Fotografia europea 2024. La natura ama nascondersi

15 Maggio 2024

“La natura ama nascondersi” è il titolo del Festival di Fotografia Europea del 2024. La frase è stata ripresa da un frammento di Eraclito che ha generato uno sterminato numero di interpretazioni. Secondo Pierre Hadot, nel suo saggio Il velo di Iside. Storia dell’idea di natura, l’aforisma esprimerebbe lo stupore dinnanzi al mistero della metamorfosi, dell’identità profonda della vita e della morte. Intorno a questo titolo gravita un elevato numero di temi, e soprattutto di propositi, fra cui la volontà di puntare i riflettori sull’emergenza climatica, la necessità di celebrare una coscienza ecocentrica, il bisogno di incoraggiare le azioni positive che gli esseri umani possono intraprendere; una lista di buone intenzioni da portare a compimento nell’epoca dell’Antropocene. Seppur suggestiva, la sentenza eraclitea fa venire in mente un’antica cornice che contiene un’opera d’arte contemporanea.

Nelle mostre di Reggio Emilia, la natura non si nasconde, ma si manifesta in tutta la sua potenza e maestosità. Una natura dai tanti volti, alberi distrutti dal cambiamento climatico, enormi sciami di cavallette, pietre abbandonate in terre secche e aride. Non è la prima volta che il festival si occupa di un tema legato all’emergenza ecologica. Una precedente edizione del 2015, Effetto terra, si proponeva di cercare nuovi equilibri tra le ragioni della natura e il necessario e inevitabile agire umano, ed anche allora, come in questa edizione, veniva proposta una mostra collettiva dedicata alle nuvole. 

Nell’attuale edizione ci si trova di fronte a una nuova esperienza, qualcosa è mutato, e il fiume di immagini dentro cui siamo immersi, ci interroga con maggiore insistenza su come siamo giunti a questo drammatico traguardo. Ma non abbiamo l’eloquente risposta scritta in formule matematiche che il libro della natura ha dato a Galileo Galilei, e nemmeno le confuse parole che la natura, tempio e foresta di simboli, ha suggerito a Charles Baudelaire. Il messaggio è un grido d’allarme: se il comportamento dell’uomo è contro natura, la reazione della natura è contro l’uomo. La catastrofe sembra l’unico orizzonte possibile, e scostando il velo, la natura-Iside non ha le fattezze di una dea, ma quelle di un insetto verde, una cavalletta dal muso conico e dalle lunghe corna. 

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Michele Sibiloni, Untitled, Bundibugyo, Uganda 2017 © Michele Sibiloni.

Nsenene, che dà il titolo alla mostra e al libro che Michele Sibiloni ha pubblicato nel 2021, indica una particolare specie di grillo selvatico. L’artista ha fotografato la raccolta notturna di questi insetti, che in Uganda rappresentano un’importante fonte di cibo, grazie al loro elevato contenuto proteico. Anche se sono diverse dalle tremende cavallette bibliche, quelle fotografate da Sibiloni non hanno nulla di rassicurante. Attaccate tenacemente alle maglie dei cacciatori, sembra addirittura che siano le cavallette a nutrirsi di carne umana. Le foto, scattate di notte, sono invase da una luce verde fosforescente che ricorda il colore degli insetti. Verde non è sinonimo di natura, ecologia, freschezza, ma la sfumatura di un incubo claustrofobico da cui sembra impossibile uscire. Così accade anche per il video. Lo schermo invaso da enormi sciami di cavallette e dal loro ronzio fastidioso, intensifica il   senso di tensione e soffocamento.

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Matteo de Mayda, L'Om Salvarech (Uomo Selvatico), una figura del folklore alpino che, secondo la leggenda, funge da mediatore tra l'uomo e la natura / The Om Salvarech (Wild Man), a figure from Alpine folklore who, according to legend, acts as a mediator between man and nature. Rivamonte Agordino (Belluno), 2022 ©Matteo de Mayda - There’s no calm after the storm. 

Se gli insetti di Sibiloni, vengono catturati per essere mangiati, quelli di Matteo de Mayda sono una pestilenza. Il Bostrico tipografo, un coleottero parassita che si ciba di legno, prosegue con sbalorditiva voracità l’opera di distruzione causata dalla tempesta Vaia, abbattutasi sulle Alpi italiane tra il 26 e il 30 ottobre 2018. De Mayda fotografa i segni del Bostrico, che si nutre di corteccia e di piante morte o in procinto di morire, ma anche di alberi vivi, come segni di un minuscolo alfabeto della distruzione. Oltre alle immagini espone alcuni pezzi di corteccia, cadaveri davanti a cui sfilare in silenzio. There’s no calm after the storm è il titolo della mostra, rassegnato ammonimento e inutile presa di coscienza dopo il disastro. Si vedono alberi sradicati, spezzati, marchiati di fucsia, rimossi da un elicottero e sospesi come anime che si levano verso il cielo. Se nelle fotografie di Sibiloni non si percepisce alcun elemento che attenui il senso di oppressione e pestilenza, in quelle di de Mayda l’impressione è che tutto sia edulcorato dallo sguardo compassionevole del fotografo, che affievolisce il dolore, rende accettabile la catastrofe, conduce a una catarsi.

