Su due poesie d'amore del Novecento italiano / Il cuore che non dorme

2 Giugno 2018

Chi volesse allestire un’antologia di belle poesie d’amore del nostro Novecento, magari per disporre di un bacino di citazioni a uso anche privato, non avrebbe la strada facile. Non, almeno, se pretendesse di trovarsi tra le mani un canzoniere che celebra l’eros nella sua pienezza – l’eros al tempo stesso eccezionale e quotidiano, inconfondibile e universale. Chi dispiega apertamente il suo canto amoroso, se si escludono l’ossessivo riduzionismo efebico di Sandro Penna e la meteoropatia emotiva della penniana Patrizia Cavalli? Ci sono, è vero, lirici suggestivamente terrestri e sensuali, perfino in senso linguistico, come Gatto, Betocchi e certo Caproni, non a caso cresciuti anche loro, accanto a Penna, sul rovescio del tessuto ermetico: ma finiscono quasi sempre per diventare o troppo domestici o troppo sfuggenti, ripiegando su una freschezza insieme patetica e pudica e partendo per la tangente del manierismo. Ci sono, ancora, poeti erotico-famigliari alla Sanguineti o alla Giudici, che non esitano a palpare i corpi e a immergerli nella vita di tutti i giorni: ma lo fanno esibendo preventivamente il falsetto, il passaporto di una vezzosa diplomazia crepuscolare; così come il primo Pagliarani e Massimo Ferretti schiacciano altri corpi sotto la loro musica avida e guascona. Quanto a Sereni, i suoi rossori di innamorato vengono subito puniti da una reticenza brusca che li lascia a galleggiare nel vuoto. La nostra lirica novecentesca, osservava Garboli mezzo secolo fa, è “altamente ‘omosessuale’”, nel senso di una estrema introversione del tema amoroso: in genere “s’ispira a presupposti assoluti, di a tu per tu con Dio, sdegnando le sparpagliate occasioni del ‘sentimento’, i suoi trasalimenti, i suoi brividi, le sue piccole e struggenti ferite. La poesia moderna è tutta ‘intellettuale’ (…) Respinge le situazioni da fumetto, il ‘lui e lei’. Il poeta contemporaneo” non si può immaginare “innamorato degli aspetti femminili della vita quali la gioia, la giovinezza, lo splendore della pelle, una bella mattinata piena di sole, le ore della felicità che è sempre rubata, sempre momentanea, sempre sul punto di essere uccisa”. 

 

Del resto questa lirica non è che l’ultimo, stravolto capitolo di una storia poetica occidentale che può leggersi in chiave rougemontiana. È la storia che mantiene al centro l’“amore dell’amore”, Narciso e Tristano: quella tenuta a battesimo dai versi provenzali, stilnovisti e petrarcheschi in cui si sublima l’oggetto del desiderio fino a farlo sparire, secondo una metafisica che torna vestita di panni moderni nell’opera di un Montale. L’amore innalzato all’empireo, si sa, si specchia poi in basso nelle sue caricature popolari, nelle deformazioni carnevalesche che non fanno che sancirne la supremazia; così come le demoniache donne romantiche e baudelairiane, dietro il loro teschio di streghe, di bestie e di carogne, lasciano intravedere il volto etereo dell’angelo caduto. 

Ciò che questo Occidente rimuove all’origine è la nudità dei classici: il loro tranquillo intreccio di cerimoniosità rituale e affetto scanzonato, l’umiltà con cui si volgono al desiderio e all’osceno (a ciò che c’è nell’eros di irrevocabile e tremendo, ossia di sacro) proprio mentre ne abbozzano con tratti lievi gli episodi più prosaici. I moderni hanno eletto questa nudità a mito irraggiungibile: e se a volte hanno creduto di vederla riapparire a lampi in qualche loro contemporaneo sfuggito alla morsa della Storia – e magari, per via omosessuale, sfuggito pure al “lui e lei” – l’hanno celebrata come fosse un miracolo. Perché la norma, al contrario, è appunto l’atteggiamento di chi ruota sempre intorno alle aporie dell’amore genialmente descritto da De Rougemont: di chi ne assalta, scalfisce o spernacchia l’idolo per poi tributargli un inevitabile omaggio, o addirittura per rendere ancora più impalpabile e onnipresente il suo fantasma. Questo fantasma, è vero, a un certo punto s’incarna anche al di fuori del mero rovesciamento burlesco: ma l’incarnazione viene allora appaltata al romanzo “medio”, o a quel cinema a cui subito, con pochi ritocchi, un tale romanzo si propone come sceneggiatura.

