Nuove scene: Kepler-452 / Un giardino dei ciliegi a Bologna
C’è stata una stagione, nell’ambiente teatrale italiano, nella quale il concetto di biodiversità era come un refrain. Grazie alle riflessioni di Gilles Clément contenute per esempio nel Manifesto del terzo paesaggio e a quelle sull’architettura e l’urbanistica del Rem Koolhaas di Junkspace, si è imposto un pensiero dell’arte che affermava la necessità di preservare spazi per la crescita di specie diverse, contro la monocultura del consumo, affermando allo stesso tempo che proprio l’arte potesse divenire il baluardo o l’avamposto di tale diversità. Un’arte che difendeva il margine e al contempo si raccontava come margine, rivendicando un’orgogliosa differenza. Una stagione fondamentale per perimetrare i nostri spazi d’azione ma che, a qualche anno di distanza, ha forse finito per fare coincidere la differenza con l’emarginazione. In tale ragionamento Bologna è un buon osservatorio, una città che ha visto nascere diversi spazi “incolti” che via via sono stati chiusi, oppure si sono trasformati in locali per concerti e spacci di birre artigianali.
Dagli anni ‘90 a oggi azione politica, sociale e artistica hanno saputo congiungersi: dal Link, centro multidisciplinare particolarmente attento alle sperimentazioni musicali, al primo Tpo, centro sociale e casa anche per gruppi e compagnie, passando per Atlantide, casa di collettivi lgbt e band punk, arrivando agli “ultimi” Bartleby, aggregazione autogenerata di studenti universitari, chiusa nel 2010 con un pretesto e la solita promessa di una delocazione in aree industriali, fino a Labàs, che aveva rivitalizzato dal basso l’ex-caserma Masini, offrendo servizi al quartiere come doposcuola e mercati, sgomberato all’alba della scorsa estate con dispiegamento di camionette e manganelli, gli stessi che qualche mese prima erano entrati alla biblioteca di discipline umanistiche occupata da studenti impegnati a discutere il presente e il futuro degli spazi cittadini dell’istruzione pubblica. Tali esperienze sono oggi quasi tutte disinnescate dall’alleanza di questura-magistratura-amministrazioni-comunali che, di fatto, nello scaricare le responsabilità degli sgomberi uno sull’altro hanno mutilato i tentativi di tantissimi raggruppamenti di giovani, azzerando o addomesticando quella biodiversità. E gli artisti, in questa parabola, che fine hanno fatto? Dapprima occupanti, poi dialoganti con amministrazioni alle quali non si nega il merito di avere trovato alcune “case” per esperienze artistiche di punta della città, oggi impegnati in una lotta per la sopravvivenza, faticando però come tutto il teatro a esprimere posizioni controculturali. Questo nel migliore dei casi, perché molte esperienze teatrali hanno finito per spegnersi, per chiudersi in una specie di mutismo che si interrompe solo in occasione delle repliche. Pochissimi sono i progetti costruiti per sé e per gli altri, i tentativi di allargare e contagiare e immaginare percorsi collettivi, con molti superstiti disgregati nei diversi tavoli di assessorati e aperitivi («Antonio, e i nostri compagni? Guarda, lascia perdere, li hanno ricoverati tutti, coma etilico». È il testo del brano I supersiti di Iosonouncane, 2010, dove il cantautore immaginava un dialogo con Antonio Gramsci, finito a lavorare in un call center).
