Beni relazionali
“Il peut y avoir de la honte à être heureux tout seul” scrive il Premio Nobel francese Albert Camus nel romanzo La Peste. C’è vergogna nell’essere felici da soli, dice Rambert, individualista e forestiero, mentre rinuncia a scappare dalla città infestata dalla peste. Come se la felicità (intesa più prosaicamente in questo contesto come la soddisfazione di un bisogno) fosse essa stessa il fine della condivisione. Come se la condivisione, del tangibile e dell’intangibile, fosse la via d’uscita dalla peste. O, fuor di metafora, dalla crisi.
L’equilibrio tra istituzioni, imprese e società nel suo complesso è messo regolarmente alla prova dagli eccessi del capitalismo, nel suo eterno ciclo di produzione e consumo. Oggi si stanno raffrontando, e in certi casi scontrando, diverse visioni nel modo di concepire quale debba essere il rapporto tra la sfera economica e la sfera del sociale (inclusa in essa la “cultura del lavoro”).
L’impresa non è più un semplice attore economico che si adatta allo scenario competitivo, ma si configura sempre più come un’organizzazione aperta all’ecosistema in cui opera. Le istanze provenienti dal contesto, grazie alla nuove possibilità di amplificazione, di diffusione e coordinamento, sono invia di moltiplicazione. Si propone in forme rinnovata una forte domanda dal basso, catalizzata dai bisogni insoddisfatti - o ipersoddisfatti - che la crisi porta a galla.
E se competizione e concorrenza, in ultima analisi due tra le categorie maggiormente responsabili delle distorsioni capitalistiche e delle aberrazioni del mercato fossero il grande bluff del sistema (per lo meno da un punto di vista etimologico)? E se cum-petere (chiedere insieme) e cum-currere (correre insieme) non fossero altro che una variabile meno evoluta di cum-dividere? E se ci fossimo sbagliati per due o trecento anni?
L’economia collaborativa, in una delle sue definizioni più azzeccate, è “il complesso di pratiche e modelli che attraverso la tecnologia e la comunità di pari consentono a persone e aziende di condividere l’accesso a prodotti, servizi, esperienze”.
Risparmi economici, riduzione delle esternalità e dei costi ambientali e sociali, maggiori opportunità di accesso a beni e servizi, flessibilità di utilizzo, a vantaggio della soddisfazione piena del bisogno, oltre a benefici di carattere emotivo e relazionale: l’economia collaborativa sta dimostrando di essere un fenomeno significativo, ancora più profondo di quanto non dicano i semplici numeri, proprio perché esce da una logica quantitativa, abbracciando un approccio qualitativo.
Per esempio, il social lending (prestito di denaro tra privati) gode di un giro di affari di 5 miliardi di dollari, il car sharing di 3,3 miliardi di dollari solo negli USA, il couch surfing è oggi praticato da 3 milioni di persone in quasi tutti i Paesi del mondo, il mercato dei beni affittati tra privati vale più di 26 miliardi di dollari e ogni mese sono 2,2 milioni le persone che utilizzano servizi di bike sharing.
Si tratta dunque di un paradigma sempre più diffuso sia per tipologia di servizi proposti, sia per numero di persone che li utilizzano. Non certo un modello sostitutivo dell’economia mainstream, ma un modello integrativo probabilmente destinato a durare.
Niente di nuovo, visto che già Jeremy Rifkin 13 anni fa scriveva che “l’epoca della proprietà sta finendo e stiamo entrando nell’era dell’accesso”. Niente di originale, se solo ci guardiamo indietro di qualche decina di anni, quando anche mia nonna si occupava della “bügada”, il bucato collettivo in cui le donne del quartiere, per risparmiare tempo, denaro, fatica, condividevano lavatoio, attrezzi e braccia per il lavaggio dei panni.
Niente di nuovo, ma certamente qualcosa di molto affascinante e teoricamente in grado di interrompere, o per lo meno scalfire, il ciclo di produzione e consumo e dunque di accumulazione. Per semplificare: che senso ha possedere un trapano se il suo utilizzo sarà di dieci, quindici minuti in tutta la nostra vita? Secondo uno studio 2011 di eBay, negli armadi di tutta la Germania sono accumulati oggetti per un valore di oltre 35 miliardi di euro.
C’è un secondo fattore che porta a pensare che l’economia collaborativa non sia semplicemente un ritorno al passato. Più che un dato, è un indizio. Le grandi aziende stanno entrando in partita. E non (solo) per cogliere i benefici momentanei di una moda, ma ripensando il proprio modello tradizionale di business verso nuovi approcci, ristrutturando la value proposition in modo innovativo e sostenibile. Bacia la mano che non puoi tagliare, dice un antico proverbio.
