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Polo del ‘900. Archivi con-nessi / Dall’8 settembre a Cefalonia
Alle ore 19.45 dell'8 settembre 1943 il Maresciallo Pietro Badoglio, nominato dal re Vittorio Emanuele III capo del governo al posto del destituito Mussolini, proclama solennemente per radio l'armistizio con gli Angloamericani, aggiungendo sul finale che “le forze italiane reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. L'ambiguo messaggio, su cui si sono scritti fiumi d'inchiostro, spinge la maggior parte dei soldati a dar corso al profondo impulso del “tutti a casa”, icasticamente reso dal film di Comencini, magari intercettati e incarcerati dai nazisti come appare in questa fotografia:
Alcuni comandanti (come per esempio Junio Valerio Borghese), specie dopo la creazione della Rsi, si schierano contro la “vergognosa capitolazione” e il tradimento dell'“alleato germanico”.
Alcuni dichiararono la morte della patria, altri ancora invece valutarono la possibilità di un nuovo inizio. Di qui il costituirsi delle prime bande partigiane come a Cuneo nello studio legale di Duccio Galimberti; ma i primi episodi di resistenza vedono protagonisti i militari, ad esempio nella difesa di Roma. La Resistenza dei militari italiani è stata infatti, per necessità cronologica, la prima, ma l'ultima ad essere valorizzata a livello storiografico e soprattutto di senso comune. Certo perché episodica dentro lo sfacelo dell'esercito, e a fronte dell'epopea volontaristica dei partigiani (al cui interno maturavano fior di scrittori), che per altro è stata innervata a fondo anche da ex-ufficiali e soldati.
Il recupero più eclatante a livello istituzionale si deve al Presidente della Repubblica, già combattente in Albania e partigiano, Carlo Azeglio Ciampi, che cercava di rinsaldare il senso di comunità nazionale riannodando i vincoli risorgimentali e resistenziali, senza dimenticare la Grande Guerra, piuttosto allentati. All'interno di questo tentativo fatto di discorsi e visite ufficiali, il massacro di Cefalonia, dove da Capo dello Stato si recò nel marzo 2001 e disse verso i Caduti della Acqui “Decideste consapevolmente il vostro destino. Dimostraste che la patria non era morta. Anzi, con la vostra decisione, ne riaffermaste l'esistenza. Su queste fondamenta risorse l'Italia”, rappresenta l'episodio chiave. Un altro ex-partigiano e non ancora Presidente, Sandro Pertini, scriveva nel 1972 che “un romanzo con valore di testimonianza” era stato il primo a rompere il silenzio, comprensibile in Germania perché toccava la Wermacht e non le indifendibili Gestapo o SS, ma “colpevole in Italia”. Si riferiva naturalmente, nella sua prefazione, a Bandiera bianca a Cefalonia, opera di rigore storico al servizio dell'invenzione, o viceversa, di uno scrittore, Marcello Venturi, che aveva fatto giovanissimo il partigiano sull'Appenino toscano e aveva esordito su «Il Politecnico» proprio con dei racconti resistenziali.
Il romanzo immagina che il figlio d'un capitano d'artiglieria, Aldo Puglisi, cerchi nell'isola dove vent'anni prima è caduto il padre testimonianze fisiche (i paesaggi, gli abitanti sopravvissuti al terremoto del 1953, il cimitero) e orali del suo passaggio. La struttura risulta dunque stratificata tra il presente della narrazione, con l'incontro del figlio con il fotografo-interprete d'origine italiana o con la maestra greca che aveva forzatamente ospitato in casa il padre, e il passato delle vicende storiche. Di qui le numerose dissolvenze filmiche attraverso pensieri e ricordi dei personaggi, che li trasportano lungo il tempo; e anche un montaggio dei fatti del '43, per esempio con l'anticipazione della morte del padre. Caratteristico dunque è lo sguardo postumo, quello del figlio d'un caduto: l'arrivo sul luogo dei fatti avviene attraverso un viaggio che sarà anche memoriale. Il figlio di Aldo prende la nave, secondo un periplo fuori stagione che permette l'immedesimazione con le sensazioni paterne: “mi appare un'isola desolata e tetra, un avamposto di confinati”; un luogo gravato oltretutto da un grande peso che affonda nella storia remota: “I primi soldati che sbarcarono e morirono sulle sue spiagge furono i tebani. Poi i soldati di Atene, i fanti di Filippo V il Macedone; e via via, i legionari di Roma, i normanni, i veneziani, i turchi; e, in tempi più recenti, i militi di guarnigioni francesi, russe, britanniche”.