Questa lunga introduzione è necessaria per discutere de Il giardino dei ciliegi – Trent’anni di felicità in comodato d’uso della compagnia Kepler-452, prodotto da Ert Teatro Nazionale, struttura che si è assunta il rischio di dare spazio a una compagnia davvero giovane, composta da trentenni e ventenni, già molto attiva in città con l’organizzazione del festival 2030 (interamente prodotto dalla Fondazione del Monte), un piccolo miracolo cittadino nel quale gli angoli delle vie del centro, prima degli spettacoli, sono occupati da file di spettatori giovanissimi desiderosi di vedere spettacoli e di partecipare a laboratori e incontri. A Bologna – ma simili processi sono tipicamente italiani – giovani e giovanissimi crescono trovando una città apparecchiata dagli adulti che non presenta più “spazi vuoti”, vale a dire luoghi non preordinati nel loro uso che possano essere riempiti e riorientati attraversandoli, abitandoli: centri sociali, centri culturali, teatri aperti ma anche banalmente piazze in cui non sia vietato bivaccare, strade dove sia possibile uscire con un bicchiere dopo le 24, rivenditori di prossimità a cui sia permesso vendere birre refrigerate o anche solo piazze vuote nelle quali non siano state divelte le panchine per evitare il “degrado”. Da un lato mancano questi spazi vuoti e dall’altro è parossistica la crescita della city of food: chiudono librerie e calzolai e aprono ristoranti, ovunque in centro e anche in periferia, come dicono le statistiche. A Bologna c’è un ristorante o bar ogni 37 abitanti ed è in atto un conclamato processo che sussume pratiche e lessici cooperativi e mutualistici facendo del chilometro zero, della vocazione contadina della regione, dell’autoproduzione meri ingranaggi o leve di un sistema di omologazione e accumulazione o messa in mostra o parco giochi, leggi F.I.C.O. (di questo e altro si discute nella recente pubblicazione A che punto è la città della rivista Gli Asini e nei libri di Wolf Bukowski come La danza delle mozzarelle).
Torna dunque la domanda, che poi ci porta all’oggetto di questa rubrica: cosa fanno gli artisti, i “superstiti”? Dopo avere contribuito alla creazione di spazi e dopo che questi sono stati chiusi, e provando a non condannarsi a una sorta di nichilismo da bar che corrisponde al silenzio, ci pare che, almeno qui a Bologna si siano viste due opzioni in campo. La prima è “cancellare tutto”. Una scelta simbolicamente dirompente, tragica e drammatica, a rischio di fraintendimento ma in realtà profondamente politica ed eloquente nel dare sostanza al “no”, proiettando questo rifiuto nell’immaginario di una città che di fatto ha impedito la crescita a ogni esperienza che per scelta ha voluto praticare i margini dei binari istituzionali. Stiamo parlando dell’azione della cancellazione dei wall painting di Blu, lo street artist italiano più noto nel mondo che ha eliminato tutte le sue opere murali coprendole di grigio, per evitare lo strappo e l’esposizione di alcuni frammenti a una mostra organizzata da un’istituzione museale privata. Si può dare forma a un immaginario attraverso il paradosso della sua sottrazione? Può sicuramente essere il primo dolorosissimo passo per tornare a figurare azioni collettive, come si evince anche leggendo il racconto su “Grapich News” del disegnatore Brochendors Brothers.
La seconda opzione è quella di chi si assume consapevolmente il rischio della contraddizione. Chi pensa alle opere come frammenti di percorsi in cui ricostruire atti collettivi; chi lascia da parte un po’ della propria individualità, del proprio narcisismo, per provare a raccontare quello che vede per sé e per gli altri; chi costruisce ponti e dialoghi fra diverse discipline; chi pensa all’arte come a un processo molteplice e contagiato di azioni organizzative, educative e di relazione; chi apre gli spazi che gestisce, li fa attraversare e abitare da giovani e persone di provenienze diverse; e molte altre cose ancora che sono in qualche misura precipitate in questo Giardino dei ciliegi.