 

Lì, nello specchio narrativo di una società ormai laicizzata, l’afflato idealizzante e romantico rivela il suo spirito volgarmente calcolatore, scende a patti con la routine trascinandosi tra letti precari, scene mélo e struggimenti dozzinali. La poesia invece, già arroccata in sé stessa per sfuggire alla lingua della tribù, ha sommato a questo arrocco formale la vaghezza difensiva con cui l’uomo moderno allude a una realtà che nonostante tutto continua a porglisi pavesianamente davanti come il banco di prova della vita: il “grande amore”, che per definizione “non si trova”. Così l’antico “né con te né senza di te” diventa una ipnosi da eterni adolescenti, un inseguimento della propria ombra, una leggenda che nutre sottotraccia ogni parola ipotecandola senza dichiararsi, e che carica ogni oggetto dell’aura amorosa dopo averla resa irriconoscibile.  

Si dànno, ovviamente, le eccezioni. Una è vistosa proprio perché melodrammatica: nei “Nuovi versi alla Lina”, il verdiano e heiniano Saba del 1912 dialoga con la moglie che l’ha tradito, e nella sua temeraria impudicizia ci fa udire tutti del suo cuor gli affanni. Soffre, si lamenta, interroga, accusa, perdona, torna sui fatti senza capacitarsi dell’accaduto e del suo effetto emotivo. Siamo di fronte a un raro caso di poesia imperniata sulla passione coniugale: poesia insieme traumatica e casalinga, canzonettistica e dolorosa. Con sovrana semplicità, il poeta vi dichiara il suo stupore per ciò che può fare l’ossessione, la ferita narcissica inferta dalla gelosia: il mondo caldo e vivido delle sue passeggiate si svuota, e lo sguardo è obbligato a concentrarsi su un punto solo, una femmina qualunque, una cosa così comune e piccola che “una casa nello spazio, / un piroscafo è tanto più di lei”. 

 

Ph Bae Bien-U.

 

Ma se dovessi compilare quell’antologia, io la aprirei in un altro modo. La aprirei con due testi nei quali le domande su Amore e Morte che alonano la più tipica poesia d’Occidente dal Medioevo al Novecento riecheggiano nel nido buio della coppia; e lì, in una situazione d’intimità reale, non vagheggiata ma vissuta, vengono affrontate e approfondite, conservate e superate, o piuttosto scontate, tra tenerezze tremanti e pene solitarie. Parlo di due testi dove l’amore è assolutamente vero e al tempo stesso “impossibile”: “Vecchio e giovane” di Umberto Saba e “Canzonette mortali” di Giovanni Raboni. In entrambi i casi un uomo anziano, con gli occhi sbarrati nell’ombra, veglia su un corpo giovane disteso accanto a sé nel letto, e cerca di accettare l'incommensurabilità dei rispettivi destini biologici. Ecco la poesia di Saba:  

 

Vecchio e giovane 

 

Un vecchio amava un ragazzo. Egli, bimbo 

– gatto in vista selvatico – temeva 

castighi a occulti pensieri. Ora due 

cose nel cuore lasciano un'impronta 

dolce: la donna che regola il passo 

leggero al tuo la prima volta, e il bimbo 

che, al fine tu lo salvi, fiducioso 

mette la sua manina nella tua. 

 

Giovinetto tiranno, occhi di cielo, 

aperti sopra un abisso, pregava 

lunga all'amico suo la ninna nanna. 

