Memoria di oggetti / Mercatino degli orrori
Da poco tempo ho ripreso a frequentare i mercatini dell’antiquariato grazie ad un amico affetto dalla “sindrome di acquisto compulsivo”.
A parte questo difetto lui possiede una qualità rara; è in grado di fare domande molto imbarazzanti con una tale grazia che metterebbe in difficoltà chiunque. Testimone la mia esperienza: ho visto un mercante noto come il più rude e cinico della piazza (stiamo parlando del ramo dell’usato) cedere sedotto dalla sua curiosità e fornire informazioni molto private, dire cose che mai avrebbe confessato, sulla merce esposta e anche sulla propria famiglia.
Da queste piccole escursioni, che generalmente si concludono in una mezza mattinata, il mio amico rientra con voluminosi pacchi e addirittura con appuntamenti per ritirare nel pomeriggio oggetti ancora più ingombranti. Mentre io me ne esco quasi sempre a mani vuote ma con la testa piacevolmente piena di storie altrui.
La seconda domenica del mese, giorno deputato per uno dei mercatini più estesi della città, il mio amico era lontano, in vacanza ma comunque ci sono andata. Eppure avevo memoria che fino a un paio di anni fa avrei preferito trovarmi dalla parte opposta delle bancarelle in modo da potermi liberare di tutte le paccottiglie che, in casa, hanno preso possesso del mio spazio e, ancora peggio, nel mio cervello si sono sedimentate come falsi ricordi.
Comunque la giornata è mite e il sole, anche se velato, riesce a far brillare tutte le cianfrusaglie oltre a regalare un po’ di buonumore ai malmostosi mercanti. In assenza della mia “guida” decido di non cercare nulla, ad esclusione dei discorsi che si possono raccogliere senza che nessuno se ne accorga.
Le prime bancarelle affacciate sulla piazza espongono cose semplici: tazzine spaiate, saliere fantasiose, oggetti di plastica, padelle senza manici e attrezzi da cucina vari… Spesso sono frequentate da signore-badanti che fanno incetta di regali da portare ai parenti lontani poi, mano a mano che si entra nel cuore del mercato, il livello cresce e si vedono le “nobili” bancarelle, quelle monografiche con merletti antichi, seguite da alcune con le porcellane e altre che trattano un po’ tutto e che non si sono mai affezionate a una precisa epoca. In una di queste vedo un vaso di Sottsass che sorregge un piatto di Limoges (con il quale ovviamente sta litigando), ma è ingenuo pensare che il venditore non conosca il valore di entrambe, comunque temporeggio per sapere il prezzo del vaso sfogliando alcune foto posate su un vassoio di peltro. Quando incrocio gli occhi di una giovane donna circondata da quattro ragazzi, lei abbraccia un busto di gesso ed è l’unica che guarda in macchina, la scena sul fondo fa supporre che la foto sia stata scattata nell’aula di una Accademia di Belle Arti. Poco dopo mi accorgo che questa immagine appartiene a un gruppo di altre foto che ritrae gli stessi soggetti sempre in pose molto divertenti, le foto sono ammassate confusamente su un piatto verde vicino al vassoio di peltro. Tutte nel retro hanno stampigliato un piccolo logo, dove s’intravede la scritta Berlin e la data 1942. Provo il desiderio di radunarle in un unico pacchetto ma la signora che gestisce il banco mi riprende dicendo che – Le foto sul vassoio di peltro costano 15 euro e quelle lì invece 8, NON MI FACCIA CONFUSIONE! – un rapido conto mi fa intendere che il desiderio di riunire questi amici ammonterebbe a circa 120 euro. Decido di passare oltre ed eventualmente ritornare quando la commerciante sarà costretta a diventare “empatica” per scarsità di vendite.
Vedo un bel banco di libri che avevo notato anche la volta scorsa e pure qui l’abitudine a non affezionarsi a un’epoca è vistosa! I “Gialli Mondadori” chiacchierano con certi incunaboli dall’aria losca. Vengo attratta da sei libri elegantemente rilegati che in copertina, al posto del titolo, portano impresso in oro il nome del proprietario, Emanuele Finzi, sono tutte edizioni di pregio la più famosa è quella illustrata dei Promessi Sposi (edizione Fratelli Rechiedei, 1869). In più, a sottolineare il possesso, c’è la firma elegante del signor Finzi nell’anteporta subito sotto il suo ex-libris.
