Saggi / Saul Bellow. Troppe cose a cui pensare

3 Luglio 2018

I libri di Saul Bellow sono fiumi in piena che trascinano con sé tutto quello che trovano al loro passaggio. Rappresentando la vita come una corrente inesauribile di vicende tragicomiche, trasformano subito ogni problema, oggetto o figura in una storia. “C’era una volta…”: così i suoi parenti, ebrei russi emigrati nei sobborghi di Montreal e poi della Chicago proibizionista, rispondevano ai “perché?” del piccolo Saul. Bellow lo racconta in Troppe cose a cui pensare, una magnifica raccolta di saggi composti tra il 1951 e il 2000 e tradotti oggi da Luca Briasco per Big Sur. Impulso irresistibile a narrare, e umorismo ebraico che custodisce nel riso il mistero del mondo: ecco le radici, intrecciate fino ad apparire indistinguibili, che hanno permesso allo scrittore di dare nuova linfa al romanzo nell’età della sua decrepitezza. Le opere di Bellow, col loro concerto debordante di voci, volta a volta sorprendono, divertono, commuovono. Più difficile dire se ci convincano del tutto; come è difficile dire se sulle sorti della letteratura, specie romanzesca, possano tranquillizzarci le opinioni fiduciose che l’autore esprime in questi pezzi. Il fatto è che Bellow, non meno di noi, resta sospeso tra la fiducia istintiva e un istinto altrettanto forte a indagare la crisi denunciata dalla cultura egemone del suo secolo.

 

Averla convertita in un ingrediente dei suoi fluenti intrecci narrativi è senz’altro uno dei suoi meriti maggiori. Eppure i dubbi restano lì, pronti a minare l’edificio dell’invenzione. Queste forze opposte – spontanea fede nel racconto e inquietudine teorica – Bellow le chiama America ed Europa. “Gli osservatori europei a volte mi classificano come una sorta di curioso ibrido, né pienamente americano, né abbastanza europeo da soddisfarli, imbottito come sono di riferimenti ai filosofi, agli storici e ai poeti che ho consumato disordinatamente nella mia tana del Midwest”, scrive nel 1987. “Dal punto di vista opposto, i lettori americani a volte trovano da ridire sui miei libri perché li sentono estranei. Cito continuamente scrittori del Vecchio Mondo, mi atteggio a intellettuale…”. 

 

L’officina bellowiana è l’antro alchemico in cui si mescolano nelle più varie combinazioni fumi libreschi e avventure corpulente, idee e picari. Ma le prime servono a nutrire l’organismo dei secondi. Non a caso di Joyce Bellow celebra la vitalità famelica, mentre guarda con sospetto al suo tentativo di tramutarla in un catalogo di echi culturali. Soprattutto ha in antipatia i suoi eredi, che per denudare le menzogne suadenti della civiltà assolutizzano il Negativo e sprofondano i loro personaggi nei bidoni della spazzatura, rimuovendo quella ricchezza strana e mutevole dell’esistenza senza la quale anche le figure dell’apocalisse perdono significato. Secondo Bellow non ha senso giudicare l’epoca contemporanea come il peggiore degli inferni, perché in modi diversi e incomparabili tutte le epoche sono terribili e meravigliose, sanguinose e buffe. Malgrado gli orrori del secolo breve, crede che l’anima umana non possa essere neutralizzata da nessuna alienazione: “C’è sempre e comunque qualcosa che l’uomo può sperare di diventare”. Per il ragazzino cresciuto in luoghi e tempi in cui scrivere era qualcosa di quasi losco, il sentimento vitale è più forte di ogni ipoteca storicista. Perciò in questi saggi il suo gesto più tipico è quello di chi mira a liberarci dall’idea che esistano certificati da presentare a qualche dogana della cultura. Essendo stato sia un monello di slum sia un professore, sa che non si può stabilire a priori se la letteratura fiorisca meglio in una periferia fatiscente o nella rarefazione di un campus: il suo spirito soffia dove vuole, e ogni vocazione rimane un caso unico. 