La ninna nanna era una storia, quale 

una rara commossa esperienza 

filtrava alla sua ingorda adolescenza: 

altro bene, altro male. «Adesso basta – 

diceva a un tratto; – spegniamo, dormiamo.» 

E si voltava contro il muro. «T'amo – 

dopo un silenzio aggiungeva – tu buono 

sempre con me, col tuo bambino.» E subito 

sprofondava in un sonno inquieto. Il vecchio, 

con gli occhi aperti, non dormiva più. 

 

Oblioso, insensibile, parvenza 

d'angelo ancora. Nella tua impazienza, 

cuore, non accusarlo. Pensa: È solo; 

ha un compito difficile; ha la vita 

non dietro, ma dinanzi a sé. Tu affretta, 

se puoi, tua morte. O non pensarci più.

 

Ed ecco la poesia di Raboni: 

 

Canzonette mortali

 

Io che ho sempre adorato le spoglie del futuro

e solo del futuro, di nient’altro

ho qualche volta nostalgia

ricordo adesso con spavento

quando alle mie carezze smetterai di bagnarti,

quando dal mio piacere

sarai divisa e forse per bellezza

d’essere tanto amata o per dolcezza

d’avermi amato

farai finta lo stesso di godere.

 

Le volte che è con furia

che nel tuo ventre cerco la mia gioia

è perché, amore, so che più di tanto

non avrà tempo il tempo

di scorrere equamente per noi due

e che solo in un sogno o dalla corsa

del tempo buttandomi giù prima

posso fare che un giorno tu non voglia

da un altro amore credere l’amore.

 

Un giorno o l’altro ti lascio, un giorno

dopo l’altro ti lascio, anima mia.

Per gelosia di vecchio, per paura

di perderti – o perché

avrò smesso di vivere, soltanto.

Però sto fermo, intanto,

come sta fermo un ramo

su cui sta fermo un passero, m’incanto…

 

Non questa volta, non ancora.

Quando ci scivoliamo dalle braccia

è solo per cercare un altro abbraccio,

quello del sonno, della calma – e c’è

come fosse per sempre

da pensare al riposo della spalla,

da aver riguardo per i tuoi capelli.

 

Meglio che tu non sappia

con che preghiere m’addormento, quali

parole borbottando

nel quarto muto della gola

per non farmi squartare un’altra volta

dall’avido sonno indovino.

 

Il cuore che non dorme

dice al cuore che dorme: Abbi paura.

Ma io non sono il mio cuore, non ascolto

né do la sorte, so bene che mancarti,

non perderti, era l’ultima sventura.

 

Ti muovi nel sonno. Non girarti,

non vedermi vicino e senza luce!

Occhio per occhio, parola per parola,

sto ripassando la parte della vita.

 

Penso se avrò il coraggio

di tacere, sorridere, guardarti

che mi guardi morire.

 

Solo questo domando: esserti sempre,

per quanto tu mi sei cara, leggero.

 

Ti giri nel sonno, in un sogno, a poca luce.

 

1982-1983

 

 

Ph Bae Bien-U.


Il ragazzo ritratto da Saba torna nel secondo dopoguerra in diverse sue pagine – telemachie in forma di epigramma, scorciatoie, poesie carezzevoli e terribili – e viene di solito identificato con il figlio del libraio antiquario milanese presso cui il poeta abitò tra il ’45 e il ’48, quel Federico Almansi che pochi anni più tardi sarebbe sprofondato nella schizofrenia. “Vecchio e giovane” fu inserita nel fascicolo di liriche intitolato “Epigrafe” (1947-1948) e destinato a una pubblicazione postuma. È composta da tre strofe di otto, tredici e sei versi, in sostanza endecasillabi camuffati dalle saldature e dalle pause di un racconto che ora si avvolge a spirale e ora si rapprende in laconiche ellissi. Fin dall’incipit, l’ambiguità del contesto è come ignorata (e sottolineata) da un’affermazione perentoria: “Un vecchio amava un ragazzo”. Il poeta finge parodicamente la fiaba, recita una saggezza lineare e una limpidezza che invece nelle prime strofe è negata dai connettivi del discorso, dal ritratto del “giovinetto” e dal dialogo con il suo amico. I “castighi a occulti pensieri” e gli occhi “aperti sopra un abisso”, alternati alla esibita calma gnomica del narratore che tiene ai due capi il filo dell’esistenza, fanno davvero pensare a un turbamento psichico, a un esorcismo condotto sul bordo della follia. “Celeste” qui non è l’azzurra pupilla sabiana che tutto può contemplare e ospitare, ma un cielo che schiaccia e un vuoto che inghiotte. Il vecchio filtra una storia, l’adolescente ingordo l’assume come un farmaco e poi vuole addormentarsi in fretta.

