Adrien Bosc e il cronotopo aereo
Un aereo è un cronotopo. Un aereo è un palinsesto di storie, un catalizzatore di vite e un moltiplicatore di esperienze. Un aereo è anche un’eterotopia, uno spazio chiuso, un microcosmo con regole proprie – regole che spesso i passeggeri ignorano – e che per un tempo determinato attraversa lo spazio. E lo fa staccandosi da terra, elevandosi nel cielo e proiettando le diverse schegge di umanità che trasporta nella volta scura dell’universo. Ogni passeggero come un astro che risplende della luce riflessa che solo uno sguardo, rialzato o retrospettivo, può riuscire a intercettare. Una luce in grado di connettere le diverse intensità luminose nell’articolata trama di una costellazione che risulterà tanto più visibile quanto maggiore sarà la sua coincidenza con una scelta del destino. La notte tra il 26 e il 27 ottobre 1949 il Lockheed Constellation F-BAZN programmato per la tratta Parigi-NewYork si schianta sulla cima del monte Algarvia, nell’isola di São Miguel, nell’arcipelago delle Azzorre, a 75 kilometri da Santa Maria, dove avrebbe dovuto fare una sosta per il rifornimento. Muoiono tutte le 48 persone a bordo, 11 membri dell’equipaggio e 37 passeggeri. Tra questi, la grande violinista francese Ginette Neveu e il celebre pugile franco-marocchino Marcel Cerdan.
Nel 1949 l’aereo è un mezzo di trasporto di lusso, un concentrato di potenza e tecnologia che sfida le distanze e l’oceano a colpi di reattori e record abbattuti. L’aereo è una velocità impensabile messa a disposizione di chi può pagarsi un privilegio. E, infatti, i passeggeri di quel volo sono, salvo poche eccezioni, tutti esponenti di una nuova borghesia mercantile occidentale. Sono traiettorie sostanzialmente simili quelle che si incrociano tragicamente a bordo del Constellation: persone di successo, uomini d’affari, “gente di fretta”, che non può permettersi di aspettare tutto il tempo di una traversata via mare. Nonostante tutto, però, e per quanto l’aeronautica civile sia un’industria ancora agli albori, il volo F-BAZN è fondamentalmente un volo come tanti altri. C’è solo una cosa a renderlo diverso, una presenza, Marcel Cerdan, «le bombardier marocain», il pugile che torna a New York per sconfiggere Jake LaMotta e riprendersi il titolo di campione del mondo: Marcel Cerdan, l’amante di Edith Piaf. È sua la luce che illumina la scia del Constellation e che permette a tutte le altre 47 persone di brillare nel cielo delle Azzorre. È sua la luce che ha portato Adrien Bosc, giovane scrittore avignonese, a mettersi sulle tracce di quel volo maledetto, che perde improvvisamente i contatti radio con la terraferma e ricompare, la mattina seguente, in mille pezzi alle falde del monte Algarvia. La luce della tragica parabola del campione marocchino trasforma il fait divers in vicenda microstorica che trascina con sé anche le biografie individuali di quelle che fino a oggi erano rimaste le comparse di una tragedia a senso unico. Al romanziere, quindi, il compito di guidare questa storia fuori dalle tenebre attraverso delle semplici «combinazioni di parole», come recita l’epigrafe tabucchiana che apre il racconto e gli conferisce un tono evocativo che Bosc è abile a mantenere fino alla fine. Perché, infatti, se fin da subito il lettore conosce la sorte dell’aereo, il narratore cerca di tenerlo avvinto alla pagina insinuando il sospetto che esista un senso ulteriore, e che questa vicenda non si risolva tutta nello schianto che azzera 48 vite. È un azzardo quello di Bosc, la promessa che dal semplice assemblaggio dei 48 tasselli affiorerà fatalmente un tableau chiaro e comprensibile.
Il risultato di questo Prendere il volo (traduzione non felicissima dell’originale Constellation) è un romanzo corale dove la vicenda di Kay Kamen, l’inventore del merchandising della Disney, si scrive accanto a quella di Guy Jasmin, redattore capo del «Canada», ma anche a quella di Edith e Philip Newton, vittime del diritto di priorità riconosciuto al campione Cerdan, impaziente di raggiungere Piaf a New York. Le vite sono fili intrecciati in una complessa trama che le Chere improvvisamente interrompono. C’è un fato da rispettare, d’altra parte, e Arista il chiromante l’aveva previsto: «Eviti di mettersi in volo, in particolare di venerdì». Cerdan però non crede a queste cose, e soprattutto non può aspettare per raggiungere la sua Edith, che l’ha supplicato: «Prendi l’aereo, la nave impiega troppo». Edith, che pure sapeva come l’aereo leghi indissolubilmente i destini delle persone («Eppure lei aveva la fobia degli aerei, e agli amici che, per rassicurarla, le dicevano che la sua ora non era ancora venuta, rispondeva con una battuta: “E se fosse arrivata quella del pilota?”»). Edith, che avrebbe fatto chilometri per vedere il bel marocchino e che obbliga Marcel a prendere un aereo che lo condurrà incontro a un destino che gli altri 47 a bordo del F-BAZN non possono far altro che condividere.
C’è solo un modo allora per restituire una postuma democrazia a questo tragico cronotopo aereo, e passa attraverso la narrazione. Il narratore, infatti, veste i panni dell’archeologo e, guidato da una serie di coincidenze sempre più sorprendenti nella loro puntualità, riporta a galla la fitta trama di vite ed esperienze che anima il Constellation. È così che, dichiarando in maniera sempre più esplicita l’input della propria ricerca («Mi sono interessato di un caso in cui la realtà supera la finzione») e svelandone progressivamente gli strumenti, la controfigura dell’autore affiora piano piano dall’ombra: solo apparentemente timido, l’autore demiurgo, che ha studiato alla scuola dei Cercas e dei Carrère, conquista gradualmente la prima scena, spinto dalla forza di una prima persona che finisce per imporsi come unico protagonista del libro. E all’autore, in quanto protagonista, spetta il compito di restituire alla vicenda quel “senso ulteriore” vagheggiato in apertura. Bosc si affida alla tradizione avanguardistica, agli «hasards objectifs» di Bréton, calca l’accento sulle intersezioni fortuite, su coincidenze che appaiono eccezionali, ma solo perché uno sguardo retrospettivo accorto è giunto a osservarle sotto una nuova luce. Una luce che, a ben vedere, sembra originata da un’impressionistica fascinazione, da un desiderio di visione più che da un’effettiva capacità di vedere. Il romanzo si perde così in una rassegna aneddotica che finisce per avvoltolarsi sterilmente intorno a un’unica, insolubile domanda, quella relativa alla morte e ai suoi percorsi oscuri. Convocare sulla scena i nomi evocativi di Saint-Exupéry o di Blaise Cendrars, confondere gli intrecci del passato con quelli consentiti da una ricerca via web – tra Youtube, archivi online e imprevedibili rimandi – al solo scopo di udire «la risonanza intima di questi uomini e di queste donne che hanno vissuto e amato» finisce per consumarsi in un inutile gesto estetico, buono solo per celebrare il potere di chi narra, il potere “divino” di chi sa riportare a un ordine le schegge impazzite di una vicenda eccezionale. Il risultato è un quadro che, da vicino, colpisce per l’inatteso splendore armonico dei colori ma che, alla distanza, mostra contorni labili, figure incerte, movimenti indecisi, e un solo riconoscibile segno, in basso a destra: la firma dell’autore.