Musei dell'Est (3) / La DDR rinata a Berlino
Berlino è la città in cui, rispetto alle due precedenti, esiste una peculiare categoria culturale di cui è necessario tener conto se si parla di vita quotidiana ai tempi del comunismo e di sua rivisitazione museale: la nostalgia, anzi, la Ostalgie. Quel fenomeno di rimpianto per l’Ost (est) che dalla cosiddetta Wende (svolta, crollo del Muro e successiva riunificazione delle Germanie) in poi ha conosciuto diverse fasi e assunto molte sfumature differenti. Una non trascurabile parte degli ex cittadini della Repubblica Democratica Tedesca, a eccezione di quelli che hanno immediatamente colto l’occasione per spostarsi il più lontano possibile dai territori che ancora odoravano di socialismo, prova un sentimento di malcelato fastidio nei confronti della riunificazione.
A quell’evento guarda come a un’annessione da parte del potere forte occidentale che del paese comunista cancellato dalle carte geografiche ha voluto fare piazza pulita e che, liquidandone le pur discutibili componenti politico-ideologiche, non ha risparmiato nulla, né tradizioni culturali, né abitudini quotidiane, né specificità architettoniche. La prevaricazione occidentale, e le sue conseguenze socio-politico-economiche che si riscontrano oggi in molti Länder dell’est, ha portato allo svilupparsi del sentimento di rimpianto, non tanto per la dittatura o per la gestione politica in senso stretto (anche se non mancano nostalgici del Muro), quanto per un mondo oggi disprezzato, talora irriso, spesso mitizzato, di cui si è voluto con troppa furia spazzare via ogni traccia. Il problema è estremamente sfaccettato e delicato e meriterebbe ben più profonda attenzione. Lo cito sinteticamente per introdurre il discorso ai musei che a Berlino e nella regione del Brandeburgo, nel corso degli ultimi decenni (limitandomi ad alcuni tutt’ora aperti al pubblico), hanno messo in scena narrazioni del passato comunista.
Boris Groys, argomentando il ruolo dei musei dopo il crollo di uno stato nazionale, sosteneva già nel 1996: “Un’incredibile quantità di documenti, simboli di potere e oggetti prestigiosi appartenenti alle sfere del culto e dell’ideologia, ma anche della vita quotidiana, hanno perso le proprie funzioni primigenie per diventare un mucchio di spazzatura”. Da questo “mucchio di spazzatura” è necessario scegliere quegli artefatti che rispondono a esigenze identificate da curatori responsabili, evitando il generico affastellamento da bazar, e procedere con la risemantizzazione che ne trasforma il valore funzionale o commerciale in “valore espositivo”, ciò che Walter Benjamin aveva accostato al significato di aura. Diventano rappresentazioni di storia, cultura, nazioni. I visitatori li osservano assecondando il nuovo significato che questi hanno acquisito (Patrizia Violi).
La cultura materiale della quotidianità è diventata il loro lasciapassare per una legittimata rappresentazione del passato. A prescindere dalle loro convinzioni politiche, i musei hanno avuto la necessità di convincere il loro pubblico di riferimento (ex cittadini della RDT, i loro figli, e turisti curiosi provenienti dall’Ovest e dall’estero) che gli oggetti sono, per così dire, portatori di oggettività (Jonathan Bach).
Privilegiare o scartare un oggetto per l’esposizione equivale a perpetuarlo o cancellarlo nella memoria culturale. Consapevoli che si realizzerà un “sito della memoria”, una situazione in cui il “trauma” (inteso come realtà effettuale) sarà rappresentato, mediato, trasfigurato ma diverso da ciò che era stato nei “luoghi della memoria”, in cui lo si era autenticamente vissuto. Il discorso si complica se si presta attenzione alla più recente funzione che l’arte contemporanea attribuisce agli archivi.
Il postmodernismo ha dimostrato che gli archivi non sono mai uno spazio neutrale, che c’è sempre qualcuno dietro di loro che crea gerarchie tra i documenti, raccogliendoli, selezionandoli e classificandoli – spesso controllandone l’accesso. L’archivio è senza alcun dubbio un’istituzione di potere, e come tale deve essere costantemente messo in discussione sia come garante di conoscenza che di verità storica. (Cristina Baldacci).
Assurdo quindi in questo tipo di musei insistere (e illudere) sull’immersione in un’esperienza “autentica e completa”. Gli studiosi hanno segnalato il profondo distacco tra le riproduzioni nostalgiche edulcorate e l’effettiva traumaticità della storia” (Ekaterina Kalinina). Ha scritto Eva Banchelli: Si tratta, in ogni caso, di paradigmi selettivi che attuano pesanti semplificazioni riducendo la storia dello stato tedesco-orientale e la sua complessità a quella di un regime compattamente totalitario e criminale, da un lato, o a una sorta di Disneyland ostalgica dall’altro.
