Festival Volterra Teatro / Le città ideali di Armando Punzo
Estasi. Uscire dal mondo. Uscire dall’umano. Andare verso zone d’esperienza inesplorate, verso forme altre, al di là. Mi sembra questa, in modi diversi, la tensione di molti festival e spettacoli di teatro visti quest’estate. Riformulare il mondo partendo dall’analisi del vuoto pieno di inutile, menzognero spettacolo dove stiamo naufragando. Provare a immaginarlo diverso, ballando sull’assenza, sulla mancanza e sulla mutazione: cercando nel corpo, e nello spazio pubblico, con graffio d’artista, le relazioni possibili, come a Santarcangelo; mettendo in piazza il conflitto e lo stallo tra presente e memoria, sognando la possibilità di ritessere con l’immaginazione teatrale fili disconnessi di società, come a Monticchiello. Lo dice ancora più esplicitamente il titolo di Volterra Teatro, La città ideale. Tutto il festival che ha per centro da ormai quasi trent’anni lo spettacolo della Compagnia della Fortezza di Armando Punzo quest’anno si è sviluppato intorno al tema dell’invenzione di nuovi mondi, con la cura di dramaturg di Rossella Menna.
Il punto di partenza è come ogni anno il carcere mediceo, dove alle 15 di ogni giorno, dal 24 al 29 luglio, sotto il solleone, nel cortile dell’aria, tra le sbarre, è stato rappresentato Dopo la Tempesta. L’opera segreta di Shakespeare. Da qui muove lo spunto con cui tutti gli altri spettacoli si sono confrontati. Da anni Punzo lavora sull’immobilità, sulla cristallizzazione di una situazione che non offre sbocchi. Il carcere, luogo dei ruoli definitivi incisi sulla pelle, del tempo ripetitivo, vuoto, dello spazio astratto dal mondo, anestetizzato, isola di pena purgatoriale dove la vita è rimandata come condanna e ossessione senza remissione. Il lavoro della Compagnia della Fortezza è andato sempre contro tutto questo: eliminare il carcere dalle menti dei detenuti, aprire tra le sbarre l’idea di libertà mentale, di immaginazione, della coscienza, trasformare l’istituto di pena in luogo di cultura.
Dopo l’immobilità del naufragio
Dopo la tempesta parte da una situazione immobile. Croci, grandi e piccole, sono accumulate nella lunga scena, storte, poggiate ai muri, di sbieco, distese a terra, sospese, crollate. Una civiltà allo stremo, una civiltà della sofferenza, del sacrificio umano. Scale tra le croci, che non portano a niente e non servono neppure per una deposizione. In certi momenti diventano supporti per avvicinarsi (inutilmente?) al cielo. Personaggi immobili, immobilizzati in ruoli: qualcuno appeso a una croce o disteso su essa, altri confinati a muoversi come leoni in gabbia in uno stretto riquadro, indossando gli emblemi di personaggi shakespeariani, la gobba di Riccardo III, il suicidio di Bruto o Cassio… Altri entrano con gorgiere barocche o con libri come gorgiere che stringono loro la gola su petti nudi. Passano, forse dicono qualcosa o mostrano un oggetto, scompaiono.
Tutto, come il ronzio della mente, come i turbinosi processi chimici di una cellula, le dinamiche delle particelle di un atomo o del sistema di una galassia, è governato da una forza. Tutto è mosso da un uomo in nero che si agita intorno a un letto, circondato dalle visioni, incitato da due attrici che lo invitano a brindare, a travestirsi, a distrarsi; che piangono quando, chiuso in sé, non le degna di attenzione. Tutto è guidato dal suo umore saturnino, malinconico, che dà voce ai vari personaggi, avvicinandosi a ognuno, offrendo il proprio microfono alle loro voci... Shakespeare o Prospero, il mago della Tempesta, mentre intorno si odono scrosci di temporale, tuoni, mareggiate, acque, venti, procelle minacciose.
È lui che come in Romeo e Giulietta e in altre opere shakespeariane di Carmelo Bene dà vita, movimento ai personaggi, che ripetono frasi estratte dai copioni del Bardo; è lui che come Leo de Berardinis in Shakespeare individua un movimento della società, del cosmo, dell’uomo proiettato nel cosmo, nel destino, in una danza dei princìpi a volte macabra, a volte comica o grottesca in modo desolante, a volte metafisica. Sempre pre-scritta, copione di atrocità e meraviglie da cui non si può derogare.