Nicola Borghesi, Enrico Baraldi e Paola Aiello, le anime della compagnia insieme a Lodovico Guenzi e Alberto “Bebo” Guidetti (questi ultimi anche membri della band Lo Stato Sociale, arrivata seconda a Sanremo con Una vita in vacanza ma capace da prima di fare sold out ai palasport) si sono imbattuti nella famiglia Bianchi. Stavano ragionando sul Giardino dei Ciliegi e su Cechov. Probabilmente intuivano che nella fine di un’epoca dipinta dal drammaturgo c’è qualcosa di profondamente affine al nostro presente, al nostro essere una classe disagiata bloccata in una stasi infinita, in attesa di un invocato mutamento che non avviene mai. Il loro teatro ha scelto in maniera consapevole di spostare “fuori” il processo di lavoro: non dunque nel chiuso di una sala prove ma negli incontri, nelle relazioni, allineandosi a una tradizione più europea che italiana nella quale il teatro ambisce ad approssimarsi asintoticamente alla cosiddetta realtà, lavorando con non professionisti, raccogliendo storie di vita quotidiana, dotandosi di strumenti di lavoro legati all’inchiesta sociale-antropologica (si legga il testo di questo Giardino, meritoriamente pubblicato da Ert in una nuova collana di drammaturgia edita da Luca Sossella e diretta da Giacomo Pedini, e vi si troveranno passaggi dove si afferma che le battute sono l’esito di «sbobinature»).
Un procedere simile ha contraddistinto le precedenti produzioni del gruppo, dai recenti Comizi d’amore (indagine poetica sui luoghi della città attorno all’idea di amore, oltre 50 anni dopo Pasolini) risalendo a progetti con gradazioni di finzione più marcate, come la bella passeggiata urbana narrativa (Lapsus urbano, firmato da Baraldi) che in cuffia intrecciava un plot fatto di storia del quartiere, la Bolognina, e il rischio della sua gentrificazione, o come La rivoluzione è facile se sai come farla, racconto cinico-generazionale delle ansie dei trentenni. Questo Giardino, dunque, è la storia di un incontro, del tentativo di approssimarsi all’altro da sé. Ma è allo stesso tempo Il Giardino dei ciliegi di Cechov, o almeno una sua trascrizione nel tempo presente in cerca di personaggi, caratteri, figure che rischiano di venire travolti dalla mutazione del nostro mondo.
Ci aspettano seduti sul ciglio del palco, Nicola, Paola e Lodo. Raccontano che cosa vedremo, ci informano che siamo nella stanza dei giochi, proprio come nel dramma di Cechov. Alle loro spalle gabbie, grate, scatole, tavoli, poltrone, lampadari presi dalla vecchia casa dei Bianchi, tutto accatastato come se fossimo in uno scantinato. Le luci disegnate da Vincent Longuemare, attraverso pannelli riflettenti ai lati emanano riverberi al centro dello spazio, bagnando mobili e attori in una corrispondenza di specchi. Entrano i Bianchi, indossano pellicce, la donna si chiama Annalisa ma Nicola la informa che interpreterà Ljuba, la possidente della tenuta e del giardino dei ciliegi che deve essere venduto perché crea solo debiti. Presto ci sarà un’asta. Giuliano farà suo fratello Gaiev, Lodo assumerà i panni di Lopachin, mercante arricchito amico di famiglia che cova il progetto di tagliare il giardino edificando villini per assecondare l’incipiente moda della villeggiatura. Tutti gli amori anelati e irrisolti e tristissimi di Cechov qui scompaiono, perché l’amore di Giuliano e Annalisa basta a coprire tutti gli spazi disponibili, probabilmente anche gli affetti labili della generazione dei trentenni rappresentata sulla scena. Il loro è un amore pienamente compiuto, che emerge gradualmente attraverso dialoghi e racconti ricreati sulla scena come se avvenissero per la prima volta: Lodo chiede a Giuliano che cosa faccia nella vita, lui risponde che va a caccia di piccioni, li cattura e li uccide per conto dei Comuni emiliani; allora Nicola si chiede che cosa provino i piccioni, se sentano, se soffrano. Dalle quinte arriva una gabbia con un vero piccione, al quale vengono sottoposte domande con tanto di microfono; il verso dell’animale viene rimandato in audio e ci fa davvero illudere che il dialogo si sia prodotto (Giuliano asserisce che è così). Nicola allora si domanda se la felicità sia “sapere i nomi delle cose”, degli animali, perché in casa dei Bianchi vivevano specie rare protette ospitate per qualche giorno, ora dispersi chissà dove perché la casa dei Bianchi, di proprietà dei servizi sociali del Comune, è stata sgomberata per fare posto alla nascita della Fabbrica Urbana Contadina, F.I.C.O., la messa in mostra di una diversità ricreata in laboratorio e venduta come totalizzante esperienza del food, una specie di distopico parco divertimenti dove il cibo viene trasformato e non prodotto, una vera Westworld alla Bolognaise, come si legge sul blog di Wu Ming.
