Dramma antico a Siracusa / Baliani e Binasco: la sfida del coro
“Abbiamo provato in tutte le maniere: le abbiamo messe sul palco e sembravano ospiti non invitati, arrivati per caso da un ballo in costume. Le abbiamo nascoste dietro una tenda di velo, e parevano le scene di un film di Walt Disney. Ho visto altri tentativi: le ho viste far segni dal fondo del giardino, o irrompere sulla scena come una squadra di calcio, e non vanno mai bene”.
È Thomas S. Eliot a descrivere, con una sequenza di immagini volutamente grottesche, la difficoltà di portare sulla scena il coro greco lontano dal suo contesto originario: il rischio – mette in guardia Eliot già nel 1951 – è quello di provocare nel pubblico un effetto di comicità involontaria (per un riuscito esempio di parodia volontaria su tuniche o coturni, invece,vale la pena riguardare Mighty Aphrodite di Woody Allen, 1995).
La rassegna organizzata dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico nel Teatro Greco di Siracusa rappresenta un campo di indagine privilegiato, un vero e proprio laboratorio di sperimentazione sulle possibilità di rappresentazione del coro. Le opportunità registiche, in quel contesto, risultano amplificate: l’ampia orchestra lascia lo spazio necessario agli eventuali movimenti scenici o coreografici; i cast delle produzioni siracusane vantano più di quindici attori solo per il coro; l’Inda mette a disposizione interi laboratori di sartoria per i costumi.
Con le opportunità, come sempre accade, crescono anche i pericoli. Ed ecco le cadute più frequenti viste negli scorsi anni di festival: la ricerca dell’effetto fine a se stesso; sequenze di movimenti che appaiono non decodificabili o scarsamente giustificate; la riproposizione di un immaginario rodato, che pare voler replicare con illusoria filologia le scarse nozioni che abbiamo sul coro antico.
Tra i tentativi più riusciti, nelle più recenti edizioni, vale la pena citare almeno le Supplici di Moni Ovadia, dove il corposo coro eschileo è stato interamente riscritto in chiave di cunto siciliano (2015), e l’intervento coreutico della Martha Graham Dance Company sulle Baccanti di Antonio Calenda (2012).
La cinquantatreesima edizione della rassegna ha visto impegnati due registi al loro primo ingresso sul palco siracusano: Marco Baliani e Valerio Binasco. Al primo è stata affidata Sette contro Tebe di Eschilo, al secondo le Fenicie di Euripide: drammi che raccontano il medesimo episodio mitico (cioè lo scontro fatale tra i fratelli Eteocle e Polinice) e che consentono dunque un gioco di specchi tra i differenti linguaggi teatrali dei due tragediografi.
L’edizione, che segna un cambio di rotta al timone dell’Istituto (da quest’anno il direttore artistico è Roberto Andò), si contraddistingue per un’estetica sobria, lontana da certi “colossal teatrali”a cui ci ha talvolta abituato il festival: Carlo Sala, che firma la scena di entrambi gli allestimenti, marca lo spazio con un solo albero, a evocare simbolicamente le radici e i resti di una polis che distrugge se stessa conuna guerra fratricida.
Ma come affrontano i due registi la sfida del coro? Il testo eschileo costringe Marco Baliani a un serrato confronto con il nodo gordiano: gli interventi delle donne tebane, scosse da paura e da presagi per la guerra imminente, hanno enorme spazio nella drammaturgia eschilea (qui tradotta da Giorgio Ieranò). Baliani, spinto forse dalla necessità di affiancare agli allievi dell’Accademia dell’Inda un solido professionista, rende la figura di Antigone (la valida Anna Della Rosa) un perno dell’azione, e le attribuisce diverse battute del coro. L’operazione – che ha da un lato il merito di conferire centralità a una figura mitica fondamentale della saga, e ben nota al pubblico – non è tuttavia senza conseguenze: la ragazza che si aggira per il palco presa dal panico (“sono senza forze: è il terrore che trascina la mia lingua”) ha ben poco a che spartire con l’eroina che sarà in grado di affrontare a testa alta il regnante della città, l’inflessibile Creonte. Nello sviluppo dell’azione, non mancano intuizioni felici: Baliani dà vita a una delle raffigurazioni di Tiresia più suggestive degli ultimi tempi (una sorta di inquietante totem tribale) e riesce a evocare efficacemente sulla scena i guerrieri che minacciano la città e che il messaggero sgomento descrive al pubblico (un danzatore si sospende in posizioni ferine su una griglia lignea).
Non di rado, tuttavia, si ha l’impressione che il coro si limiti a eseguire una partitura appresa a memoria, senza aver avuto il tempo di metabolizzarla e di riproporla con consapevolezza; e i frammenti di battuta distribuiti tra gli attori e pronunciati uno dopo l’altro, così come i movimenti di attacco e difesa che si susseguono nello spettacolo, paiono quasi un esercizio accademico.
La soluzione scelta da Valerio Binasco si colloca sul versante opposto. Nelle Fenicie Euripide decide di dar voce a un gruppo di straniere, provenienti dal mare di Tiro (l’odierno Libano): le donne si trovano a Tebe per caso, e divengono osservatrici esterne ma loro malgrado coinvolte nel conflitto. Binasco crea, in sinergia con Carlo Sala, un’immagine di straordinaria bellezza: un gruppo quasi kantoriano di figure sedute, mascherate, coperte di foulard e cappotti scuri. I loro volti parlano di un’alterità di provenienza senza marcarla, e la loro presenza immobile sul palco costituisce un costante piano d’ascolto ai fatti tragici, come una rappresentanza degli spettatori sul palco.
Il ruolo del coro nella drammaturgia euripidea, orientata com’è a dare spazio ai campi di forza e alle reti relazionali tra i personaggi, è ben più ridotto che in Eschilo; e la regia di Binasco si è visibilmente concentrata sullo statuto umanissimo e anti-eroico dei protagonisti, e sulle vertiginose alternanze di registro della drammaturgia euripidea (raggiungendo, su questi due aspetti, ottimi risultati). È difficile, però, non considerare la costante staticità del coro in un’ora e trenta di spettacolo un’occasione mancata, sia essa esito di una scelta o di necessità. Le immobili Fenicie paiono quasi rispondere a distanza alle tormentate riflessioni di Eliot sulla difficoltà di un compromesso tra due prassi teatrali così distanti.
Letture consigliate per i fanatici del coro:
D. Del Corno, Erinni e boy-scouts. Il coro nelle riscritture moderne della tragedia greca, in L. De Finis (a cura di), Scena e spettacolo dell’antichità, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1989, pp. 79-88.
M.Treu, Coro per voce sola. La coralità antica sulla scena contemporanea, in “Dioniso”VI (2006), pp. 2-27.