 

Così da un lato del letto inizia il “sonno inquieto”, dall’altro un’insonnia senza speranza. Dopo avere evocato le due prospettive che più frequentemente si fronteggiano nella sua opera, il punto di vista filiale e il punto di vista materno, il poeta prova a lenire il dolore di quella mancata empatia immedesimandosi nel compagno: se non sa restituire l’affetto è perché lotta con la propria angoscia di creatura incompiuta, ancora senza centro, e dunque fatalmente sorda ai bisogni di coloro che la accudiscono. Inutile accusarlo: è fisiologico che i ritmi non possano accordarsi. Non resta che smettere di pensarci, o passare oltre

In questa poesia le sigle di stile alto lasciate cadere qua e là non dipendono più dal tono impettito, dalle sonorità goffe o rotonde di banda paesana che caratterizzano molte composizioni giovanili: anzi somigliano quasi a una sprezzatura, al gioco agrodolce di chi si concede il lirismo appunto perché i suoi rischi e le sue promesse non fanno più presa. I panneggi levigati e sontuosi, appena suggeriti a qualche svolta, non contraddicono la natura diafana e fantasmatica del testo: ogni fanfara, bozzettistica o classicista, resta ormai alle spalle. Il risultato è una maestà calma e dolente, una trasparenza in cui non si dà scarto tra detto e cantato o tra sussurro e musica, fusi in un fraseggio di tenerezza straziata ma asciutta e lucidamente arida (la stessa tenerezza alla quale, giungendovi dall’opposta sponda di una depressione sia vitale sia stilistica, Sbarbaro era approdato intorno al ’30 nei “Versi a Dina”). 

 

Anche il Raboni maturo si muove con un passo felpato di questo genere. È un passo che acquista nelle fasi di passaggio della sua parabola poetica: prima, appunto, negli anni Ottanta delle “Canzonette”, luogo di sutura tra lo stile manzonian-brechtiano della penitente giovinezza lombarda e il manierismo delle forme chiuse; poi, alla fine, in “Barlumi di storia”, dove dalle forme chiuse ritorna a uscire verso la prosa (ma affiora anche nel metricista “Quare tristis”, non appena taglia a metà il sonetto come in “Svegliami, ti prego, succede ancora”). Anche nelle sue strofe “mortali”, la diversa biologia dei corpi stesi nell’alcova è il punto di partenza scelto per evocare i topoi di amore e morte, presenza e assenza, realtà e irrealtà; anche qui il rapporto è vissuto come un’iniziazione sempre esposta al fallimento, destinata a essere giocoforza interrotta; e anche qui l’ansia si attenua solo attraverso una resa simile a un cupio dissolvi. Se Luigi Baldacci giudicava “Vecchio e giovane” la poesia più “marmorea e straziata” del Novecento, a proposito di “Canzonette mortali”, dopo avere opportunamente citato i classici e in particolare Catullo, Paolo Maccari ha ripreso un’espressione utilizzata altrove da Raboni, e pure vicina all’ossimoro, parlando di un testo “obiettivamente straziante”. 

