El Greco dopo Picasso

5 Febbraio 2024

El Greco è un artista così radicale nelle sue innovazioni, così moderno, che ci si stupisce che abbia trovato chi ne apprezzasse la grandezza già al suo tempo. Non molti, ma ci sono stati, anche se poi per quasi tre secoli la sua grandezza è stata misconosciuta, se non proprio dimenticata; mentre non stupisce che sia stato sempre più apprezzato a partire dal ‘900 e dalle avanguardie, che ne hanno saputo cogliere certe componenti anti- e ultranaturalistiche, che sono poi quelle da cui molte di esse erano scaturite e che propugnavano, e ne hanno subito l’influenza, o beneficiato: perché il peso della grandezza o schiaccia o libera. È come se soltanto di recente, dopo che i nostri occhi sono stati lavati da Cézanne e Picasso, si sia imparato a vederlo, prima ancora che a guardarlo. Lo si può verificare visitando la splendida mostra in corso a Palazzo reale, a Milano, che è stata prorogata fino al 25 febbraio. 

Nato a Creta nel 1541 da famiglia di fede ortodossa, Domínikos Theotokópoulos si forma su modelli di arte bizantina ma guardando ben presto ad alcuni pittori locali influenzati anche da Venezia, dove egli decide di trasferirsi nel 1567. Non si sa quando aderisce al cattolicesimo, ma deve essere abbastanza presto se si considerano alcune opere italiane dei primi anni settanta, come una Cacciata dei mercanti dal tempio e una Guarigione del cieco, che rispondono ai dettami del Concilio di Trento: i mercanti e il simboleggiando i ribelli protestanti, e il cieco gli eretici risvegliati alla vera fede, e probabilmente la sua adesione al cattolicesimo. 

Già prima di arrivare nella città lagunare il giovane artista dimostrerà di essere a conoscenza della pittura più recente, grazie anche alle stampe di cui si servirà per tutta la sua carriera, e cercherà di adottarne le innovazioni, specie coloristiche, fino a possederle con sicurezza, come si può evincere già da alcune opere a cavallo tra la fine degli anni ‘60 e i primi ’70, a cominciare dal sorprendente Trittico di Modena, altarolo portatile sfavillante di colori incendiati. 

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Trittico di Modena, 1567-69 circa. Modena, Galleria estense.

A Venezia frequenta, sembra, l’atelier di Tiziano, ma assorbe anche la lezione di Tintoretto e Bassano (presenti in mostra con alcune opere), che poi integra con la conoscenza del contesto romano, dove, invitato nel 1570 da Giulio Clovio e presentato come dotato ritrattista (subito riconosciuto come tale anche quando si trasferirà in Spagna, dove il suo più grande ammiratore sarà nientemeno che Velásquez), viene accolto da uno dei più grandi collezionisti del tempo, il cardinal Farnese. 

In mostra purtroppo di ritratti ce ne sono solo due, bellissimi però; a meno di non considerare tali anche alcune figure di santi dai tratti così fortemente individuali da far sospettare che siano di persone reali come si usava per i cosiddetti “retratos a lo divino” – come il San Luca che per alcuni potrebbe essere un autoritratto – che infatti condividono con quelli espliciti vari elementi tecnici e formali: sfocature ottiche, piccole asimmetrie anatomiche nelle spalle e nella postura da dare movimento e vita, ma soprattutto negli occhi e nelle commessure labiali, macchie cromatiche, effetti di non finito, profondità della caratterizzazione psicologica… segnalati da José Redondo Cuesta nel bel catalogo della mostra, El Greco. Un pittore nel labirinto (a cura di J. A. García Castro e P. Martínez-Burgos García, Skira, 2023).

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San Luca, 1602-1605 circa. Toledo, Cattedrale primaziale.
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Ritratto di Jerónimo de Cevallos, 1613 circa, Madrid, Museu Nacional del Prado.

Nei viaggi di andata e ritorno da Venezia si pensa che avrà avuto modo di conoscere anche il Parmigianino e Correggio, apprezzato più di tutti per la “grazia” e “facilità” con cui risolve i più ardui problemi pittorici, che per lui costituiscono la misura dell’eccellenza artistica. … “l’arte che presenti le maggiori difficoltà sarà la più gradevole e di conseguenza la più intellettuale” e la più perfetta perché non solo si prefigge di rappresentare tutto” ma “si occupa dell’impossibile””, nel senso dell’invisibile, di ciò che non può essere visto perché non appartiene a questo mondo, il soprannaturale, il divino, che si manifestano come corpi luminosi (come scrivono Giulio Zavatta e Alessandra Bigi Iotti nel catalogo). 

Non è quindi un pittore da bottega che egli intende essere (la sua peraltro sarà florida e molto efficiente), quanto un pittore-filosofo, come le amicizie che coltiverà in Spagna, dopo il suo trasferimento nel 1577, tra le quali va ricordata quella con Hortensio Paravicino, grande intellettuale e oratore suo amico intimo, che gli dedicò alcune poesie, e a cui fece un ritratto bellissimo, e soprattutto le numerosissime note da lui apposte a un’edizione di Vitruvio e alle Vite del Vasari, che mostreranno la sua avversione alla dominante concezione fiorentina e la sua preparazione anche teorica, non bastassero le opere a suggerirla.