Alcuni esempi: Wal Mart, la più grande corporation del mondo, si affida ai propri clienti per il potenziamento dei servizi di e-commerce e home-delivery, chiedendo loro di farsi “corrieri” della consegna a domicilio in cambio di sconti sulla spesa. Un servizio più efficace e a minor costo per l’azienda, una possibilità di guadagno per chi condivide il trasporto, una riduzione dell’impatto ambientale e sociale (traffico, etc.) per il contesto urbano, una maggior efficacia per il consumatore.
Con il progetto “Workspace on demande”, la catena alberghiera Marriott mette invece a disposizione le lobby di alcuni alberghi a costi nulli o molto ridotti, prenotabili online, come spazi di lavoro, di incontro e confronto, con un approccio non dissimile al co-working.
Il settore automotive, complice il calo vertiginoso delle vendite e dei volumi d’affari, è quello che oggi mostra maggiore vitalità sul tema dei servizi collaborativi applicati al mondo corporate. Se Zipcar, operatore pioniere dei servizi di car sharing è stato recentemente acquistata da Avis, la multinazionale dell’autonoleggio, sono le big dell’auto a cercare spazi proprio facendo leva sul modello di business.
Daimler nell’ultimo triennio ha spinto sul taglio dei costi e contemporaneamente sull’innovazione: non offre più (solo) auto, ma servizi di mobilità. Car2go, è l’operatore di car sharing promosso dall’azienda tedesca, basato su una flotta di auto Smart. Recentemente sbarcato in Italia, negli USA vanta già oltre 400 mila clienti, un parco auto superiore agli 8.800 veicoli (ed in continua espansione) per oltre 12 milioni di noleggi. Le corporations italiane non stanno a guardare, e si mettono in scia. Fiat, ENI e Trenitalia hanno recentemente firmato un accordo per attivare un servizio di car sharing sperimentale a Milano. La prima fornirà le auto, la seconda il carburante, la terza la promozione.
Per essere credibili anche in questa nuova dimensione le grandi imprese hanno l’opportunità di rilanciare un valore chiave nel rapporto con i cittadini/utenti: la fiducia. È proprio su questo che si basa il rapporto collaborativo: la fiducia è la moneta di scambio intangibile che alimenta l’economia collaborativa. La reputazione di un’organizzazione è un capitale da cui dipende l’appartenenza ad una comunità. Abbiamo già trasformato da un pezzo l’economia dell’immagine nell’economia della credibilità. Per questo l’affermarsi in modo strutturato di sistemi collaborativi è oggi un’importante occasione per un rilancio forte dei temi di sostenibilità d’impresa.
Se è vero che “i beni relazionali – come scrivono Arvidsson e Giordano - non essendo né beni privati, né beni pubblici, divengono un punto d’incontro tra i livelli micro e macro, tra l’azione individuale e la sfera sociale” le imprese hanno la possibilità di tornare ad investire in credibilità e reputazione (nel senso puro del termine, lontano da greenwashing e affini), in trasparenza, in accountability, avviando un dialogo aperto e spontaneo con gli stakeholder. Anche perché, se così non fosse, la rete è rapida e ficcante nella sua reazione (e in ciò i recenti casi Barilla sul posizionamento di brand rispetto al tema della famiglia ed Enel con la campagna #guerrieri hanno qualcosa da insegnare).
L’analisi delle esperienze citate e del timido approccio all’italiana, mostra tra le righe l’evoluzione recente del rapporto tra impresa e società. Se in una logica di responsabilità d’impresa classica, le corporations sono chiamate a fare bene il proprio mestiere nel rispetto e nel rapporto biunivoco con tutti gli stakeholder, il tema del valore condiviso (shared value) - più per come è stato interpretato che per come è stato formulato - ha ampliato e rafforzato l’approccio, richiedendo alle imprese stesse di identificare asset sottoutilizzati (le lobby del Marriot, le Smart invendute di Daimler, etc.) mettendoli a disposizione di bisogni (sociali) insoddisfatti in una logica di condivisione e di partnership.
L’impresa, da centro dell’iniziativa di responsabilità sociale, si sta trasformando a sua volta in uno stakeholder in relazione continua e circolare con tutti gli altri soggetti, in una lenta evoluzione verso un approccio peer to peer. All’orizzonte c’è una grande opportunità: prendere parte al cambiamento in atto, collaborando come protagonisti alla costruzione di un nuovo paradigma.