 

“Canzonette” è costruita a imbuto, per strofe di lunghezza decrescente – da dieci versi a uno – secondo una formula mutuata a quanto pare dalla sinfonia 45 di Haydn nota come “Sinfonia degli addii”. La prima strofa s’impernia su un motivo tipicamente raboniano: in quelle “spoglie del futuro” il tempo assume l’aspetto di una pellicola già proiettata, da riavvolgere e far scorrere avanti e indietro con agio funerario (si veda, in “Barlumi di storia”, il riepilogo di “Si farà una gran fatica, qualcuno…”). Tutto è già compiuto e ci sta davanti in una spossata, paradossale eternità barocca. I versi descrivono un moto lento di onde che si allungano e si contraggono, qua limpide e là torbide o schiumose. Le abbreviazioni coincidono spesso con smorzature gravi come pesi sul cuore, in cui la voce sembra strozzata o soffocata. A poco a poco il discorso si assesta intorno alla misura di un endecasillabo che fa da chiusa provvisoria, icastica, per poi riaprirsi subito su un’incertezza allarmata; e dopo trasalimenti, nenie, attese a respiro trattenuto e constatazioni lapidarie, la serie non si chiude con un sigillo ma con una sospensione, un “piano” da stretta che si allenta. Vista così alla moviola, la consunzione può ancora confondersi con la stasi, con un indefinito protrarsi di quell’equilibrio squilibrato: nessuno sa quanto durerà il misto di angoscia e incanto. 

 

La lentezza cerimoniale, l’iniziazione religiosa all’eros e alla morte del Raboni d’inizio anni Ottanta si gioca qui tra l’amen di chi sente di poter accettare qualunque cosa perché ha incontrato il proprio destino (“mancarti, / non perderti, era l’ultima sventura”) e l’allarme che ispira ineluttabilmente il possesso, la consapevolezza della futura perdita (“Il cuore che non dorme / dice al cuore che dorme: Abbi paura”). Se in altre liriche coeve, con lievità tenera e devota, il poeta sgrana le immagini di un teatrino pornografico, qui scioglie il “godere” nel tema della consegna a una sorte di dissoluzione fisica; ma l’accettazione di questa sorte è poi incrinata da commoventi, atroci soprassalti vitalistici – dalla fame di futuro di chi, ormai sulla soglia dell’aldilà, tenta di riafferrare un impossibile accordo della giovinezza e può farlo solo “ripassando la parte” tra una pausa e l’altra, perché il suo stato normale di uomo quasi vecchio è un torpore che se assecondato lo porterebbe lontanissimo dal ritmo a cui batte il cuore della compagna. 

“Fare l’amore e morire sono una cosa sola”, diceva Truffaut del cinema “decisamente più sessuale che sensuale” di Alfred Hitchcock, così proustianamente amato da Raboni: e lo si potrebbe ripetere davanti a entrambe le poesie. Ma in chiusura vorrei ricordare un altro regista, che ha girato un film dove la quotidianità condivisa dell’amore appare altrettanto fatale e precaria.

 

