Scene del futuro / Piccoli festival
I momenti di crisi sono quelli in cui più facilmente si è portati a chiedersi “perché”. Ci si mette in discussione quando non è più chiara la propria funzione, così si generano sommovimenti che generano nuovi inizi. In tempi di crisi, a parte qualche caso isolato legato al sistema dei teatri stabili, sono stati in realtà “gli ultimi” a indicare strade, mettendo a fuoco formati che strutture più finanziate hanno successivamente recepito. Stiamo parlando dei festival. Ovviamente esistono festival che abitano anche zone garantite. Ci pare però che solo chi aveva poco da perdere si sia posto domande sul senso del proprio lavoro: che cosa cerchiamo, nel teatro? Perché riteniamo sia importante?
Eccettuando le storiche funzioni di rinnovamento di linguaggi e pubblici, comunque oggi da ridiscutere poiché Teatri di rilevante interesse culturale e Teatri nazionali hanno iniziato a produrre spettacoli di artisti della ricerca, negli ultimi decenni i festival hanno provato a riaffermare quel “terreno culturale” che il teatro andava via perdendo. Citando una poesia di Raffaello Baldini conosciuta grazie a Eresia della felicità del Teatro delle Albe (dal 2011 al festival di Santarcangelo e successivamente in altri luoghi), si potrebbe affermare che una funzione dei festival è stata quella di dimostrare alla società che “si potrebbe essere in tanti, ma tanti, diciamo che ci sono stati degli sbagli, la prima volta, si sa, che non ne ha colpa nessuno è andata così, e ricominciare tutto da capo”. Essere tanti, costruire arcipelaghi per provare a raggiungere altre terre emerse. Eppure tale funzione rischia oggi di definire perimetri dove si parlano gerghi indecifrabili ai più.
Quale può essere, allora, il ruolo da assumere per l’“ultimo anello” del sistema, orientato da una legislazione che incoraggia un teatro di stampo eminentemente registico, ingessato dentro a un paese che conserva, non educa e non diffonde? Probabilmente un festival potrebbe contribuire a rifondare un’idea di teatro capace di farsi intendere dal tempo presente, sapendo che la maggioranza dei nostri concittadini se diciamo teatro collega la parola a qualcosa di spento e distante. Chi non ha nulla da perdere forse dovrebbe ricominciare da capo, come se si dovessero ridefinire i margini di una pagina bianca su cui disegnare. Presentare tanti spettacoli in un tempo concentrato non basta più. Non basta più, probabilmente, nemmeno proporre a lato delle opere occasioni laboratoriali, di incontro e di approfondimento. Non basta più costruire programmazioni transdisciplinari.
Nel presente articolo, senza alcuna pretesa di completezza, elenchiamo alcune opzioni raccolte sul campo incontrando “piccoli festival”, dalla primavera all’estate 2018. Da prospettive differenti, in questi luoghi si riconosce una domanda di senso che sprona a rinnovare radicalmente formati e meccanismi. Probabilmente un teatro del futuro potrà esistere solo abitando progetti culturali capaci di “immaginarli”, dato che sarà sempre più difficile pensare a un teatro del futuro dentro a contenitori del passato, che trovavano le loro ragioni in relazione a specifiche discontinuità socio-antropologiche e istituzionali. Come evitare che il formato stesso del festival appaia oggi come uno scaffale per gli acquisti, finendo per confermare il fraintendimento che vede lo spettatore coincidere con il consumatore?
I festival del teatro ragazzi, e della crescita
In Italia esiste un circuito parallelo di festival dedicati al cosiddetto teatro-ragazzi. Partiamo da marzo, da Castelfiorentino, in Toscana. Il festival Teatro fra le generazioni è diretto da Giallo Mare Minimal Teatro e programma spettacoli dal mattino alla sera. Si entra a teatro alle 9 e si esce a tarda notte. Subito il direttore Renzo Boldrini presenta i lavori a una platea gremita di piccolissimi spettatori. Abbassa la voce, sussurra, così gli spettatori-bambini acuiscono l’udito, s’incuriosiscono, si fanno attenti. Inizia l’incanto di un teatro che si pone domande sulla crescita, un teatro pedagogico e a tratti educativo. Cosa si può dire a uno spettatore bambino? Si possono trattare tutti i temi? Quale idea di finzione e rappresentazione è più corretto trasmettere? I classici del teatro ragazzi sono le fiabe nelle loro mille rivisitazioni in risonanza con il presente, anche con il nostro di adulti, abituati troppo spesso a liquidarle. Eppure i bambini possono prendere sul serio l’invidia, il tradimento, il doppio gioco, il raggiro. Ridono delle burle, piangono degli abbandoni. Si spaventano dei mostri. Noi adulti abbiamo smesso di cercare nell’arte questi e altri sentimenti ed emozioni, salvo poi metterli in pratica nella società. Come mai pochissimi festival teatrali della ricerca programmano spettacoli per ragazzi? Ci riteniamo, forse, “superiori”?
