Ulrich Beck: la catastrofe ci salverà
Ulrich Beck, insieme a Bruno Latour, Peter Sloterdijk e Heiner Mühlmann (con gli ultimi due in età avanzata, ma ancora attivi dal punto di vista intellettuale) forma una costellazione, un quartetto intellettuale, del tutto peculiare, che ha avuto la capacità e l’interesse di gettare un ponte tra individuale e collettivo come pochi altri negli ultimi decenni hanno saputo fare.
Questo ponte che unisce singolo e collettivo, processi di ominazione e socializzazione, di trasformazione della mentalità e delle pratiche, a fronte della crisi economica, energetica, e soprattutto climatico-ambientale diventata drammatica negli ultimi anni non può che prendere la forma di una riflessione sull’ecologia.
Il “discorso sulla casa comune” – che è il significato letterale di “ecologia” – è, infatti, un discorso che può sorgere solamente da processi di teorizzazione che fin dall’origine tengano presente il fatto che “i collettivi” sono enti più ampi di quelli formati dai soli esseri umani.
L’ecologia, nella sua versione migliore (vale a dire quella meno antropocentrica), si pone infatti come un discorso che coinvolge una serie di attori – umani e non umani, fisici e simbolici – che Latour chiamava “attanti” e che vedeva interconnessi in reti.
Se Latour vedeva nell’ipotesi di un “parlamento delle cose” una possibile soluzione per dare voce agli attanti non-umani, coinvolgendoli nei processi politico-decisionali tramite delle rappresentanze ad hoc, il “sociologo del rischio” Ulrich Beck, scomparso nel 2015, rimaneva più sul campo a lui proprio, quello della sociologia, e si interrogava, poco prima di morire, sulle potenzialità politiche per i collettivi umani che può avere una presa di coscienza della crisi ambientale. Nel saggetto postumo uscito recentemente per Castelvecchi dal titolo Come il cambiamento climatico potrebbe salvare il mondo, Beck parte, innanzitutto, da una presa di posizione radicalmente anti-negazionista: il cambiamento climatico c’è, ed è impossibile negarlo. Ma questo non significa che l’unica attitudine di fronte ad esso sia quella dell’immobilismo e della rassegnazione, perché «il rischio non è la catastrofe» (p. 29), e non bisogna cadere nell’impasse psicologica per cui, trasformando la catastrofe a venire in catastrofe presente, si rinuncia ad agire nel mondo.
Beck ci invita, piuttosto, a rovesciare il punto di vista e a chiederci – come viene espresso icasticamente nella lunga introduzione da Danilo Selvaggi – «non come il mondo può salvarsi dal cambiamento climatico, ma come il cambiamento climatico può salvare il mondo» (p. 10). Bisogna, insomma, pensare al potenziale emancipatorio della catastrofe e ai modi in cui questo possa essere messo in atto (p. 23).
Come attivare questo potenziale? Innanzitutto riconoscendo che c’è una base logica e ontologica al fondo della crisi climatica: il considerare tutto ciò che non è umano come un qualcosa di estraneo e sfruttabile – un “fondo disponibile” lo aveva definito Martin Heidegger in tempi non sospetti – che appartiene al regno del non-essere (in senso proprio). Lo sfruttamento del mondo non-umano (oltre che di quello umano, naturalmente) così espulso dalle categorie logico-ontologiche della Modernità occidentale è il frutto dell’azione politica del capitalismo industriale, secondo Beck, che si è incarnato in politiche statali chiuse su se stesse e incapaci di pensare globalmente.
Beck, criticando queste politiche statali, vi contrappone quelle che a suo parere potrebbero sostituirle in maniera positiva, incentrate sul ruolo della città e del cosmopolitismo: «La sociologia cosmopolita, insomma, deve riorientarsi verso un futuro sconosciuto e inconoscibile, reso presente entro gli orizzonti temporali del rischio globale» (p. 35). L’accenno precedente di Beck a una (cosmo)politica a venire viene sviluppato dall’autore nella direzione di un ripensamento delle categorie del politico (e non a caso il referente polemico del tedesco è il suo connazionale Carl Schmitt) che guardino al di là dei confini di una politica meramente statale, cioè limitata territorialmente. La politica statale, infatti, secondo Beck, è una politica legata a doppio filo alle categorie politiche della Modernità, quelle su cui si incardinava la teoria giuridica e politica di Schmitt: Nomos della terra e divisione amico/nemico. Per Schmitt – o, quanto meno, per lo Schmitt di Beck – la politica coincideva con la storia dell’inimicizia orientata all’appropriazione territoriale: non a caso, per il giurista di Kassel, era la dicotomia amico/nemico (che poteva essere prolungata in linea di principio fino all’annientamento fisico dell’avversario) a strutturare l’universo della politica. A quest’idea Beck contrappone una sorta di aut aut cosmopolitico: «cooperare e condividere oppure non cooperare e perire» (p. 43). La società attuale, secondo Beck, infatti, non è in grado di fronteggiare i problemi sistemici posti dalla crisi climatico-ambientale attuale se non rinunciando alla politica statale, vale a dire a una politica di potenza individuale-territoriale, che funziona giocoforza a detrimento di altre entità statali-territoriali. Da qui la necessità di sviluppare un “senso comune cosmopolita” che non consiste altro che nell’accettazione politica che «nella società mondiale del rischio, paradossalmente, la cooperazione tra nemici non si basa sul sacrificio, ma sull’interesse personale» (p. 44).
Beck si rende conto delle difficoltà a cui un cosmopolitismo politico andrà incontro: la politica, da secoli, è politica degli Stati nazionali, il cambiamento di rotta appare difficile. La soluzione del sociologo, quindi, non può che essere quella di una proposta, che però ha il pregio di avere due aspetti: uno pragmatico e uno utopico.
Dal punto di vista pragmatico per Beck una vera (cosmo)politica non potrà che essere il frutto di un equilibrio cercato tra conflitti e alleanze, ossia una sorta di proseguimento della politica nazionale con altri mezzi (ma neanche troppo dissimili da quelli “classici” della politica).
È forse però quella maggiormente “utopistica” la proposta beckiana più interessante: secondo questa idea – davvero utopistica, ossia pensata a partire da luoghi cittadini che ancora non esistono in quanto enti compiutamente politici – saranno i conglomerati cittadini i veri attori della “cosmopolitica” a venire:
«L’umanità ha iniziato all’interno della polis – la città – la sua avventura politica. […] oggi lo Stato-nazione sta fallendo di fronte ai rischi globali. Le città, che nella Storia hanno costituito la base sociale dei movimenti civici per la libertà, nel mondo cosmopolitizzato di oggi, caratterizzato da minacce globali, potrebbero tornare ad essere la migliore speranza per la democrazia» (p. 59).
I modi in cui la speranza cosmopolitica di Beck nelle città dovrebbero entificarsi in concrete azioni politiche non vengono sviluppati dal sociologo, che aveva progettato il testo solo in fase embrionale, prima di essere stroncato da un infarto.
La sua proposta, però, resta attuale: non è un caso che, ogni volta che un ordine costituito viene messo in crisi, si faccia appello alla parola-chiave del cinismo antico “cosmopolitismo”, che porta con sé l’aspirazione ad abitare un ordine altro rispetto a quello dei rapporti materiali vigenti.