Un teatro per pensare in comune

1 Agosto 2011

Quattordici giugno. Piazza di Torre Argentina a Roma, caldo feroce. Alle 10 siamo pronti. Ci dividiamo in tre gruppi, zaino in spalla, lenti scure, passo apparentemente svagato, aria da turisti. Al telefono si parla per monosillabi. Ora accelera, non fermarti, convergiamo su due lati. Mancano duecento metri dall’ingresso per gli artisti del teatro Valle. Alle spalle del Senato, sei mesi prima la sassaiola contro i blindati, prima che una carica irrompesse da questa strada. Un’imboscata. Ho rischiato l’arresto, manganellate in piazza del Popolo. Sanguinavo dalla testa. Ma sono riuscito a scrivere, nonostante tutto. Nella fuga ho strappato il cappotto al gancio di una porta.

 

L’occupazione del Valle – oggi ha assunto la stessa importanza del movimentodegli intermittenti francesi dello spettacolo negli anni Novanta – non è iniziata con un’attrice che faceva da esca con il portiere del Valle, leggenda chic creata da un bravo inviato di Repubblica. Risale adue mesi prima, all’assemblea del Piccolo Eliseo dovenacque l’alleanza tra i lavoratori del Valle e gli intermittenti dello spettacolo romani di Zeropuntotre. La video-intervista realizzata tre anni fa da Roberto Faenza riprende le analisi, la postura, la felicità di un atteggiamento critico, la capacità di costruire coalizioni, che oggi rendono il Valle, e i suoi occupanti, un esperimento del futuro anteriore. Il mondo  come sarà è quello che state vivendo qui. Segnali, frammenti, sintomi di un presente che ricostruiremo tra qualche anno.

 

 

Quel giorno la porta del teatro era aperta. Entriamo.Un centinaio tra attori e danzatrici, video-maker e attrezzisti, tecnici del cinema si radunano in platea. Davanti a noi corde, carichi, impianti elettrici, un tavolo per costruire una quinta. È un cantiere, su questi assi c’è una pura potenzialità. «Tutti in platea, prendete la scala e attenti ai cavi». Le porte sono chiuse dall’interno, non si fuma, «e questo non è solo un dovere morale, ma perché qui scatta l’antincendio». Il cordone sanitario si rafforza. Si spiegano le ragioni e le responsabilità di tutti. Ci mettiamo in fila, parte la visita guidata. Chi il teatro lo conosce meglio dell’anima avverte che è inutile scappare in caso di incendio. «Non andrete da nessuna parte, il teatro è pieno di vicoli ciechi». E non solo il teatro.

 

I camerini, dove l’acqua è calda. I palchi dove si continua a dormire, nonostante gli acari. In fondo al foyer c’è una gigantografia di Eleonora Duse che guarda dritto chi sale sulle scale a ferro di cavallo. È un’ascensione, accade nei grandi palazzi romani dove le scalinate sono un nastro che coniuga una trigonometria affettiva. Il piccolo corteo scorre in silenzio. È quasi una preghiera, una discreta adorazione coglie tutti all’improvviso. Ma questa serpentina di anfibi assomiglia anche ad una gita turistica. Le finestre non si aprono nella camera assolata al terzo piano. Per una volta la vita è dentro le mura, non dispersa nell’ordinaria mostruosità del mondo. «Non affacciatevi al mancorrente del palchetto. Chi si appoggia casca di sotto». In questa bomboniera di velluto rosso tutto è vero, tutto è falso.

 

Da una stanza grande quanto un cunicolo si affaccia Pierina. Memoria storica del Valle, ricorda le repliche dei Sei personaggi in cerca d’autore,Pirandello lo fece mettere in scena qui per la prima volta. È una donna con lo sguardo quieto e l’ironia folgorante. Da trent’anni arriva in teatro, ogni giorno alle cinque e mezza, in autobus da Tor Bella Monaca. E amministra il bene più prezioso per l’arte che a quell’ora dorme: l’ordine, la pulizia, la nettezza, la sicurezza. Prepara la potenza, la sua espressione. Ogni giorno è una veglia in attesa della sera, quando l’orologio riprende a girare, e arriveranno i tecnici, gli attori e il pubblico. Mezzo metro di altezza, Pierina parla un romanesco scolpito, vigoroso. Si ravviva la crocchia dei capelli striati di bianco: «Attacco presto domani, ahò non è che quanno so’ qua ve pijate er coccolone?». E il capo attrezzista, la nostra guida che la guarda compiaciuto, gli risponde: «A Pierì, te prego, quanno je risponni ar citofono nun te mette a ansimà, occhei?". E quella: "A regazzì, a quell’ora io nun lo faccio mai ar telefono, che m’hai capito eh?».