Si tratta d'una periferia del mondo, a cui si correla da subito la sensazione di essere tagliati fuori. La sensazione del figlio è la stessa del padre in relazione al contesto della guerra. Anche Aldo Puglisi manifesta infatti simili pensieri di attesa incerta e solitudine: “tutti loro italiani erano soli nell'isola, là in mezzo al mare, senza neanche un piccolo aeroplano che volasse dall'Italia a dare loro un'occhiata”. Ne deriva che l'8 settembre pare quasi una profezia in fase di autoavveramento fin dall'inizio: “pareva non dovesse esistere più niente; che ogni valore, da secoli stabilito, fosse crollato; non un vero governo, ma un re in fuga; né patti di alleanza, né nemici né amici”. Così il festoso scampanio di tutte le chiese di Cefalonia fa felici soltanto per un attimo gli Italiani, che appunto presagivano, temendo e sperando, la fine; con un robusto rafforzamento a seguito del 25 luglio.
Tuttavia “il paradosso” del cambio di alleanze viene enfatizzato dalla stretta dimensione insulare, che ha visto ufficiali tedeschi e italiani condividere perfino la mensa e che all'improvviso li trova separati. Il Generale (Gandin nella realtà) è da prima senza ordini; poi ne riceve di contraddittori, perché da Atene Vecchiarelli il 9 settembre invita alla resa, più tardi da Brindisi si caldeggia invece la resistenza. Di qui i rovelli, lungamente sviscerati, dei comandi locali, che mirano a tornare a casa con le armi (saputo, tra l'altro, che a Santa Maura i commilitoni sono stati fatti prigionieri e giustiziato il comandante dopo la resa) e pretendono per garanzia l'ordine scritto di Hitler. Forse tale tergiversare, prendendo tempo nella speranza remota di soccorsi navali dalla patria o dagli Inglesi, fu fatale, in quanto permise all'esiguo contingente tedesco di attendere rinforzi. Trovarsi in una piccola isola sperduta e insignificante sullo scacchiere degli Alleati impegnati a risalire la madrepatria, alla mercé dell'aviazione germanica che presto si sarebbe affacciata nei cieli tersi dell'Egeo, muoveva gli alti responsabili a testare a fondo la via d'uscita senza spargimento di sangue.
Il protagonista di Venturi, come tanti militari hanno scritto nelle loro memorie, è fiaccato da una sensazione di fine incombente (“Si sarebbe detto ch'egli sapesse di essere destinato alla morte, che lo sapesse dal giorno in cui, vestito della sua bella uniforme di capitano d'artiglieria, si era messo in posa per la foto da mandare alla moglie.”) e dalla vergogna per l'abbandono della guerra e dei camerati come fosse una colpa sua; non si sente “la stoffa dell'eroe, né del guerriero, ma neppure quella del comandante”, piuttosto vorrebbe finirla con gli spargimenti di sangue, mosso da una nuova consapevolezza verso gli obblighi della divisa e da una modesta rivolta figlia dello sfinimento. Purtroppo, data la geografia claustrofobica in cui si trova, la divisione Acqui può solo attestarsi in una difesa statica, come stare in una città; laddove i partigiani faranno della mobilità del raid la loro unica forza.
La focalizzazione di Bandiera bianca, al di là delle riflessioni del protagonista, è tutta sui Tedeschi, spesso solo sagome viste da lontano o nello scontro nei racconti partigiani. Il punto saliente lo enuncia un cameriere greco al figlio di Aldo: “A me piace italiani […] Italiani, buoni. Tedeschi, cattivi”; le verità letterarie sono sempre metaforiche: qui chi sta parlando e perché? Soltanto il cameriere per accattivarsi le simpatie di un cliente, oppure il narratore che va cercando conferme sulla figura del padre, o addirittura l'autore per interposti personaggi? Certo l'intero romanzo pone una “barriera invisibile” a separare Italiani e Tedeschi, Puglisi ed il suo contraltare di cui si sfruttando anche il punto di vista, l'Oberleutnant Karl Ritter.