Quello cui assistiamo, è un teatro dell’impotenza, un rifiuto totale a giocare ruoli troppe volte incancreniti, incarceranti, richiusi in se stessi: il balletto degli odi, delle congiure, dei tradimenti, dei marosi attraversati, dei massacri, della gioia troppo breve e del dolore profondo, della violenza, della guerra, della spoliazione. La materia dei versi di Shakespeare, l’anatomia di una società e di un essere umano che non sa reinventarsi, pronto a ripetere gli stessi errori.
Un re nero dalla corona rovesciata combatte contro i fantasmi di cinque re bianchi, con musiche che evocano il Macbeth di Verdi. Desdemona ostenta il fazzoletto e il Demiurgo glielo strappa, e Otello – che è insieme Iago – non lo vede, non può crederle. Qualcuno denuncia tradimenti, qualcun altro li ordisce. Un senso di desolata impotenza spira dappertutto, mentre appaiono figure in lunghe vesti come sacerdoti di culti esoterici in volute cerimoniali intorno al mago-immaginatore, come particelle elettriche intorno al nucleo dell’atomo, come pianeti in rotazione e rivoluzione.
Visioni, fantasmi di un’opera ermetica, sotto il segno di Saturno, che procede per disgusti e lampi, chiedendo allo spettatore di ricavare egli stesso oro dalla sospensione, dal viaggio nel vuoto, di guardare oltre, di inventare un mondo nuovo, oltre la fissazione delle parti, dei personaggi shakespeariani, e per estensione del carcere. Un bambino chiuderà lo spettacolo, facendo rotolare una palla che somiglia al mondo, con aria insieme distante, di un altro pianeta, e di monello impunito. La abbandona e afferra per mano l’artefice di questo sogno-incubo-teatro, Punzo-Prospero, per portarlo verso altri, forse nuovi, orizzonti.
Lo spettacolo racconta molte cose, riprendendo segni depositati nella storia della Compagnia della Fortezza, ma anche nella tradizione del Nuovo teatro. Si pone come opera-summa. I riferimenti a de Berardinis e a Bene non sono espliciti, forse neppure voluti, ma per chi ha visto quegli artisti risaltano agli occhi, come una memoria stratificata, depositata, come una sintassi profonda e psichica sulle possibilità di (non) ripetere i classici, di toglierli di scena per entrare nei gangli pulsanti dell’uomo di oggi. Dopo la tempesta mette in discussione la rappresentazione, la trama (naturalmente): prova a fare il vuoto per capire quale lingua si possa parlare, dove si possa prendere la parola per formulare mondi nuovi, più umani. U-topia è quella che Punzo pervicacemente ricerca: un altro luogo che ancora non esiste, un paesaggio diverso dal carcere, ma anche differente da quella prigione generale nella quale anche chi si crede libero è rinchiuso, fatta di pregiudizi, di pigrizia intellettuale e sentimentale, di compromessi, di troppo facili sicurezze, di evasioni dal reale sulfureo, ribollente, in nome della pacificazione di una realtà considerata immutabile.
U-topia, non luogo perché ne vuole inventare uno che ancora non c’è, è questa compagnia che trascina all’entusiasmo gli spettatori, anche quelli che si sentono franare sotto i piedi il terreno della storia, del racconto, della trama, e si guardano intorno un po’ smarriti ma conquistati dalla forza delle immagini, dal mistero, dalle musiche, dalla tensione, da quell’opera alchemica che da qualche parte, in loro, l’oro lo genererà. Una compagnia che è inesatto definire di detenuti attori: sempre di più in scena ci sono giovani attrici e altri figuranti accanto ai carcerati, bravissimi, intensissimi nel disegnare questo sprofondare, annullarsi, per trovare altre strade per “scoprire un nuovo cielo, una nuova terra… come se il mondo dovesse cominciare solo ora” (questa è l’ultima battuta, pronunciata verso il cielo, su una scala altissima). Intorno a quello che si vede in scena c’è un raffinato lavoro di composizione.
Ricordiamo le scene immaginate, disegnate, realizzate da Punzo, da Silvia Bertoni e da Alessandro Marzetti, straordinario scultore di alabastro; le musiche, pop, sentimentali, raffinate, a volte perfino deliberatamente ruffiane, sempre incalzanti di Andrea Salvadori, che sono la colonna vertebrale dello spettacolo; i meravigliosi costumi di Emanuela Dall’Aglio, un altro elemento fondamentale dell’opus alchemicus, macchie di colore, architetture di immaginazione, sogno di regalità, che da sole trasformano le mura di reclusione e mettono in moto il gioco del teatro. E intorno, ancora, in questo grande impresa collettiva, in parte poco pagata, in parte volontaria, ci sono aiuti scenografi, aiuti registi, assistenti alla regia e altri (ricordiamo Laura Cleri, Alice Toccacieli, Yuri Punzo, Pascale Piscina soltanto, tra i tanti). Una vera comunità teatrale, sociale, utopica, che da sempre aspetta il riconoscimento a teatro stabile in carcere.