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Delfos © Yvonne Venegas

Proprio come fa Yvonne Venegas, che in Sea of Cortez, racconta il tragico evento in cui sono morti i suoi antenati. Francisco Percevault Sobarzo, bisnonno della fotografa, lavorava come contabile nella miniera di rame sorta vicino a Santa Rosalía sul Mare di Cortez. Il 10 settembre 1931 la popolazione che viveva vicino alla diga fu evacuata a causa di un uragano proveniente dal Pacifico. Francisco decise di non andarsene. Della sua famiglia sopravvissero due figli, Manuel e Rodolfo, nonno di Yvonne Venegas. Lo sguardo della fotografa è scisso, affetto da uno strabismo che spinge un occhio verso il passato, la miniera avvolta nella polvere, i resti di una casa distrutta, e proietta l’altro verso il futuro, giovani ballerini i cui corpi in movimento fungono da antidoto al veleno che ha pietrificato ogni cosa. Le arance poste a terra, vicino a un cumulo di macerie, sono un’offerta alla natura matrigna, affinché la barca capovolta, abbandonata in un prato, cessi di ricordare una bara e torni in mare, a galleggiare come una scialuppa di salvataggio.

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Jo Ractliffe, Elandsbaai, 2023, 88 x 99 cm, silver gelatin print, Courtesy of Jo Ractliffe and Stevenson, Cape Town, Johannesbutg and Amsterdam.

Nessuna traccia di acqua sgorga dalle fotografie della sudafricana Jo Ractliffe. Qui la natura ha la forma di una balena arenata sulla spiaggia. L’occhio del cetaceo è il punctum della fotografia, un globo scuro ed acquoso in procinto di versare un fiume di lacrime. Terra, pietre, montagne sono senza vita, ogni elemento di Landscaping compone una stratigrafia della catastrofe, tranne il corpo della balena, concime per la terra arida. Una massa morbida e confortevole, dentro cui gli esseri umani, da Giona a Pinocchio, hanno trovato rifugio, si oppone alla desolazione del paesaggio sudafricano. Il corpo della balena è una cartina di tornasole che registra l’azione funesta dell’uomo sull’ecosistema, ma è anche il ventre in cui Giona sprofonda, per essere rigettato dopo tre giorni, e come Cristo, giungere alla resurrezione e alla rinascita. 

Ci si chiede quanto siamo disposti a mettere in discussione e cosa decidiamo di cambiare del nostro stile di vita per il bene del pianeta. Karim El Maktafi prova a suggerirlo con day by day. Il suo progetto, dedicato all’Appennino Emiliano, è un lavoro eseguito su commissione per conto del Festival. day by day suggerisce il passare lento dei giorni e l’alternarsi immutabile delle stagioni, un ritmo diverso da quello frenetico della città. Gli adulti sono in posa davanti alle loro case, vicini agli alberi, alle prese con le loro occupazioni quotidiane; i bambini giocano nel fiume, camminano nei prati, si sdraiano nell’erba a guardare il cielo. Nessuno sorride. Una vena di malinconia avvolge le loro esistenze. Non c’è nulla di maestoso e sublime, il paesaggio viene plasmato da gesti antichi che si rinnovano nel silenzio. Tornare alla natura significa tornare alla terra, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti, scriveva Cesare Pavese. L’Appennino ha il volto di Giovanni Lindo Ferretti, che abbraccia il suo cavallo e si confonde con il muso dell’animale; di una bambina le cui braccia si intrecciano con i rami spogli dell’albero sul quale si è arrampicata. Come accade all’Om Salvarech del folklore alpino, a cui de Mayda dà un volto e una voce. Un essere semidivino ricoperto di rametti e foglie, personificazione della selva, memoria vivente di come siamo stati, ma anche dell’animale che siamo e abbiamo rinnegato. In primavera, l’erba ha ripreso a crescere. I cervi sono tornati a brucare. (…) E tutto è ricominciato. Ci sono abituato. Le tempeste vengono e vanno, lasciando il caos dietro di sé. Sono parte della mia storia. (…) Niente va distrutto per sempre. Io rinascerò. Qui o più in alto. Ora o più tardi. In questa forma o in un’altra. Tu invece? Sopravviverai? Ti adatterai? Sarai pronto quando il vento soffierà ancora, questa volta più vicino, più forte, più letale?

Fotografia Europea 2024, La natura ama nascondersi, a cura di Tim Clark, Walter Guadagnini e Luce Lebart, Reggio Emilia, fino al 9 giugno.

In copertina, Karim El Maktafi, day by day, 2024 © Karim El Maktafi.

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