamente.
Nello stesso anno il barone Marcel Bich ti usò per realizzare la penna a sfera più venduta del mondo, la biro Bic Cristal, cento miliardi di pezzi venduti da allora al 2005. Peccato che László Bíró, che gli aveva venduto il brevetto a pochi soldi, non fosse anche un buon imprenditore, oltre a essere inventore, giornalista, pittore, pilota e chissà cos’altro. Anche il barone comunque ebbe un colpo di genio quando nel 1973, capendo a fondo le tue possibilità, ebbe letteralmente un’illuminazione e inventò l’accendino che, con meno fantasia, ma facendo esultare i fan del brand, chiamò ancora Bic. Pare ne venda sei milioni di pezzi al giorno. Ho sentito qualcuno sostenere che il Bic sia l’unico vero esempio occidentale di abolizione della proprietà privata, essendo uno di quegli oggetti che passa continuamente di mano in mano e uno se lo ritrova in tasca senza avere idea da dove venga. Peccato Proudhon non abbia fatto in tempo a conoscerlo.
Ma rimaniamo ancora negli anni Cinquanta perché è nel 1953 che, dopo esserti mescolata ai tessuti di origine naturale e avendo dato vita a indumenti completamente composti dalle tue innumerevoli varianti, iniziasti una silenziosa rivoluzione che portò in breve tempo i giovani di tutto il mondo a ribellarsi, liberarsi e sconvolgere ogni tradizione. Allan Grant era il figlio di un produttore di tende del Nord Carolina, e quell’anno era felice perché sua moglie aspettava il loro primo figlio. Una sera lei si lamentò che indossare la giarrettiera durante la gravidanza era davvero molto scomodo. Allan era un marito premuroso e cominciò a pensare. Le calze femminili erano state una delle tue prime conquiste, già nel 1939 il nylon aveva sostituito la seta, e pensa che ti ripensa, alla fine Allan trovò la soluzione. Perché non farle continuare ad avvolgere il corpo fino alla vita? Non sappiamo come accolse Grant senior l’idea del premuroso figlio, forse con scetticismo, visto che è solo cinque anni più tardi, nel 1959, che la sua azienda, la Glen Raven Mills, accanto alla solita noiosa produzione di tende, affiancò quella dell’indumento che rivoluzionerà le abitudini delle donne di quasi tutto il pianeta: il collant. Senza il collant, non sarebbe potuta esistere la minigonna, lanciata a Londra da Mary Quant solo quattro anni più tardi. Che ne sarebbe stato della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta senza i collant?
L’anno dopo, nel 1954, il brillante ingegnere chimico italiano Giulio Natta mette a punto il polipropilene che entrerà in tutte le nostre case col nome di Moplen. È fatta, ormai sei dappertutto e anche il bel design se ne accorge e in quello stesso anno è un secchio per strofinacci, il KS1143 disegnato da Gino Colombrini, a prendere il prestigioso premio Compasso d’Oro. Lasciamo stare tutti quegli oggetti che poi qualcuno chiamerà icone del design, parliamo solo di quelle cose che ci stanno intorno ogni giorno, questo mi piacerebbe che chi ti denigra oggi si ricordasse. E abbiamo parlato solo degli anni Cinquanta, ci sarebbe tanto altro da ricordare, anzi, questo è solo l’inizio. So cosa stai pensando. È inutile, l’uomo dimentica ed è ingrato. Quando qualcosa gli serve la usa, poi la getta via, nasconde la mano e dà la colpa ai cotton fioc. Ma i tempi sono cambiati, cara plastica. È arrivato il momento di immaginare una architettura e un design del dopo.