È il Chaplin di “Luci della ribalta”. Alla sua uscita, nel 1952, se ne occupò tempestivamente proprio Garboli, che al tema era con tutta evidenza sensibilissimo se trent’anni dopo decise di scrivere anche delle “Canzonette”, opera di un autore per il resto molto distante da lui. In un pezzo pubblicato di recente nella “Gioia della partita”, il ventenne studioso di Dante si concede un’incursione nel grande schermo dialogando con il commento che al film ha dedicato Carlo Muscetta, rappresentante di quel marxismo postbellico verso cui Garboli mantiene sempre un affetto aprioristico mentre batte per suo conto tutt’altre strade. Nel descrivere la storia di Calvero e Terry, il giovane critico parla dello “stato di provvisorietà in cui viene a trovarsi un amore per altro verso tanto permanente, tanto terribilmente serio e affondato nelle radici della vita che tollera di paragonarsi solo all’aria stessa in cui unicamente è dato di vivere”. “Come torni in dramma, in amore, in strazio sopportato tanta voglia di vita, che non ha sfogo e non può averlo, una volta ricalati i personaggi dalla favola in realtà e nella storia che loro è data, mediocre fuori, grande e ricca e varia dentro, diversa e uguale a tutte, come tante: questo è ‘Limelight’”, afferma nella pagina centrale del suo pezzo. “Ed è questo, precisamente, il solo modo in cui l’umano incontro di due vite diverse, Calvero e Terry, può divenire, farsi storia e una sola storia; pur non avendo, di una storia d’amore, che l’ansia d’essere tale e il saper d’esserlo e il non esserlo invece, di fatto: così che continuamente si mescola alla favola la realtà e si affaccia nella felicità la disperazione, indissolubile l’una dall’altra; perché ciò che è accaduto in mezzo a quelle due vite scova il modo d’essere una medesima cosa fra loro proprio e appunto perché comune a due vite, a due storie diverse. La vitalità, l’istinto divengono l’amore che salda persona a persona ma l’amore onde si vincolano le vite di Calvero e di Terry suscita davvero un patema indicibile, proprio una sorta di chiuso finimondo se per forza di cose tanto più brucia ogni limite quanto più gli fanno tormentosa prigione i naturalistici limiti della giovinezza e della vecchiaia, i quali infine sbiadiscono e si dissolvono come tali ma riaffiorano nuovamente come i confini stessi del tempo, della realtà in cui ciascuno dei due personaggi si cala, della storicità insomma propria di Calvero, di Terry”. 

 

Verso la fine di questo formidabile saggio, stilisticamente ancora ingorgato, troppo abbondante e tortuoso, ma già molto garboliano nell’andatura avvolgente e nel sapore,

il critico si sofferma sul punto di vista della ballerina – cioè del “corpo giovane” che Saba e Raboni guardano dall’esterno – in un passo che vale la pena riportare quasi per intero: 

 

Tanto grande è la dimensione del suo amore che sembra davvero possa tutto, anche restituire la virilità a un vecchio e il talento a chi l’ha esaurito (…): ed è un’illusione, poiché più grande diviene l’amore in Terry più acuto si fa in Calvero e in Terry lo strazio che la vita non lo conceda. Così s’alternano la felicità e la disperazione in una voglia d’amare che trova ostacolo in sé, in ciò stesso onde è nata; e chi rifletta al gusto romantico delle passioni sempre un po’ esagitate può comprendere perché in ‘Limelight’ l’amore si raffiguri in modo da non sembrare neppure più tale, un’altra cosa, tanto è vicino all’elemento inqualificabile che spinge una pietra a stare in un modo, a fiorire la rosa in un altro. Come si muova in grazia, in angoscia, in modi consueti alle storie d’amore, solitudini e improvvise felicità, come s’ammanti il desiderio l’uno dell’altra dell’esser clown Calvero, dell’esser ballerina Terry (ché ognuno simbolizza ingenuamente per suo conto), è la levità della favola, in cui la storia pare che sia sempre lì lì per sfumare; e in fondo a quella visiva trasparenza s’asciuga invece uno spasimo atroce; si dispera e invecchia e intristisce la vita di Calvero e si abbarbica l’amore di lui e di Terry tenace, con la protervia della dolcezza e per il fascino che proviene dalla vita di chi si ama, di chi si è; e si dibatte in voglia impotente, scoppia in patetiche ostinazioni, spoglio del superfluo, in un miscuglio nuovo di sofferenza e di gioia e di solitudine e di dedizione assoluta e dentro cui si vive senza aver fede in altro, perché questo solo c’è e resta, l’amore e la vita che fanno una cosa sola: quel fluido impenetrabile che sembra abbia consistenza mentre passa negli occhi di Calvero e di Terry il giorno che si ritrovano, per caso, a un caffè. Tutto si ferma intorno, si fanno grandi i loro visi accostandosi e in quell’intimità si atteggia una consapevolezza estrema, come si concentrasse in quel momento l’arco in cui la vita si compie tutta; essendo interna alla sua bellezza la sua irrimediabilità 