Emanuele Finzi (Trieste), un cognome dalle chiare origini che riporta alla memoria un brano che avevo letto nel libro di Tito Maniacco Figlio del secolo, ricordo una visione toccante: raccontava appunto di libri che volavano come uccelli dalle finestre di un edificio (Palazzo Morpurgo/Udine). Il testo fa riferimento a un rastrellamento fascista fatto a danno di un anziano signore, Elio Morpurgo ex sindaco della città, che morì in seguito al viaggio di deportazione.
Passo di fronte alla bancarella più sinistra del mercato, quella che il mio amico ha sempre ignorato perché lui è attratto dalle cose belle e lievi. Approfittando della sua assenza rallento il passo per scannerizzare nella mia memoria foto, documenti e libri, che sono in gran parte di lingua tedesca. Quasi tutti gli oggetti hanno la dominante cromatica grigioverde, spicca una maschera antigas che (è sicuramente una suggestione) emana ancora l’odore della paura di chi l’aveva indossata e decido che il mio amico aveva assolutamente ragione. Distolgo lo sguardo e lo dirigo verso un indumento indossato in circostanze più allegre, è l’unico pezzo frivolo di tutta la merce esposta su quel banco: una sontuosa stola di visone selvaggio che, nonostante l’età, sia dell’animale che del pellicciaio, ha ancora un aspetto lucente ma, blocco in tempo la carezza che intendevo farle, è sì bella, quanto prodiga di parassiti.
Per riprendermi cerco un po’ di luce e la trovo in due splendide bancarelle affiancate, le più luminose del mercato, a destra le ceramiche rare e a sinistra gli argenti dell’Est Europa. Inizio dalle ceramiche, conosco la signora che la gestisce, mi piace perché ha sempre dato l’impressione di avere meno interesse per la vendita e più per l’acculturazione dei suoi futuri clienti.
Mi saluta con entusiasmo anche se ho acquistato ben poco da lei, la contraccambio con i complimenti per l’esposizione di bellissime zuppiere Galvani degli anni ‘30, tutte con decorazioni all’aerografo che dialogano fra loro come sorelle affettuose. Non sono un’esperta del settore, è stata lei nei vari mercatini, da Gradisca a Cividale, a incuriosirmi e istruirmi sull’argomento. Vorrei tanto ricambiarla acquistando qualcosa ma, le zuppiere non me le posso certo permettere, così raccolgo un piccolo piattino solitario con decori rossi, lo giro e leggo “Galvani”. Non è il solito marchio con il gallo, ha una stella di David e lei senza attendere la mia domanda inizia a raccontarmi che la madre dei Galvani era ebrea e uno dei figli volle dedicare un servizio di piatti in sua memoria, quello che avevo in mano era tutto ciò che lei era riuscita a trovare. L’argomento si interrompe bruscamente per l’arrivo di un “vero cliente” così ci salutiamo con un sorriso complice poco prima che lei dichiari – Quello comunque non lo vendo! –.
A fianco trovo gli argenti e quel signore gentile con l’accento strano che possiede lo stesso talento della sua “compagna di banco”. La merce è così abbondante che quasi non si distingue il colore del panno su cui è disposta; candelabri, alzatine, vassoi, scaldavivande, tutte cose non utili ma goduriose per gli occhi. Mi dice che non è stata una gran giornata per gli affari ma è contento del clima e della compagnia (lo adoro). Gli chiedo se posso aprire una graziosa scatola che ho notato e lui risponde ridendo che posso fare tutto ciò che voglio perché la sua merce è “dura a rompersi!”, nel frattempo arriva una signora arrogante che sottolinea che tutti gli oggetti sul banco… “Li ho già visti la volta scorsa! Dovrebbero costare la metà!” Le sono incredibilmente grata perché mi toglie da un imbarazzo. Quella graziosa scatola contiene un set per la circoncisione.
Saluto tutti, compresa la signora arrogante, e mi avvio verso casa con le mani vuote, con un peso che non riesco a spiegarmi e l’urgenza di rileggere un libro per ritrovare un brano che neppure ricordo bene ma so, racconta di oggetti di dubbia provenienza.
Per essere precisi: di oggetti appartenuti a famiglie deportate che sono diventati corredo di altre famiglie. Bernhard Schlink*, ora ricordo, nel suo Fughe d’amore aveva mascherato sotto forma di raccontino rosa l’imbarazzo che la sua generazione provava nei confronti dei propri genitori. Questi anche se non avevano nessuna colpa comunque non si erano opposti all’orrore e, peggio, avevano approfittato della bellezza di ciò che era stato forzatamente abbandonato da chi, l’orrore, l’aveva subito.