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Annunciazione, 1576 circa. Madrid, Museu Nacional Thyssen-Bornemisza.

La mostra documenta sia il periodo cretese che i due veneziani e quello romano, con opere già di alta qualità raramente esposte insieme, anche se il suo piatto forte sono quelle, spesso ubicate in sedi non facili da raggiungere, dipinte in Spagna, quasi tutte a Toledo dove il pittore, divenuto nel frattempo El Greco, resterà fino alla morte nel 1616. È a Toledo che avverrà il grande cambiamento che porterà alla definizione di uno stile che lo renderà inconfondibile, grazie alle commissioni di importanti retablos che gli consentiranno di esprimersi, sia pure tra qualche periodico contrasto come per il famosissimo Espolio, in opere di grande formato e ambizione con una crescente libertà di invenzione che non era stata invece compresa a Madrid, dove si era recato nei primi tempi sperando di poter partecipare alla decorazione dell’Escorial allora in costruzione. A Toledo invece, città imperiale fino al 1560 ma ancora vivace intellettualmente ed economicamente e meno condizionata dalle regole e dai gusti della corte, grazie anche al sostegno di influenti protezioni e amicizie, la sua creatività non ebbe in un certo senso altri freni che quelli che si imponeva lui stesso, pur nella sincera consonanza di dottrina e di sentimento religioso con le scelte ufficiali in materia di fede e di arte della Controriforma oltre che con i gusti dei suoi committenti, usando “magistralmente le formule emozionali per metterle al servizio della fede” (id.).

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Spoliazione di Cristo, 1582 circa, Toledo, in deposito presso il Museo de Santa Cruz.

Le sue opere infatti intendono portare l’osservatore (il fedele) ad aderire emotivamente alle scene rappresentate, e persino a entrarvi, come se fossero, più ancora che rappresentazioni o visioni mentali, scene a cui egli stesso partecipa, spazi e azioni che è chiamato a condividere. I gesti e le posture delle figure sono scelti per guidare il suo sguardo, come l’indice puntato verso il fulcro della scena nel Cristo portacroce, e suscitare la più intensa commozione. La lezione dei grandi veneziani si sposa con quella elaborata dalla retorica dei predicatori; tra le scene sacre vengono preferite quelle più dolorose in ragione della loro potenzialità patetica, per indurre a meditazione, pentimento e preghiera. 

Il corpo, veicolo indispensabile a visualizzare l’esperienza spirituale, subisce deformazioni, si allunga, si contorce, e insieme si spiritualizza: è il luogo dove la spiritualità si manifesta e lascia il suo segno, come le stimmate degli stupendi San Francesco a cui in mostra è dedicato spazio a sé, e che poi si sprigiona sotto forma di lacrime di commozione e estasi. 

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Cristo che porta la croce, 1585-1590 circa. Barcellona, collezione privata.
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Foto allestimento con 3 quadri di San Francesco. Foto: Roberto Serra, courtesy: MondoMostre.

Non si contano gli occhi umidi rivolti al cielo, i nasi arrossati (oppure dritti e sottili, che a furia di essere rivolti in alto si appuntiscono come di tanti incipienti Pinocchietti), le palpebre gonfie, le labbra socchiuse spesso ridotte a uno sbaffo informe di carminio, e le mani contorte o atteggiate nei modi più espressivi, dove ciò che conta sono appunto solo il gesto e la postura, non la fedeltà della loro rappresentazione, che anzi spesso è volutamente approssimativa, non naturalistica, ridotta a segni affusolati senza articolazioni, a lunghe tracce di pennellate pure.

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Ritratto di Hortensio Paravicino (dett.), 1609 Boston, Museum of Fine Arts.
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San Luca (dett.), 1602-1605 circa. Toledo, Cattedrale primaziale.

Come fa con le regole della verosimiglianza codificate da Vasari e dai classicisti (da cui tuttavia prende senza risparmio e trasforma ciò che gli serve), così trascura sovranamente anche le leggi della fisica: in preda a un trasporto antigravitazionale, ciò che dovrebbe cadere (coltelli sui bordi dei tavoli, agnelli e bambini in grembo a sante e Madonne, ecc.) se ne sta bellamente in equilibrio sull’orlo di un precipizio incombente ma che non si dà direttamente a vedere, mentre lo spettatore sarebbe indotto a precipitarsi in loro soccorso per impedire qualche disastro; tutto si precipita verso l’altezza, si affina e si affila e si confonde, come i piani spaziali che trapassano l’uno nell’altro senza soluzione di continuità o viceversa con confini così marcati da indurre a pensare che abbiano anche la funzione di impedire al fedele non di smarrirsi e che l’angoscia spaziale offuschi il trasporto emozionale e la preghiera; le figure si rastremano, le teste rimpiccioliscono, e non importa se questo dipende anche dall’imponente misura delle opere e asseconda la loro collocazione elevata, tanto che anche lo sguardo dello spettatore-fedele si orienta da sotto in su, teso verso l’alto, verso i cieli, la musica celeste, la gloria, la luce senza difetti, eterna.