Più onesto e coerente sarebbe offrire suggestioni abbinate a documenti e informazioni che diventino strumenti di indagine per approfondire quel determinato concetto o stato di cose con l’aiuto dei materiali esposti. Soprattutto non contribuendo a far sì che la storia si trasformi in souvenir e facendo in modo che il ruolo di mediatore che il museo rappresenta non si carichi di retorica, da un lato, né rinneghi il passato dall’altro.
Il DDR Museum (ultima visita 25 agosto 2021), al momento il più conosciuto e popolare della capitale tedesca (vanta mezzo milione di visitatori all’anno), aprì le porte della sua prima esposizione permanente nel 2006 su iniziativa privata e celebra oggi la propria floridezza priva di finanziamenti di sorta, basata esclusivamente sugli introiti dati dai visitatori (9,80 euro il biglietto d’ingresso). È collocato in posizione centralissima, su una banchina da cui partono battelli per escursioni lungo la Spree.
Possiede una collezione di 300.000 artefatti, 13.000 già digitalizzati, sotto la cura del dott. Wolle, responsabile anche dei volumi, per ora tre, che propongono la storia della DDR attraverso gli oggetti (100 euro l’uno). Imposta la promozione sulla totale interattività dei suoi reperti: i visitatori possono (anzi devono) toccare le cose, aprire cassetti e armadi, addirittura indossare abiti e giocare con gli oggetti.
La nostra esposizione incoraggia i visitatori a toccare, percepire e interagire, al fine di ottenere una comprensione divertente e completa del passato. Esplorate tutti gli aspetti della vita dietro al Muro di Berlino e i meccanismi dello stato: la RDT a prima vista.
La dichiarazione del sito web esplicita due aspetti chiave: l’approccio ludico al passato e la possibilità di “comprendere” la DDR nella sua intera complessità grazie alla visita. Entrambi scarsamente convincenti. È strutturato tematicamente, non su base cronologica. L’interattività, pensata per rendere più autentica e credibile l’occasione, si risolve in infantili manovre di attivazione di meccanismi che animano fantocci o bandierine, nel sollevare la cornetta di un vecchio telefono, nell’apertura di stipi e cassetti che rivelano talora suppellettili, talaltra abiti o fotografie che potrebbero senza nulla perdere essere esposti in maniera consueta.
Sulla Trabant si può salire per giocare a guidare: c’è la fila per farlo.
Per visitatori (stranieri e non) della mia generazione (1952 e dintorni) si affaccia anche la possibilità di riconoscere utensili e situazioni che ripropongono il già citato problema di che cosa appartenga davvero al mondo del comunismo e che cosa, più genericamente, faccia parte di una certa epoca. Il banco di scuola in legno con il buco per il calamaio, le scricchiolanti poltrone sempre di legno al cinema (parrocchiale se non politico, con le rispettive programmazioni ideologizzate), certi elettrodomestici, certi materiali: formica, bachelite, plastica, hanno accompagnato l’esistenza di milioni di persone in paesi diversi tra loro e permangono, sia pur con differenziazioni, nelle memorie collettive. Opportuno e apprezzabile sarebbe che l’esposizione sottolineasse proprio le differenziazioni, in termini di epoche di uso, persistenza funzionale nel tempo, diffusione, costi. Anche per evitare che giovani visitatori attribuiscano a determinati manufatti, stili o comportamenti specificità che non appartengono loro in esclusiva.
Abbondano i diorami illustrativi (struttura del Muro, spiaggia nudista) e non manca la ricostruzione di un appartamento. La dominante ludico-irrisoria si manifesta anche nello specchio “magico” in cui si può inquadrare il proprio viso per un selfie su un manichino senza testa in abito socialista con lo sfondo della stanza da letto.
L’aspetto commerciale trova il suo compimento orgiastico nel grande spazio souvenir. Sullo sfondo del grande murales di Ronald Paris, Elogio del comunismo, che troneggiava originariamente sulla gigantesca Casa della statistica a ridosso di Alexanderplatz, sfilano decine di porta uovo, altrettanti pezzi di muro con certificato di garanzia, gadget di ogni genere e grado fino a fotografie tridimensionali di Honecker e, per non farsi mancare nulla, Nefertiti (siamo a Berlino, o no?).
Uscendo da questo caotico assemblaggio di pseudo-emozioni, e risalendo le scale per guadagnare Karl-Liebcknecht-Straße, al di là della strada fra gli alberi, si scorgono le sagome di Marx ed Engels con lo sguardo più fisso che mai puntato oggi sull’Humboldt Forum, la parte moderna del Castello prussiano recentemente ricostruito.
Dal 2013 Berlino offre anche una più ridotta ma assai più apprezzabile esposizione permanente dedicata alla vita quotidiana nella DDR (Alltag in der DDR), organizzata dalla Stiftung Haus der Geschichte der Bundesrepublik Deutschland (Fondazione Casa della Storia della Repubblica Federale Tedesca), ospitata nella sede della Kultur Brauerei, l’ex birrificio Schultheiss interamente trasformato in centro culturale (ultima visita 18 agosto 2021). Il suo spirito è più rigoroso e filologico del museo procedente e l’ingresso è gratuito.