La città ideale
La città nuova, da immaginare, da ridisegnare, continua fuori dal carcere. Con contorni imprevisti. Laddove si aspetta il salto nell’utopia, ritorna la vecchia buona realtà. Non quella che immobilizza in ruoli, ma quella che ha cercato di sperimentarsi differente, che ha attraversato la sofferenza, la trasformazione, e che prova continuamente a interrogarsi su se stessa. Tra i tanti spettacoli visti, intercalati da dibatti, performance, lavori di giovani di Volterra riuniti nella compagnia Vai oltre, ne menziono solo alcuni. Primo tra tutti Non mi ricordo di Ginetta Maria Fino e Pino Manieri, la storia, commovente, di una passione accesasi nelle piazze del movimento del 77 bolognese, sviluppatasi tra teatro e politica e continuata nel dolore, dopo un incidente che lascia Pino in coma e poi gli toglie la memoria e molte facoltà. La tenacia dell’amore e della cura è quindi la prima città ideale, molto concreta, piccola se volete, ma esemplare.
Sempre sulla traccia dell’autobiografia che diventa storia, storia vera e credibile perché vissuta, sta Tutto quello che so del grano del Teatro delle Ariette: un bilancio di una vita passata tra campagna e teatro, dopo le delusioni della politica, a scoprire un mondo nuovo, fatto di animali, di cose coltivate e raccolte, di silenzio e di nuove possibilità di relazioni, ad attraversare crisi, occultarsi, oscurarsi e rifiorire, proprio come il seme che si interra tra le zolle, proprio come il cibo, essenziale e superfluo, oggetto di dissennato consumo, indispensabile nutrimento, momento insostituibile di relazione umana. Le Ariette si raccontano per scoprire, quasi fino a scorticarsi: senza paura di parlare di amore, di vecchiaia che avanza anche per la generazione forever young, di incomprensioni, di fantasmi, di cose e persone che sembrano per sempre svanite, memorie abbandonate che vogliono rivivere. Molto bello. Molto intenso.
Come sorprendente è Concittadini ideali di Massimiliano Civica, regista tra i più intelligenti e sensibili della nostra scena. Un’ora di chiacchiere, di aneddoti teatrali e cinematografici, con protagonisti come Andrea Camilleri, quando insegnava all’Accademia di arte drammatica, Peter Brook, Lele Luzzati, Robert Mitchum, e di storielle hassidiche, zen, sufi, che virano verso la mistica, una mistica del quotidiano, dell’esserci, del nome di dio compreso nel mondo che viviamo ogni giorno, fino alla lettura di alcune pagine di Aldo Capitini, il pacifista, il vegetariano, l’amore per tutte le creature. Civica sa parlare di cose grandi da una prospettiva apparentemente minore, dimessa, lanciando, con umorismo, piccole frasi, o mimando l’atteggiamento distaccato di Lele Luzzati, lo scenografo fantastico, di fronte ai suoi giovanili entusiasmi di studente di teatro. La sapienza delle cose, come quell’ultima frase di Camilleri lanciata, sospesa, nell’ultima lezione in Accademia, ai giovani registi: “E, mi raccomando, abbiate cura del congiuntivo”. Già, si dice Civica, ci ho pensato su a lungo. Forse voleva sostenere le ragioni dell’immaginazione, del modo dell’ipotesi, del fare come se. Dell’inventare, prefigurare mondi; non semplicemente rifletterli.
Come fa Roberto Latini con il suo meraviglioso Amleto+Die Fortinbrasmachine, un monologo con visioni e suoni (di Max Mugnai e Gianluca Misiti) sul quale dovremo tornare in modo accurato. Un’altra esperienza estatica, che dal fin troppo noto (Amleto e variazioni sul tema) ci porta in un mondo unico, in un paesaggio sentimentale, emozionale, intellettuale, visivo autonomo, germinatore.
Un altro pezzo di città ideale è stato l’esito del laboratorio di Archivio Zeta, che ha unito decine di volterrani e bolognesi in un lavoro itinerante, Yoknapatawpha, terra divisa, ispirato a Faulkner e al Macbeth e preparato per mesi, in una concezione del teatro a partecipazione che va al di là dei risultati raggiunti.
Estasi non come disimpegno, come evasione dal mondo, ma come ricerca di altri territori dell’umano, di radure feconde, profonde, in un presente sempre più superficiale, veloce, spossessato. Ricerca di incanto, come contravveleno alla vendita di tutto, alla galera del mondo, all’insopportabile cinismo, alla grigia rassegnazione.