I Tedeschi sono rozzi e grossolani secondo la maîtresse delle prostitute italiane, il loro sguardo è “azzurro e freddo”, vitreo e distante come quello della macchina. Mostrano la pazienza degli automi nell'aspettare l'ordine del loro comandante in piazza, sotto il sole a picco, e l'efficacia del meccanismo quando messo in moto: “la guarnigione, anche se piccola, anche se fragile messa a confronto della Divisione italiana, funzionava perfettamente, in ogni suo minimo e lontano ingranaggio.” Appena si mettono in marcia per la loro azione punitiva diventano un tutto compatto (“era una parete mobile di ferro, che franava insieme a lui, che scendeva sulle tende del nemico”), programmaticamente cieco e infallibile alla violenza: “un ritmo duro e silenzioso di guerra, che, più che a soldati, li faceva somigliare a una macchina semovente, una macchina di morte che nessuno sarebbe riuscito a fermare”.
E nel contempo nella persona della loro guida Ritter aggiungono alla forza macchinica la ferocia primordiale della belva: “ora si trattava di giocare d'astuzia, eccitare le proprie qualità sensitive, trasformarsi, il più possibile in animale da preda”, che si è come sedimentata nel DNA di un intero popolo bellicoso: “era come se la guerra la conoscesse da tempi immemorabili, al di là della memoria; come se l'avesse combattuta in un mondo anteriore all'infanzia”. Su tale fondo pre-culturale, naturalmente ben disposto, Ritter impianta l'ideologia aristocratica della nazione dominante, che disprezza su base razziale i nemici e gli alleati sottomessi: “il mondo del subumano, composto di esseri deboli, fisicamente tarati, perennemente disponibili alla sconfitta e al pianto. Sempre in fuga dinanzi a loro tedeschi. Sempre con le mani alzate in atto di resa. […] La ragione di quella loro debolezza comune, pensò, stava nel sangue degli ebrei. Il sangue ebraico scorreva dovunque, tra i francesi, tra i greci, tra gli jugoslavi, tra i russi: persino tra gli ex-camerati italiani: anche nelle loro vene scorreva il sangue di Giuda traditore.”
Il nemico che sta più in basso nella scala degli avversari diventa allora proprio l'ex-alleato traditore, il quale non può essere trattato come un normale combattente, ma fucilato senza pietà dopo la resa, spogliato di orologi e anelli; a cui il vincitore dedica semmai un fuggevole senso di stanchezza dovuto al carico di morti gravantegli addosso. Venturi segue la battaglia proprio attraverso lo sguardo di Karl Ritter, soffermandosi solo sugli episodi iniziali, quali l'attacco alle salmerie e a un distaccamento isolato, che hanno come esito la rapida resa e il successivo sterminio. Poi Ritter si ricongiunge con i due battaglioni della Prima Divisione alpina tedesca, sbarcata nella notte tra il 18 e il 19 settembre nella baia di Kiriakí, per sferrare l'attacco decisivo ad Argostoli, ma l'autore sorvola sulla Resistenza italiana e sullo scontro, preferendo concentrarsi sul dopo.
Venturi cioè sceglie consapevolmente di fissare la luce sul martirio, a partire dalla denuncia del numero, per soffermarsi sul comportamento tedesco al di fuori di ogni regime di guerra e finire sui corpi bruciati perché il misfatto resti celato: “Centoquarantasei ufficiali e quattromila soldati, catturati vivi e poi uccisi, nelle esecuzioni sommarie, salivano verso il cielo in quelle spesse, pigre nubi di fumo”. Non a caso il punto di vista della narrazione viene affidato a Ritter da una parte, stanco per il fardello destinale del vincitore, dall'altra agli abitanti dell'isola, insieme a qualche superstite che s'era rifugiato tra i contadini, scesi per strade e sentieri fino alle fosse nauseanti per il puzzo di carburante, legname e corpi arsi:
“Quanti ne aveva fucilati, dunque, con quello sguardo pieno di sorpresa, e l'improvvisa consapevolezza della morte […] Le fiamme illuminavano a giorno il terreno per un raggio di molti metri, avanzavano su un fronte compatto, mobilissimo, guadagnando continuamente altri cadaveri. I quali giacevano riversi sulla schiena, o bocconi, le braccia aperte al cielo, allungate sui fianchi, incrociate sul petto; le teste reclinate su una spalla o gettate all'indietro, nelle posizioni più strane e grottesche. Di alcuni, nel riverbero dei falò, si scorgevano gli occhi rimasti spalancati sul vuoto, e accesi, mossi dal guizzo della luce.”