 

 

Tuttavia, l’insistenza su questo gesto suggerisce che Bellow non sta lottando contro un incubo arbitrario ma contro un fatto ineludibile. È la società a essersi trasformata in una camicia di forza: imprigionati nella sua giungla, gli individui non vivono più in maniera piena, e vengono espropriati della facoltà di decidere sulle questioni essenziali. È raro trovare nella letteratura statunitense personaggi credibili che non siano ragazzi, dice Bellow, perché di un mondo complesso come il nostro quasi nessuno è in grado di assumersi la completa responsabilità intellettuale e morale. Siccome le “parole adulte” suonano stonate, il didascalismo trasparente e ingenuo dell’Ottocento americano s’è nascosto sotto una pelle comportamentista: è diventato quello subliminale di Hemingway, che cerca di restaurare la virtù facendola passare per la cruna di una laconicità virile eccessivamente stilizzata. 

 

Per tornare adulto, l’uomo dovrebbe essere messo nella condizione di dare un senso alla realtà che lo circonda; dovrebbe poter ritagliare una trama dal caotico flusso percettivo, ossia distanziare le “troppe cose” che lo assediano, avere attorno l’aria e il silenzio senza i quali ogni avvenimento evapora in un rumore indifferenziato che è insieme incontrollabile e insignificante. Secondo William James neppure la “mente più solida e rigorosa” sopporterebbe di conoscere tutti gli eventi accaduti in un solo giorno in una sola città (e sui social?). Nell’Ulisse basta lo spicchio che può rifrangersi nei sensi e nella psiche di pochi personaggi perché il brulichio di fatti, dettagli e ipotesi stilistiche renda impossibile raccontare una storia: le opzioni illimitate, unite al crollo dei valori condivisi che le ordinavano in una gerarchia, paralizzano la scelta e dissolvono i destini in un chiacchiericcio infestante, indecifrabile. Rispetto alla vecchia Europa, nell’infanzia di Bellow l’America concedeva ancora un lembo di selvaggio West ai letterati; ma presto anche loro sono divenuti ambasciatori culturali, perdendo la libertà di concepire forme nuove. Perché come diceva Goethe, la grandezza nasce dall’isolamento. I troppi stimoli costringono a difendersi dietro un sistema di reazioni automatiche, che atrofizzano i sentimenti e impediscono gli esperimenti rischiosi nel pensiero e nello stile. “Ognuno di noi è soffocato dalle richieste del mondo esterno, e (…) i nostri sentimenti subirebbero un tale sovraccarico, se dovessero essere coinvolti nelle rapide e complesse transazioni dalle quali è scandita anche la nostra mattinata più ordinaria, da rendere indispensabile il sistema. Il problema è che ha usurpato spazi che non gli appartengono”, annota lucidamente Bellow. 

 

L’esposizione ininterrotta alla cacofonia mediatica e sociale porta a un eccesso di astrazione, e all’incapacità di farsi largo tra i dati risalendo alle cose fondamentali. Il compito dello scrittore è allora quello di “restituire al lettore una duratura intuizione di ciò che è davvero reale e importante”, cioè di ricondurlo dalla distrazione all’attenzione. Ma per riuscirci non deve avere l’ansia di timbrare il cartellino alla macchinetta dell’ultimo must, ossia credere di poter fare il “playboy dell’esperienza”: infatti solo l’esperienza finta si può collezionare; quella autentica non è programmabile, e in ogni caso “L’immaginazione può fare con l’esperienza o con la mancanza di essa esattamente ciò che vuole”. 