Intersecando drammaturgia letteraria e scrittura del presente, questo Giardino sale e scende, ci fa immedesimare nei personaggi e ci invita a riflettere sull’attualità, spostandoci costantemente. A un certo punto Lodo siede vicino ad Annalisa, sul divano. I Kepler rivolgono domande ai Bianchi e ascoltano davvero le loro risposte, ridono, si muovono, assecondando le posture specifiche di ogni dialogo. Lodo parla con Annalisa e la accusa di non avere stile. Dice che non ci si deve rinchiudere nelle cose piccole, non ci si deve difendere dietro a una presunta diversità, ora sembra che parli di noi e di loro, afferma che una qualche logica “grande” sarà sempre pronta ad annettere quanto di buono nasca nel piccolo. Anche se per una mattina lui si mette le scarpe per andare nella ex-casa dei Bianchi a riprendersi pezzi di una vita sgomberata, nonostante questo atto lo faccia sentire un eroe, nonostante il desiderio di andare verso “loro”, lui resta diverso. Lodo è diverso, è borghese, è famoso. È anche un attore, aggiungiamo noi, e parla e si muove nei panni di Lopachin e di se stesso modulando la timbrica della voce, spingendo gli acuti, gesticolando e generando una presenza con notevole consapevolezza. Lui è diverso, afferma. Ma basta nominare questa diversità per considerarsi assolti e mandarci a casa in pace, anche noi diversi un po’ come Lodo, come Nicola e Paola?
Nel terzo atto cechoviano c’è una festa, durante la quale arriverà la notizia che il Giardino è stato venduto, comprato da Lopachin. Le chitarre degli Explosion in the Sky avevano marcato alcuni passaggi emotivi del racconto, qui la musica cita la festa sul terrazzo de La Grande Bellezza, i vocalizzi di Raffaella Carrà e le scaglie ritmate elettroniche di Bob Sinclair. In scena veniamo chiamati “noi”, vale a dire alcuni spettatori che si prestano a interpretare ruoli secondari. Nicola e Paola attribuiscono le parti, gli spettatori stanno al gioco, reggono palloni, suonano tamburi, poi Lodo-Lopachin dal fondo informa di avere acquistato il giardino, entra in scena invasato, grida, l’atmosfera si gela: stiamo vedendo una finta festa con finti invitati, interpretati dal pubblico; eppure tutti all’improvviso per davvero non hanno più nulla da festeggiare. Come nel film di Sorrentino, quella festa è sia una galleria degli orrori sia un magma magnetico che ci attrae, e per raccontarla sul serio occorre pagare il prezzo di una vischiosità, bisogna andare fuori, incontrare, dialogare, litigare sul serio. Non basta citare e mimare. Per fare il Giardino dei ciliegi, e la sua festa mesta tristissima, occorre essersi guadagnati la possibilità di incontrare i Bianchi, scegliere di portarli al Teatro Nazionale e lì ricreare lo stupore, le risate, i disgusti e gli innamoramenti che questa compagnia ha provato, come se stessero accadendo per la prima volta sulla scena. Occorre agire per sé e per gli altri. Dunque no, forse non basta dire che noi siamo diversi per stare in pace. Però prima di tutto bisogna guadagnarsi la possibilità di porsi la domanda.
