Blu agli Uffizi
Sempre più di frequente, purtroppo, ci troviamo a fare i conti con iniziative e decisioni di direttori, di politici o di amministratori che, in nome di un delirante pragmatismo che fa alla pari con la sfrontatezza, camuffata da capacità di innovazione e di modernità, e al solo fine di dimostrare la propria distanza dall’inettitudine dei politici-amministratori del passato, intervengono anche nei musei. Nella pagina dedicata alla Cultura del Corriere della Sera di domenica 18 dicembre 2011 è apparsa la notizia, corredata di una piccola, ma significativa fotografia, della nuova colorazione delle pareti di otto sale del museo di Firenze destinate all’esposizione delle opere dei “Maestri stranieri”, aperte al pubblico da martedì 20 dicembre. L’iniziativa è stata presentata come la prima tappa del “Progetto dei Grandi Uffizi” (sic). Le opere esposte sono di artisti fiamminghi, olandesi, spagnoli e francesi rimaste finora nelle zone in sicurezza del museo non accessibili al pubblico.
Il Direttore della Galleria, Antonio Natali, ha spiegato di avere scelto il colore blu “perché vibrante, acceso e confacente per cultura e gusto ai dipinti esposti in queste sale”. Ci piacerebbe chiedere al direttore di quali parametri percettivi si sia avvalso per accertare che il blu è un colore “acceso e vibrante”, e quali studi critici e storici gli abbiano confermato che il blu è un colore “confacente per cultura e gusto” ai dipinti esposti in queste sale. Anche ammesso, infatti, che possa essere sensato colorare le pareti di un museo di arte antica con colori vibranti e accesi, le nostre modeste e a questo punto anche traballanti conoscenze ci portano a chiedere come il blu, che tra tutti i colori dello spettro è uno dei più scuri e meno brillanti (superato in questo soltanto dal viola) possa risultare idoneo ad ottenere un effetto simile. Ciò che ci lascia del tutto sconcertati, comunque, non è la giustificazione storica della scelta, bensì l’assoluta ignoranza delle più elementari conoscenze dei meccanismi psicofisiologici che presiedono alla percezione dei colori.
Rattrista ricordare che fu proprio Leonardo a descrivere con precisione il fenomeno dell’interazione cromatica: ogni colore non viene mai visto in se stesso, per quello che pensiamo sia, ma, a seconda dei colori che gli vengono accostati, muta continuamente i parametri della propria luminosità e tonalità, e, a sua volta, nel medesimo tempo, interagisce con i colori ad esso contigui, modificandone i loro valori e parametri cromatici. In breve, il colore della parete non è mai neutro rispetto ai colori del dipinto, perché, nonostante la cornice, la cui funzione è proprio quella di isolare lo spazio interno da quello esterno al dipinto, esso svolge un’azione inducente sui colori racchiusi all’interno di essa. Il colore della parete su cui si colloca il dipinto, in qualità di sfondo esercita un considerevole effetto sulla luminosità e la tonalità dei colori disposti sulle tele. La vita di un colore, cioè, dipende dal tipo di interazione in cui si trova implicato e l’azione inducente, quella che si misura in termini visivi come indice di alterazione, è esercitata essenzialmente dal colore di maggiore estensione: appunto quello, in questo caso, della parete-sfondo dei dipinti. La luce che illumina le opere esposte, sommandosi alla luce riflessa dalle pareti, assume una lieve ma non ininfluente colorazione di blu, sufficiente a far virare la composizione del suo spettro cromatico verso una tonalità più fredda. In particolare, la gamma dei gialli presenti nelle opere, in quanto colore complementare al blu, sarà quella che subirà le alterazioni maggiori: con differenti gradi di incidenza, appariranno più desaturati e spenti, più acidi e tendenzialmente verdastri. Viceversa le parti colorate con gamme di verdi e di blu appariranno più intense e cariche di luminosità, perché la luce che le illumina è sbilanciata verso le radiazioni di minor lunghezza d’onda, quelle che stimolano la sensazione del blu nel nostro occhio.
Chissà se il nostro direttore si sarà mai accorto di come la sua bella giacca blu, passando da una stanza illuminata con lampade a incandescenza (le comuni lampadine con il filamento in tungsteno) a un’altra, illuminata con lampade fluorescenti (note come tubi al neon), o andando in strada sotto a un lampione che irradia una luce al sodio, non rimanga del medesimo blu, ma che, passando da un tipo di illuminazione ad un altro apparirà colorata di un blu spento e desaturato, nel primo caso, di un blu acceso, nel secondo e di un grigio bluastro, nel terzo. Certo l’incidenza della luce riflessa dal blu delle pareti non è dello stesso livello di quella degli apparecchi illuminanti descritti sopra, ma, trattandosi di opere d’arte in cui l’equilibrio cromatico è spesso sorretto da una calibrata distribuzione dei toni, per il raggiungimento della quale, molto presumibilmente, il pittore avrà dedicato non poco del suo tempo, riteniamo che sia quantomeno inopportuno e immotivato l’intervento.
Il compito dei direttori dei musei dovrebbe essere quello di impiegare le capacità e le risorse di cui dispongono per garantire la conservazione e le migliori condizioni di fruizione delle opere custodite. E per migliore condizione di fruizione si intende anche un’esposizione in cui l’illuminazione ambientale non interferisca con la luminosità dei colori dipinti, consentendo alla giustapposizione delle tonalità di ogni singolo dipinto di produrre l’interazione cromatica che il pittore ha ritenuto essere “la più confacente” alla sua poetica personale: esattamente il contrario di quanto è stato fatto negli Uffizi di Firenze. Esempi che vanno in questa direzione, e competenze che perseguono le condizioni suddette, per nostra fortuna ne abbiamo: basti affacciarsi nella sala di Palazzo Marino a Milano in cui è allestita la mostra delle due opere di George La Tour, L’Adorazione dei pastori e San Giuseppe falegname, per avere suggerimenti su come si illuminano e si allestiscono mostre che rispettano i colori delle opere esposte.