Anche la parola immaginazione può essere usata in due sensi. C’è quella che nasce dalla percezione reale e che la accresce, e c’è quella che parassita e accresce le proiezioni irreali, che favorisce la fuga dal vero e la viltà, secondo una notevole intuizione hemingwayana. Per Bellow irreale è prima di tutto l’idea che i giochi siano fatti, le ali tarpate dal peso schiacciante dei secoli: cioè, in definitiva, che la letteratura sia morta e le opere originali possano essere sostituite dai bignami e dalle parafrasi. Chi recinta il terreno della tradizione, per studiarla senza il pericolo di vedersela cambiare sotto gli occhi, distrugge anche il passato e il suo studio: infatti “che cosa accadrà ad Anna Karenina o all’Iliade, se non saranno mai letti da persone che potrebbero ispirarsene per altre opere dello stesso genere? La letteratura, tutta, finirà per estinguersi”. 

 

Ma d’altra parte la storia ha la testa dura, e una tendenza profonda ostacola il rapporto diretto e genuino con il patrimonio letterario. Non solo questo patrimonio “sta diventando importante per l’uso che può esserne fatto. Si sta trasformando in una fonte di orientamenti, pose, stili di vita”, ma molte delle sue opere più emblematiche si presentano già come riflessioni su sé stesse e costruzioni ideologiche. La montagna incantata, a differenza della Piccola Dorrit, “appartiene alla Storia Intellettuale”, e “I falsari di Gide è un prodotto culturale, oltre che un romanzo; Il rosso e il nero non era nulla del genere (…) nel ventesimo secolo gli scrittori sono spesso uomini colti, oltre che creatori, e in alcuni di loro la cultura prevale sulla creatività. Tutto ciò accade per validi motivi. Questo secolo rivoluzionario ci ha imposto un immane sforzo di ‘comprensione’”. E tuttavia, ripete Bellow rivoltandosi nel suo letto novecentesco, “lo stile culturale non deve essere confuso con la vera comprensione”: la prima “ha ben pochi rappresentanti”, mentre il secondo “sembra avere migliaia di adepti”. È lo stile di chi usa la letteratura come un magazzino per imballare significati, e a cui lo stesso Joyce si è colpevolmente affidato. “La lettura in profondità (…) si è spinta oltre il limite, ed è diventata pericolosa per la letteratura stessa”. Oggi qualunque lettore “potrà dirvi che prendere la coincidenza di un pullman è un Reisemotif, quando avviene in un romanzo. Un dépliant di viaggio simboleggia la Morte. Le carbonaie rappresentano gli inferi. I cracker, l’ostia…”. 

 

Da strumento emancipatore l’interpretazione è divenuta strumento oppressivo, come ha visto Susan Sontag. Nell’epoca dei saggi bellowiani, una sterminata produzione ideologico-teorica è servita a giustificare il ruolo di un’accademia e di un’industria editoriale che hanno rapidamente trasformato la cultura moderna, in gran parte antagonista, in una scolastica paradossale. Il divario tra oggetto di studio e atteggiamento di chi studia crea così una situazione d’irrealtà. “Da un lato questi insegnanti, editor o burocrati della cultura hanno assorbito l’antipatia dei loro modelli nei confronti della civiltà moderna”, osserva Bellow. “Dall’altro lato, godono di ottima salute. Hanno soldi, prestigio, privilegi (…) Come immaginare una situazione più comoda?”. E per chi se ne preoccupa, come immaginare una situazione più imbarazzante? Poniamo che uno “insegni Etica, e che sia coinvolto nelle beghe politiche del suo dipartimento. Si comporterà in modo discutibile, e il suo cuore sarà il primo a non sopportare la contraddizione. Quel che sto tentando di dire è che certe idee non si possono tenere inattive”.  

Ecco: una cultura feconda sa stabilire il giusto rapporto tra esperienze, ambizioni culturali, credenze e teorie. Questa cultura, al contrario, da un lato pretende di abitare il Negativo come fosse un loft, dall’altro finge che le ipotesi teoriche, per natura estreme, stiano sullo stesso piano delle credenze che si dimostrano con le parole e gli atti quotidiani: come se filosofeggiare sul “post-umano” ci togliesse di colpo i nostri antichi bisogni di tane, tradizioni, affetti a misura d’uomo. Il “cretino intelligentissimo” di sciasciana memoria nasce da questo equivoco: dalla convinzione irriflessa che possa diventare campo specialistico e insieme verità oggettiva ciò che ha senso solo se confrontato con la totalità in movimento della vita. 