Il sito web informa che l’esposizione mira a documentare come “il regime comunista abbia modellato la vita quotidiana e come le persone abbiano affrontato carenze e limiti e dove abbiano potuto trovare la libertà”. La domanda che si pone: “Come ha funzionato uno stato, in cui un panino è costato 5 pfennig per 40 anni, ma le banane scarseggiavano?” sottolinea aspetti importanti per la discussione: la garanzia di non far mancare mai il pane e assicurarlo a ogni componente della società, ma a costo di rinunciare a prodotti considerati non essenziali o di lusso, scatenando in questo modo un desiderio quasi morboso di cose proibite.
Non si promettono fittizie immersioni totali nell’esperienza, né miracolose illuminazioni su quarant’anni di regime totalitario. La raccolta di oggetti di cui dispone oggi la Fondazione supera il milione di pezzi (reali e virtuali) e rigoroso è il criterio secondo il quale si procede alla catalogazione ed eventuale esposizione: “L’oggetto è tipico del suo tempo, o è assolutamente unico, o è associato a un’espressività speciale?” Nella dettagliata brochure relativa alla concezione che sostiene la collezione si specifica altresì: “Un oggetto acquisisce la sua qualità museale prima di tutto attraverso la sua attribuzione al contesto accademico richiesto. La decisione di inserire un oggetto nella collezione deve sempre avere una giustificazione scientifica o accademica.” Il percorso affronta i consueti temi del lavoro, dell’istruzione, del tempo libero, della cultura materiale (prodotti, distribuzione, consumo) senza trascurare i controlli politici e i conflitti sociali. Apprezzabile è il fatto che di molte realtà si manifestino anche gli aspetti positivi (investimenti nella cultura della quotidianità), pur senza nasconderne limiti e problemi né sfociare nella più crassa nostalgia. Il salotto di casa contiene anche una libreria a testimonianza dell’amore per la lettura (pur limitato dalla possibilità di reperire liberamente i testi),
il terrazzino della dacia, modesto ed essenziale, evoca serene giornate di relax (corredate da filmini in super 8),
la Kneipe (osteria-birreria), con menu autentici dell’epoca sul tavolino, testimonia di una vita sociale non necessariamente inficiata in ogni sua manifestazione del peso politico.
Non mancano l’ufficio del burocrate, le informazioni sulle code per gli approvvigionamenti e le scorte alimentari, le documentazioni sui dossier della STASI con le schedature dei cittadini,
E a questo punto torna il problema precedentemente accennato relativo agli archivi. L’immagine dei chilometri di faldoni tuttora conservati negli archivi della polizia segreta apre il discorso alle possibilità che un uso performativo di quei materiali potrebbe costituire.
Non soltanto come fonte di documentazione sull’attività di controllo sociale e politico, ma come materiale “artistico” da analizzare per realizzare un’innovativa narrazione del dolore, della sorveglianza, della punizione, dei rapporti tra quotidianità e istituzionalità.
Una Trabant fa anche qui bella mostra di sé, sormontata da una tenda da campeggio installata sul tetto a ricordo delle vacanze organizzate nell’agognata Ungheria, la più cosmopolita e “occidentale” delle repubbliche socialiste.
Azzardo, per ribadire il discorso sulle esperienze condivise e sulle rispettive specificità, il rimando a un’immagine cinematografica che ha fatto storia in Italia: Fantozzi in ferie alle prese con la sua Cinquecento stracarica di ogni masserizia. Ancora una volta emerge la necessità di collegare situazioni, abitudini, comportamenti apparentemente identici alla situazione specifica di ogni cultura per evitare sia le generalizzazioni che le attribuzioni peculiari non corrette.
La città di Berlino conserva ancora parecchie tracce del proprio passato comunista da offrire all’occhio attento di un visitatore, nonostante molte siano state le rimozioni o le dissimulazioni. Si pensi al Castello prussiano distrutto dai bombardamenti nella Seconda guerra mondiale, ricostruito oggi in copia conforme all’originale, al posto del quale era stato edificato il Palazzo della repubblica, onore e vanto della capitale socialista, smantellato dopo la Wende per far posto al nuovo simulacro. Tra i molti luoghi della memoria DDR mi limito a segnalarne due, per coerenza con gli interventi precedenti: la chilometrica Karl-Marx-Allee, iniziata nel 1949 come omaggio della Germania Orientale all’immancabile Stalin per i suoi settant’anni e realizzata secondo il modello moscovita degli “edifici alti” già incontrati sia a Praga che a Varsavia, e il quartiere di Marzahn, sorto negli anni Settanta con la tecnica dei pannelli prefabbricati (Plattenbauten). All’epoca distretto modello, ambito e prestigioso, oggi zona di seri problemi sociali dovuti alla disoccupazione, con punte gravi di xenofobia ed estremismo politico. Per la par condicio opportuno sarebbe visitarlo in parallelo a un coevo insediamento abitativo realizzato a Berlino Ovest: il quartiere detto Gropiusstadt, analizzandone comparativamente funzioni, esiti, sviluppi, eredità.
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