(…) 

 

C’è in ‘Limelight’ una sorta di naturalismo estremo e quell’umanesimo integrale di cui parla Muscetta e sopra tutto un ateismo quasi sfacciato e una disperazione lucida, che annulla e dà, ricrea, e tutto questo espresso in realtà dura, in pura favola, senza esterni soccorsi di consolazione. Si pensi al viso staccato e solitario di Calvero prima e dopo l’ultima pantomima; vi traspare la commozione come la luce in una pietra limpida, fredda; dice che la vita è immensa, varia, magnifica, perché limitata, terribile, breve, chiusa e angustiata da limiti netti, senza nient’altro all’infuori di sé.

 

“Una voglia d’amare che trova ostacolo in sé, in ciò stesso onde è nata”: eppure non una voglia romanticamente esagitata e teatralmente esagerata, ma naturale come ciò che “spinge una pietra a stare in un modo, a fiorire la rosa in un altro”; non un ostacolo rougemontianamente “fittizio”, ma invalicabile, oggettivo. E ancora: in uno stile prosciugato, trasparente, il resoconto di una felicità, di una fiaba che ha come rovescio la reale assenza di consolazione, la “disperazione lucida” che dà e toglie con un gesto solo la consistenza a quell’amore. Così, anche in Saba e in Raboni, concretezza e impossibilità sono come due lati di un unico foglio, due espansioni della stessa radice: la contraddizione senza vie d’uscita di un rapporto che nasce alla tangenza di due linee vitali destinate a divaricarsi davanti alla morte. Esiste nel Novecento italiano un’altra grande poesia d’amore, che allo squilibrio di una relazione vissuta, non “romantica”, dà la forma più biologicamente estrema, pur sospendendola nel limbo della parodia stilnovista. È l’“Ultima preghiera” di Giorgio Caproni – ma non sono “preghiere” anche “Vecchio e giovane” e le “Canzonette”? – dove i punti di vista tipici della lirica sabiana acquistano una dimensione letterale: la fidanzata coincide con la madre rimasta giovane accanto a un figlio vecchio. 

Squilibrio dei destini, si è detto; ma nella nostra ipotetica antologia dovrebbe trovare un posto d’onore anche la più bella lirica dedicata a un genere differente di squilibrio, quello delle forze. Il potere “politico”, la dialettica del servo e del padrone, l’oggettivazione sadica dell’altro penetrano infatti fin dentro le stanze più private: e Noventa, nei versi “A un’ebrea” scritti mentre si annunciava all’orizzonte la Shoah, esprime tutto lo strazio di chi sa di non poter redimere la propria sopraffazione, né attingere una giusta parità, ma solo distogliere vergognosamente lo sguardo: “Gh'è nei to grandi – Oci de ebrea / Come una luse – Che me consuma; / No' ti–ssì bèla – Ma nei to oci / Mi me vergogno – De aver vardà. // Par ogni vizio – Mio ti-me doni / Tuta la grazia – Del to bon cuor, / A le me vogie – Tì ti-rispondi, / Come le vogie – Mie fusse amor. // Sistu 'na serva – No' altro o pur / Xé de una santa – 'Sta devozion? / Mi me credevo – Un òmo libero / E sento nascer – In mi el paron”… 

 

Amare senza scoprirsi né padroni né servi: forse a volte sembra possibile solo là dove incombono “gli addii”, là dove tutto è vissuto al colmo di una intimità traboccante, trepida, sconvolta, e al tempo stesso tutto è guardato come già morto. L’amore nella sua pienezza non si dà, pare, senza lo sfondo di due solitudini, senza la minaccia, senza rivelarsi “sempre sul punto di essere ucciso”. La differenza è tra una poesia che rimuove questa realtà nei suoi castelli simbolico-allegorici, e una poesia che con la naturalezza perentoria degli “artisti da vecchi” affronta la consumazione dell’amore sotto un cielo d’ansia. 

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