 

Al tentativo empio di svalutare l’io, e all’illusione di averne svelato una volta per tutte i misteri, va opposta per Bellow la certezza intuitiva del “nucleo originario della propria coscienza”. Ad esempio, malgrado tutti i teoremi sull’Assurdo, la gente continua a pensare che uccidere sia sbagliato e di solito non lo fa: non è da qui che lo scrittore dovrebbe ripartire, scavalcando un bagaglio iconoclasta svilito a poncif? Forse “L’immaginazione sta cercando modi nuovi per esprimere la virtù”. Ma in questa ricerca lo scrittore non deve né cedere ai ricatti degli scolastici, né al sogno vano che possa rimaterializzarsi il vecchio pubblico highbrow. Deve invece “credere che le sue opere possano evocare un pubblico dal nulla”. Però quando Bellow parla dell’opera d’arte come di un oggetto che spiazza con la sua alterità, non enuncia anche lui un’idea proveniente da quella stessa cultura moderna? Alle sue impalcature non si può dunque rinunciare così facilmente, perché sono radicate in un vasto disagio esistenziale e sociale. E infatti il Bellow romanziere, orchestrando le contraddizioni, ci mette davanti a una realtà che è insieme primitiva e ipercolta, rocambolesca e zeppa di elucubrazioni, roridamente fisica e avidamente idealistica. Ma un aneddoto sulle Avventure di Augie March spiega in modo più proustianamente convincente di qualunque argomentazione come accade di recuperare il senso di una profonda unità vitale dentro la disgregazione del “mondo amministrato”.

 

Nella Parigi del dopoguerra, Bellow trascina la stesura di un romanzo a tema ospedaliero. Sente che deve sfuggire alla sacrificata “correttezza” dei primi libri, in cui ha voluto mostrare le proprie credenziali all’intellighenzia, ma non sa come farlo, e stagna in una depressione informe. Un mattino però, mentre cammina tra gli idranti dei netturbini, un riflesso di sole nell’acqua dei canali di scolo spazza via il grigiore afoso del suo ospedale letterario riportandogli davanti agli occhi la sagoma guascona di un amico d’infanzia: ed ecco che di colpo la fantasia torna a scorrere nella sua abbondanza instabile, sghemba, senza ingorghi. Augie cresce in un albergo di Rue des Saints-Pères accanto a un vecchio condomino italiano esile e arruffato, un Socrate social-libertario che potrebbe definirsi il rovescio pauperista ante litteram dell’edonista Ravelstein, e che vive in una generosa dilapidazione di sé. Come Bellow, anche lui ha alle spalle una vicenda russa. Si chiama Andrea Caffi. È stato il maestro di quel Nicola Chiaromonte che in Italia, in Francia e negli Usa ha riflettuto a lungo sulle sorti del romanzo in un tempo in cui l’individuo non crede più di poter cambiare la società, e ogni trama rischia di ridursi a una serie di “casi” insensati. Augie e i suoi romanzeschi fratelli mostrano come un talento esuberante potesse ridare slancio al genere malgrado tutto. Eppure nemmeno le loro storie vanno esenti da un sospetto di gratuità: il talento bellowiano fa quello che vuole proprio perché fatica ad attingere la necessità di chi fa solo ciò che può, obbligato dal demone di un destino comune. Ma un qualche destino enigmatico e fecondo era senz’altro in agguato, nell’albergo dove due universi così distanti si sono incontrati in quel modo insieme necessario e gratuito che solo il fiume della vita sa inventare, mescolando tutto ciò che trova al suo passaggio. 

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