A Teatro fra le generazioni abbiamo visto le Fiabe giapponesi di Chiara Guidi, un teatro-esperienza nel quale sono ammessi solo i bambini, che agiscono condotti da una narratrice, ascoltano i racconti delle fiabe, sono chiamati a espletare compiti stando sul palco (dividere dei fagioli in base al colore), ma anche a porsi una domanda sulla consistenza del vuoto, decidendo se soddisfare la propria curiosità per avere delle risposte – aprendo una scatola – o se rispettare una norma proveniente dalla cornice narrativa sapendo di perdere qualcos’altro. L’esito, misurato dentro ai confini di un gioco dove ciò che è vero si confonde con quello che potrebbe non esserlo, darà una risposta in ogni caso educativa, in un teatro che fa sperimentare i bordi fra rappresentazione e partecipazione, fra ascolto e presa di parola, fra divertimento e paura.
I festival-fondamenti
Qui si tratta di dismettere ogni idea preesistente del teatro, e di concepire la propria azione come l’impostazione di nuovi fondamenti. A Preci (Pg), grazie al progetto Corale si è progettata, fra giugno e luglio 2018, una “Festa” preceduta da mesi di laboratori, d'inverno, quando le persone in montagna escono poco; si sono innescati processi nei quali le persone hanno raccontano dei frammenti delle loro vite, trasfigurati e messi in una forma per essere esposti in un Museo delle cose splendide, diffuso per il paese attraverso pezzi di storie e racconti di sconosciuti che diventavano immediatamente “nostri prossimi”. A Preci un gruppo di artisti, danzatrici, attori artigiani ha costruito una casa in un campo, installandosi con le tende, costruendo ponticelli sul fiume e sgabelli di legno poi donati alla cittadinanza. Oltre a questo la Festa ha proposto anche spettacoli, concerti, presentazioni di video.
A Preci abbiamo assistito a una camminata-rito, diretta da Leonardo Delogu. La barista del paese, la mattina dopo, stava parlando con una conoscente: “Hai visto ieri notte, cosa hanno fatto? Si sono accese tutte le luci di Preci alta, e c'era il fumo. Guarda era bellissimo”. Preci è stata distrutta dal terremoto del 2016. La camminata ci ha condotto in un promontorio dal quale osservare, nel buio, la zona ancora “rossa” e disabitata dopo il sisma, a guidare la camminata erano dei bambini, dopo la scarpinata ci siamo seduti nell’erba, con i bambini di fronte intenti a giocare con incensi e fumi. Guardando in campo lungo, di notte il fumo ha invaso il paese vuoto, noi stavamo seduti a osservare insieme agli abitanti senza casa, lo sguardo diventava allora un’esperienza comunitaria dove non esisteva nulla di vero ed era tutto verissimo. Osservare partecipando, qualcosa che non dimenticheremo più.
Le opere-festival
In queste pagine si è già parlato del progetto Clessidra del Teatro delle Forche e si vorrebbe accennare anche all’Odissea in Valsamoggia del Teatro delle Ariette. Entrambi sono casi, pur diversissimi, dove le comunità (locali ma anche provenienti da lontano) riconoscono di avere delle “storie” che le legano a quanto vedono rappresentato. In Lidi. La festa perfetta, dieci attori e attrici ci attendono dentro ad alcune cabine in un Lido al mare, le loro sono storie che parlano di una festa che sta per arrivare, dieci rincorse a immagini di sé senza crepe ma che rivelano solitudini a cui vengono imposte passerelle e “forme” (ne parleremo più diffusamente altrove). Qui ci preme rimarcare una domanda in atto che s’innesta fra chi guarda e agisce. Si entra nelle cabine e si ascoltano dei frammenti drammatici incarnati da attori e attrici la cui prossimità diventa spaziale, geografica, biografica: un luogo preciso e tutti i luoghi possibili, come solo il teatro può fare, in casi rarissimi. Attori e attrici abitano quella zona di confine fra recitazione-che-imita e presenza-che-insegue-il-quotidiano, fino quasi a toccarlo. Altra sfida rarissima, come solo il teatro si pone.