Sale e scende, questo Giardino, verso noi e loro, dal colloquiale al recitato, dall’emotivo al farsesco, come quando una specie di dichiarazione di poetica viene celata nel racconto del murales che Blu aveva disegnato per il centro sociale XM24, con Borghesi che esordisce asserendo “Noi stiamo nel mezzo” e prosegue raccontando la situazione narrativa del disegno, una specie di battaglia fantasy apocalittica in salsa bolognese con schiere di celerini, nerd, salumieri, politici, manifestanti, studenti che si fronteggiano con dardi di cocomeri e mortadelle scagliati con la catapulta. Viene da piangere pensando al fatto che questo murale non esista più. L’attore descrive, Aiello e Guenzi mimano le scene, come una pantomima esagerata che riesce a fare ridere solo a tratti, sempre sul confine del “cazzeggio”, della scemenza da “vèz” che si raccontano qualcosa al bar. Lodo sta mimando un vegano nella battaglia di Bologna, ma quel disegno davvero non c’è più, e allora il cazzeggio si raffredda, non c’è più nulla da ridere. Torniamo allora a Lodo, che ammette il suo perenne arrivare “dopo”, la sua assenza, perché loro, i Bianchi, da Fico sono stati scacciati mentre lui c’è ancora in filodiffusione, con la canzone Una vita in vacanza de Lo Stato Sociale, una musica che ormai serve a “coprire il vuoto”.
Una vita in vacanza è di un’ambiguità luccicante, quella di chi rifiuta la patente di “maturi” che noi adulti affibbiamo soprattutto ai giovani, ma qui potremmo dire a tutte le esperienze create dal basso, che prima o poi dovranno rientrare dentro a ranghi da non mettere mai in discussione. In vacanza è la vita di chi nella corsa dei topi, come la chiamava Paul Goodman in La gioventù assurda, decide di non entrare: fatevela voi, anche se la conosciamo bene e sappiamo bene cosa significa stare al gioco. “Nessuno che dica se sbagli sei fuori”, sbagliare si può, anzi è l'unico modo per crescere. Eppure, senza che “nessuno che rompa i coglioni” crescere non è possibile. Allora ci si chiede come fare per “stare nel mezzo” senza accontentarsi, senza cadere in una sottocultura che si autolegittima. In fondo la vecchia di Lo Stato Sociale balla per davvero, molto meglio di noi per giunta, e alla festa di Sorrentino, di Cechov e Kepler-452 vorremmo partecipare tutti! Tanto vale danzarci su. Danzare ballare fare balotta e nessuno che rompa i coglioni! Ma se viene a mancare la necessità di romperci i coglioni fra di noi, come faremo a dare forza a quella tensione che ci porta a riconoscere un’alterità intima, a quel conflitto rivolto alle nostre stesse azioni? Eppure, d’altro canto, se ci chiudiamo in questa ricerca fonda, rischiamo di non essere più in grado di riconoscere la diversità prossima, quella che incontriamo tutti i giorni negli atteggiamenti di chi potrebbe starci vicino. Come racconta Paola nel suo monologo finale, doloroso e pieno di speranza, dove viene ricordata la prima volta in cui l’attrice ha incontrato i Bianchi, domandandosi quante siano le cose che non si sanno e come fare per sentirsi un po’ meno “mancanti”.
Il Giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso sale su una vetta che raramente gli artisti sono disposti a praticare, intersecando la politica e la poesia, l’attualità e la storia. È uno spettacolo che dà i nomi alle cose, racconta i fatti, non crea metafore o dei “come se” ma si assume il rischio di parlare nel presente e nella città. Una prossimità rarissima e che ci permette di interrogarci sulla nostra identità e alterità. Che ci permette di usare il noi.