Così si ribadisce, segnalandola come pregio da Pertini, “l'antinomia di elementi: l'umanità e la disumanità, la dignità e la ferocia”, ma in tal modo pur basandosi su riscontri reali alimentati dall'eccezione resistenziale dell'Acqui, si rischia un manicheismo mai opportuno in letteratura e il rafforzamento del mito autoassolutorio, studiato a fondo da Filippo Focardi (Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale 2013, ma anche La guerra della memoria 2005, sempre Laterza), che ha fatto molti danni alla nostra coscienza nazionale. In effetti il processo riscontrato in Caterina Pariotis, che passa dall'avversione per l'occupante all'amore verso il suo umanissimo, malinconico e rispettoso ospite (“Poteva essere stato mai il nemico di qualcuno, lui, Aldo Puglisi, nonostante le molte divise”), viene ampliato poi a tutti i Cefalioti nei confronti di tutti i soldati (“C'erano ragazze, vecchi, bambini, nei gruppi che si stavano radunando sul lungomare. Donne che venivano a salutare i loro amici italiani, a vederli per l'ultima volta”), che pietosi sottraggono parte dei cadaveri, portandoli a spalla o su carrette, per andarli a seppellire.
Per l'esercito italiano, nella realtà statica di Cefalonia, o nella fantasia balcanica di movimento di Il ritorno, anabasi drammatica di ambientazione balcanica raccontata da Manlio Cancogni, la Resistenza sembra avere l'unico esito della morte testimoniale. L'alternativa, appena più avanti nel tempo, fu lo schierarsi con i nuovi Alleati anglo-americani, come raccontato con sofferenza da Geno Pampaloni in Fedele alle amicizie: “Si aveva la sensazione, o meglio la certezza, di combattere una guerra veramente volontaria, contro tutto: contro l'indifferenza degli Alleati, contro la diffidenza dei partiti, contro l'impotenza dei comandi.” E anche però il rinsanguare con la propria esperienza militare le formazioni delle montagne ribelli come hanno poi raccontato in tanti, due tra tutti il Nuto Revelli già protagonista della tremenda vicenda di Russia o il supremo Fenoglio dell'epopea di Il libro di Johnny, ricostituita da Gabriele Pedullà: anche di questo, che divenne rischiosissima scelta individuale, va dato atto ai militari italiani dopo l'8 settembre.
Nell’ambito della programmazione culturale 2021 del Polo del ‘900 Dove portano i Venti. Crisi, transizioni, opportunità del nuovo decennio, la Fondazione Istituto piemontese Antonio Gramsci propone e coordina il progetto integrato Archivi con-nessi. Un progetto di valorizzazione dello straordinario patrimonio archivistico e bibliografico degli enti partner del Polo del ‘900, che prevede la pubblicazione sull’Hub 9centRo di percorsi tematici multimediali connessi. Le risorse presenti sull’Hub, le pubblicazioni disponibili sul Catalogo del Polo Bibliografico della ricerca, le fonti esterne di approfondimento (voci di Wikipedia, bibliografie online, video), con l’aiuto di storici, archivisti, bibliotecari e ricercatori confluiranno in un ecosistema informativo a più livelli di approfondimento. Il testo che qui presentiamo, nato dalla collaborazione fra Polo del ‘900 e Doppiozero, prende spunto e si sviluppa a partire dai materiali presenti nel percorso “Resistenza e Liberazione” (consultabile qui).