 

«Guarda che se c’è ‘na ventata qui cascano i chiodi». È l’ultimo richiamo di Mauro, macchinista di scena, agli intermittenti che ora sono il Valle occupato. «Ma dove s’è visto mai che in un teatro c’è il vento» risponde qualcuno sottovoce. Ma, forse, non èquesto il senso di quelle parole. Quel vento va inteso in senso più largo perché, ecco la grazia delle parole, riassume alla perfezione come la crisi abbia reso vulnerabili tutti gli indipendent contractors, contrattisti indipendenti, in altre parole i freelance che lavorano nello spettacolo, nel teatro o nel cinema, ma anche nell’editoria, nella ricerca o nei musei. Esposti ad ogni soffio di vento, come tutti i lavoratori autonomi di seconda generazione, gli intermittenti dello spettacolo non hanno diritto ad un sostegno al reddito, né a un’assicurazione sanitaria, per non parlare del diritto universale alla maternità o di quello alla pensione.

 

 

Questi sono i paria del nuovo secolo. Ma non vogliono essere chiamati «precari». Lo ripetono nelle assemblee, s’infuriano quando qualcuno, con compassione e l’aria da prete, gli spiega la verità del sindacalismo e della sua cattiva coscienza. Non perchè non lo siano, ma non vogliono apparire vittime, come li considera ancora oggi la sinistra. «Precariato» è solo una rappresentazione sociale, mentre loro desiderano sfuggire a queste e altre classificazioni che disegnano i confini di una soggettività passiva, quella degli esclusi in attesa di una ricollocazione sul mercato del lavoro, che non sarà mai un ritorno alla cittadinanza. Loro vivono, lavorano, sono autonomi.

 

L’occupazione ha ricevuto oltre 10mila firme di sostegno in un solo mese. È più di una testimonianza. Il pubblico condivide un desiderio di autonomia, di liberazione con gli occupanti. Cinquecento persone si sono alzate durante la conferenza stampa quando un’incauta giornalista ha chiesto i nomi degli occupanti. «Siamo noi che occupiamo questo teatro». Brividi. L’applauso è durato mezz’ora. Eravamo tutti in piedi, giornalisti compresi, qualcuno si è commosso.

 

Tra Sant’Eustachio e Campo de’ Fiori il gesto più ricorrente è quello dell’abbraccio. Lo vedi per strada, tra i palchi, nei bar che hanno fatto fortuna. «Sono felice di avervi incontrato» si ascolta spesso. La riscoperta di una fratellanza, di una complicità, di un affetto che sembrava sconosciuto. Accade, non è l’ideale segreto dello scrivente proiettato sulla realtà. «Prendere il tempo», ecco unaltro ritornello dell’occupazione. Tempo per scrivereun nuovo statuto per la gestione dei teatri pubblici, al centro l’idea dei “beni comuni” e della democrazia partecipativa che coinvolga il pubblico, le maestranze e gli attori. Poi la proposta di un centro per la drammaturgia unico in Italia.

 

 

Nel centro spopolato di Roma è nata la Sala della Pallacorda dove si fissano su carta atti costituenti. Emerge il canovaccio di una nuova unità tra le arti. Sembra il vecchio sogno leonardesco: unire nella stessa opera arte, scienza e filosofia. In realtà gli intermittenti immaginano una cittadinanza basata su una «pratica creativa»: tecnici, attori, cittadini si associano per ricreare un mondo in comune dove la conoscenza viene estesa dall’uso delle tecniche, i saperi manuali e quelli intellettuali servono per trovare un’espressione comune ai diritti che mancano.Questa reinvenzione delle forme, e dei diritti, è un esempio di diritto vivente applicato alle istituzioni culturali. Oggi sono gestite con le regole della cooptazione politica. Domani dovrebbero essere restituite alla trasparenza e alla democrazia.

 

Dietro la parete che divide il Valle dal Senato,il mondo, con grazia, riscopre il «noi» prima dell’«io»; l’espressione prima dell’autore; la gioia prima del risentimento; la giustizia prima dell’opportunismo. Mai si era vista prima di oggi un’estate così dolce.

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