Invece in Valsamoggia una comunità di cittadini ha recitato i versi di Omero, guidata dal Teatro delle Ariette. Qualcuno raccontava, altri narravano storie personali della loro terra lontana, altri creavano cori vocali e di gesti. Osservando, pensavamo al teatro come a qualcosa che non ha bisogno di “fingersi” altro da sé. Personaggi, narratori, danzatori, spettatori: stavamo tutti lì, in uno spazio circolare che conteneva pubblico e attori, tutti cittadini con una storia antica e cogente attorno a noi.
Il festival-presidio
I Teatri della Cupa nel 2018 era alla sua quarta edizione. È un festival più “tradizionale”, prodotto e diretto da due compagnie di Lecce residenti a Novoli, Factory Transadriatica e Principio Attivo Teatro. È un festival-presidio, perché afferma l’esistenza del teatro laddove prima non esisteva. È un festival che propone spettacoli, incontri, laboratori e che dovrà prestare attenzione alle conseguenze del normalizzarsi delle forme, dopo i primi anni fondativi, per evitare di cadere nella trappola della vetrina per addetti ai lavori.
Non ci pare un caso che in questo luogo ci sia venuto da pensare alle forme della “prosa” a teatro, al recupero di una tradizione sempre sull’orlo di sfaldarsi, anche attraverso stilemi registici e recitativi indossati spesso con spirito sperimentale, come una verifica su mezzi e linguaggi. Ci riferiamo agli importanti lavori di Danilo Giuva (Mamma, Compagnia Licia Lanera) e di Roberto Corradino (Parla con mia madre), dei quali ci occuperemo prossimamente in uno specifico approfondimento. Ma anche al Misantropo diretto da Tonio De Nitto, una commedia in costume che ci rispecchia perché discute dei nostri compromessi. Il Misantropo di Molière, nella regia di De Nitto, ci fa vedere in controluce personaggi che cercano amori che mai si completano, mostrandoci le silhouette degli attori dietro a un fondale, con una scenografia che gradualmente si degrada e decade: cadono quadri e lampadari, cadono come le apparenze che vorremmo preservare. Si potrebbe allora tentare l’opzione della fuga, come propone Vico Quarto Mazzini in Vieni su Marte, scrivendo quattro storie paradossali con personaggi in fuga dalle limitazioni di una vita ferma che non soddisfa; in video scorrono reali videomessaggi di persone che anelano a una colonizzazione del pianeta rosso. La rincorsa, il rispecchiamento o lo scacco fra immaginazione e realtà diventa allora un nodo che non si scioglie, e ci interroga con gli strumenti di un teatro che salva la rappresentazione nel grottesco.
I festival-scoperta
Ultimi Fuochi è un progetto nato in alcuni paesi del Salento nel 2018, alla prima edizione. I due direttori, Alessandra Crocco e Alessandro Miele (in arte Progetto Demoni), hanno scommesso sulla necessità di “scoprire il teatro”: un pullman portava gli spettatori in un luogo segreto, non comunicato in precedenza. Nei luoghi ogni serata si componeva di un concerto, una degustazione e uno spettacolo. Il teatro non era però risolto in letture di attori più o meno noti, ma chiedeva agli spettatori di confrontarsi con spettacoli di compagnie della ricerca italiana. Come Invisibilmente di Menoventi, uno spettacolo che ha debuttato circa dieci anni fa. Un lavoro fondato su un’intuizione: le “maschere”, devono prendere tempo perché lo spettacolo non inizia, in realtà tutto è già iniziato e le azioni degli inservienti di sala sono sovratitolate da un’entità che dapprima ne descrive ogni movimento e in seguito indovina tutti i loro pensieri (è il regista? è lo spettacolo? il sistema? un Dio?). Anche noi iniziamo a dubitare del nostro libero arbitrio, insieme a un centinaio di spettatori non addetti ai lavori entusiasti e attraversati da un sorriso inquieto.