Il desiderio è tutto orientato lassù: gli sguardi di San Pietro e della Maddalena, penitenti che attendono solo il perdono e la salvezza; quelli degli apostoli e di Maria nella Pentecoste; di Gabriele annunciante; di san Francesco che riceve le stimmate e del povero che riceve il mantello da San Martino; e quello stesso di Gesù nell’orto degli Ulivi, o mentre porta la croce e soprattutto nel momento più tremendo del supplizio, che supera la disperazione per indirizzare al Padre la propria serena sopportazione, l’accettazione del carico di redenzione che gli è stato affidato.

In alcune opere il suolo e i riferimenti spaziali spariscono e tutto lo spazio della tela è saturato di figure e di masse di colori acidi in accostamenti imprevedibili, abbaglianti, che sembrano avvolgere anche chi osserva; in certe Annunciazioni il pavimento e i soffitti spariscono, le pareti sono sfondate, i tendaggi sembrano materializzarsi o dissolversi in fiotti di luce e tutto l’empireo precipitarvisi dentro. 

E quando compaiono, a volte persino i paesaggi e le città che si intravedono in lontananza nelle scene di santità e martirio o dietro la croce, tutti bassi sull’orizzonte, lividi, spettrali e come disabitati, verso cui si dirigono gruppi di persone a piedi e a cavallo con qualche abito e vessillo a dare le uniche macchie di colore a uno spazio quasi monocromo su cui incombe il buio fitto trapunto di squarci biancoazzurri contro il quale si stagliano, gigantesche, la croce e la bianca, estatica vittima sacrificale che vi è inchiodata, sembrano ridursi a pure forme, a linee che si incidono in masse e macchie di colori scuri, fantasmi di edifici e di colline, ombre che invadono la terra come le nubi nere dei cieli tempestosi o notturni che li sovrastano.

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Cristo agonizzante con Toledo sullo sfondo, 1604-1614 circa. Colección Banco Santander.

Spazi e piani prospettici e pittorici differenti convivono o trapassano gli uni negli altri in vortici di movimenti e di forme. A volte sono separati da qualche elemento naturale (un tronco, la volta di una grotta, il confine di una roccia o di una nube…) o solo da pennellate o linee colorate, o dalla disposizione verticale (non solo tra terrestre e celeste, tra immanenza e trascendenza) delle scene rappresentate, ma anche dalla contemporaneità di più azioni chiuse in spazi autonomi ciascuno con la propria luce e focalizzazione e però collegati da tonalità omogenee e armoniose anche quando drammatiche sono gli episodi narrati, come nell’originalissima Orazione nell’orto degli Ulivi

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Adorazione dei pastori (dett.), 1605 circa. Valencia Museo del Patriarca.

In alto invece i cieli sono invasi da tutto un cosmo angelico, che segue le correnti ascensionali celesti e poi si installa tra le nubi a suonare, volteggiare e divertirsi in giochi tutti suoi, meravigliosi, e proprio così rendendo maggior gloria a Dio. Le posture sono spesso arditissime, in certi casi sbucano dalle nubi e dai margini del quadro solo corpi a pezzi, gambe senza torsi, frammenti di spalle e schiene, teste e piedi isolati come nel quadro di Frenhofer in Balzac, ali piegate in direzioni incompatibili tra di loro, che non si capisce come siano connesse ai corpi nella loro attaccatura e funzionalità anatomica, ammesso che sull’anatomia degli angeli qualcosa si possa dire, ma efficaci, sorprendenti e gradevolissime dal punto di vista pittorico. 

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In alcuni quadri proliferano tanto da far pensare che siano loro i veri protagonisti, che la loro gioia, il loro eterno concerto siano gli stessi della pittura, nelle loro masse in vorticoso movimento, con gli abiti coloratissimi capolavori dell’atelier celeste al suo massimo fulgore, o mentre si addensano a migliaia e si confondono fino a non distinguersi più l’uno dall’altro e a dissolversi, vaporosi e informi come nubi, quasi che tutta l’aria non fosse composta che di loro, un infinito pulviscolo angelico che satura l’atmosfera e che noi stessi, senza saperlo, forse respiriamo.

angeli nell'aria
Madonna con il Bambino e le sante Martina e Agnese, Dett. 1597-99. Washington, National Gallery of Art

El Greco. Un pittore nel labirinto, a cura di Juan Antonio García Castro, Palma Martínez-Burgos García e Thomas Clement Salomon. 

Milano, Palazzo Reale, chiusura prorogata al 25 febbraio 2024.
Catalogo El Greco. Un pittore nel labirinto, a cura di J. A. García Castro e P. Martínez-Burgos García, Skira, 2023.

In copertina, L’incarnazione, 1596-1600 circa. Madrid, Museu Nacional Thyssen-Bornemisza.

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