I festival-comunità
I festival-comunità sono riusciti, negli anni, a costruire un pubblico appassionato dove prima non c’era. Il “non-pubblico” di partenza è diventato una comunità di spettatori che attende di anno in anno l’arrivo del festival, scegliendolo quasi al di là delle proposte artistiche. Accade perché si porta il teatro nella prossimità delle vite di diversi gruppi di persone, come nel caso di Trasparenze a Modena (dal 20 al 13 maggio 2018), festival diretto dal Teatro dei Venti e sempre attento a intercettare alcune delle domande del “sociale” attraverso laboratori in carcere, con persone diversamente abili o migranti, organizzando le attività di un gruppo di giovanissimi che sceglie alcuni spettacoli da portare al festival e li discute (la “konsulta”) ma anche immaginando uno spazio conviviale al centro del parco che ospita la rassegna, nel quale semplicemente sostare nelle notti, oppure organizzando convegni nazionali sul Teatro nel sociale. Altro caso dove questo accade, e per ragioni differenti, è Direction Under 30 (20/22 luglio 2018) del Teatro Sociale di Gualtieri. Ogni serata del festival è frequentata da folle di ragazzi e ragazze alle quali è demandata la scelta a monte degli spettacoli da presentare nel paese reggiano (la “giuria di selezione”) ma anche l’attribuzione dei premi ai vincitori (una giuria popolare e critica). Un meccanismo che permette agli adulti di affacciarsi sulle domande che i trentenni rivolgono oggi alle arti sceniche, anche per capire quanto assecondarle o contestarle.
I festival-oggetti-non-identificati
Allo Sponz Fest in Alta Irpinia (21-26 agosto 2018) capitava di assistere e partecipare a quadriglie nella piazza principale, a concerti notturni nei vicoli con inizio alle cinque del mattino, a presentazioni di libri, incontri con sindaci sulle politiche dei comuni virtuosi, concerti in sentieri nei boschi, proiezioni di documentari di attivisti locali, lezioni teoriche, concertoni da palco con frammenti di letture e performance d’attore, riti Mapuche, workshop teatrali, esiti di laboratori di teatro con rifugiati, contest di tamburi. Si va allo Sponz e si sa solo in parte quello che ci si troverà, in una convergenza fra arti, riti e politica che potrebbe ridare senso al concetto stesso di festival.
Quali festival?
La casistica qui esposta non esaurisce la diversità italiana (sono tanti i luoghi da esplorare in futuro, anche di realtà assestate: il festival di teatro nel paesaggio Il giardino delle Esperidi in Brianza, il festival nelle case a Napoli Altofest, il festival sulla tonnara in Costiera Amalfitana Teatri in Blu, Danza Urbana a Bologna, il Suq a Genova, Festival 2030 a Bologna ecc. ecc. Il portale Trovafestival li sta meritoriamente censendo e catalogando), così come non va certo superata la funzione di scoperta e sprone ad artisti emergenti e legati alla sperimentazione di alcuni festival storici (Castiglioncello, Primavera dei Teatri, Drodesera, Santarcangelo, Crisalide, Contemporanea, Vie Festival, Short Theatre ecc).
Eppure la sensazione è che un rinnovamento futuro passi da tentativi periferici, piccoli, non garantiti e spesso anche tangenziali al teatro, o in ogni caso disposti a mettere in discussione il “quoziente di teatro”, come scriveva in un saggio ormai classico lo storico Claudio Meldolesi, nel 1986 (Ai confini del teatro e della sociologia, pubblicato sulla rivista “Teatro e storia”). Meldolesi cercava le tracce di rinnovamento in quei gruppi che “si rendono conto di essersi isolati dalla vita, per un eccesso di fedeltà alle loro tradizioni (a teatro le tradizioni sono necessarie, ma non sufficienti a dare vita), e che quindi, per non rimanere soffocati, decidono di abbassare il loro livello formale, di ridurre al minimo il loro quoziente di ‘teatro’. Verificando il loro lavoro per le strade, in temporanei radicamenti o in serie di happenings, questi gruppi riverificano in realtà un rapporto di civiltà, al contatto di un sociale osservato con partecipazione non ordinaria”.
Oppure raccogliendo l’invito di Alessandro Leogrande, intellettuale e maestro prematuramente scomparso, quando affermava che «un cambiamento reale può essere, per il momento, solo un piccolo cambiamento, una piccola esperienza, che forse non serve a rigenerare il tutto, ma che almeno sta a dimostrare che nel tutto c’è qualcosa di diverso che tenta di affermare i valori e le aspettative verso cui la città dovrebbe orientarsi» (intervento contenuto in Dalle macerie, Feltrinelli, 2018). Leogrande, come alcuni di noi, aveva attraversato l’esperienza del “Giornale del festival” a Santarcangelo, un quotidiano autoprodotto in forma laboratoriale, e aveva potuto osservare da vicino quelle particolari comunità temporanee che sono i festival, comunità di persone che sempre segretamente ambiscono a rigenerare le forme del vivere collettivo. Leogrande qui parlava della sua città, Taranto, ma come solo il teatro può fare sospettiamo che guardasse anche a noi, ai nostri perimetri, ai nostri orizzonti stretti, nei quali il piccolo può diventare grandissimo.