Putin e l’animo russo. Intervista con Gian Piero Piretto
La casa è piena di libri, ma sono soprattutto gli oggetti – cartoline, souvenir, ritratti, statuine, gadget –, le “cose” sugli scaffali e i ripiani, oltre ai quadri alle pareti, ad attirare l’attenzione. Si tratta in gran parte di oggetti d’origine russa, paese di cui Gian Piero Piretto è studioso. Piretto non è uno storico e neppure un letterato in senso stretto. Si occupa di cultura visiva, una materia o disciplina, che in Italia ha una storia piuttosto recente.
Nel corso degli anni ha scritto molti libri, tutti originali e inconsueti. Il radioso avvenire. Mitologie culturali sovietiche, uscito nel 2001 presso Einaudi, parte dal 1917, dalle utopie d’Ottobre, e arriva agli anni Ottanta del XX secolo, passando per gli anni staliniani, spiega con immagini e riferimenti alla vita quotidiana dei russi la celebre frase di Stalin: “Vivere è diventato più bello, compagni, vivere è diventato più allegro” (1935), insomma racconta la storia visiva dell’Urss e dei suoi miti. Gli ultimi due apparsi si intitolano: Gli occhi di Stalin e La vita privata degli oggetti sovietici, pubblicato da Sironi editore.
Efanov, I migliori rappresentanti del paese dei Soviet, 1939
Per far capire di cosa si occupa questo studioso, basta elencare alcuni temi affrontati in questi due libri: le icone popolari sovietiche, la storia di un celebre manifesto sovietico dalla Seconda guerra mondiale sino alla fine dell’Urss e oltre, le fotografie di Stalin usate dalla propaganda; e ci sono capitoli sulla cultura del corpo nella Russia comunista e sulla coppia Madre Volga e Padre Stalin.
Come un detective Piretto esamina i dettagli della vita sotto il tallone del Piccolo Padre e ne ricava una visione straordinaria dei meccanismi che hanno funzionato nel regime sovietico. Sono piccoli quadri che insieme formano un grande affresco, per descrivere la mentalità, le consuetudini, per fare la storia del costume e soprattutto la storia dei meccanismi di consenso, che non furono solo quelli del terrore, dei Gulag, ma si fondarono su una adesione vera al regime. Abbatte luoghi comuni e pone nuove domande anche sul presente.
La vita privata degli oggetti, poi, è un’opera singolare e unica perché ricostruisce la vita dei sovietici, e prima dei russi, attraverso le reticelle della spesa, il distributore automatico di acqua gasata, il bicchiere a faccette, il dolce pasquale, e altre “cose” ancora. Le stesse – non tutte ovviamente – che ci sono in questa casa milanese dove Piretto, che insegna all’Università Statale, le ha accumulate con pazienza, cura e dedizione. Sono venuto da lui per farmi spiegare alcune cose che gli ho ascoltato dire in un dialogo pubblico a Mantova, al Festival della Letteratura. Lo scopo è capire la Russia attuale, il suo leader, l’enigmatico Vladimir Putin, che ha compiuto 62 anni pochi giorni fa, e spiegarlo anche in paragone ai suoi predecessori.
Cosa succede oggi in Russia?
Dopo una prima gestione del potere fondata sull’economia, adesso Putin si appoggia alla cultura, alla religione. Si è ricavato il ruolo di moralizzatore dei costumi e di creatore dello spirito, investe sulla cultura in modo deciso. La percezione che l’Occidente ha di quello che succede in Russia è più tragica di quello che percepiscono i russi. Le Pussy Riot sono diventate in tutto il mondo delle eroine-vittime, in Russia, invece, sono ignorate dalla stragrande maggioranza della popolazione, e la maggior parte di chi le conosce le disprezza; sono sostenute soltanto da un piccolo gruppo, che non corrisponde nemmeno più a quello che erano stati gli intellettuali. Putin li definisce: “i creativi” filooccidentali. Molti russi sono ancora convinti di vivere nel paese più libero, più ricco e più felice del mondo, perché rispetto alla realtà sovietica oggi si sentono benestanti. Ci sono i negozi colmi di beni di consumo. È vero che nel passato recente ci sono stati gli anziani, gli umiliati e gli offesi dal crollo dell’URSS, strati della popolazione che facevano fatica a sopravvivere, ma adesso giovani e adulti godono del fatto che esistano supermercati ben riforniti, caffè, ristoranti, tutto quello che era mancato nel passato socialista. Si può andare al cinema a vedere qualsiasi film o ascoltare musica straniera, Internet non è ancora stato chiuso.
Efanov, Incontro indimenticabile.jpg
Due rockettari d’eccellenza, Andrej Makarevič e Boris Grebenščikov, leader dei gruppi rock più significativi degli anni Ottanta sovietici, che hanno preso posizione contro Putin, solo tre anni fa sostenevano: viviamo in un paese libero, democratico e ne siamo felici. Oggi loro protestano, ma la grandissima maggioranza della popolazione percepisce la situazione attuale come libertà ancora assoluta. Se Putin proibisce demagogicamente l’uso del turpiloquio negli spettacoli teatrali o in letteratura, come è accaduto di recente, a questa maggioranza la decisione fa soltanto piacere. Del resto, per fare un paragone, durante il periodo berlusconiano, amici stranieri mi chiedevano: Ma come fate a vivere in Italia con quello che succede? La realtà vissuta in loco e quella percepita a distanza sono sempre dissonanti.
Chi è Vladimir Putin?
Uno dei prodotti dell’Urss, un esempio di quei personaggi del regime sovietico che hanno saputo riciclarsi e fare fortuna nei primi anni Novanta. Allora, sul fronte imprenditoriale, c’erano i “nuovi russi”, i “nuovi ricchi”, che attraverso connivenze mafiose, con il racket, e non ultima con la mafia italiana, hanno sfondato, impostando tutto sul lusso e sull’ostentazione delle ricchezze materiali acquisite. Nei secondi anni Novanta, dopo il primo quinquennio di spaesamento, di crollo di ogni certezza, c’è stata l’ascesa di queste figure, che hanno saputo sfruttare abilmente il passato sovietico. Hanno avuto l’intelligenza e l’astuzia di capire che certe industrie o imprese, che erano state abbandonate, potevano con poca fatica essere recuperate e trasformate in qualcosa di altamente produttivo. Anche per questo furono disprezzati dalla vecchia intellighenzia, da coloro che si autocommiseravano, secondo il classico atteggiamento comportamentale e mentale dei russi: la volpe e l’uva.
Li disprezzavano perché non avevano ottenuto gli stessi risultati e pretendevano di non apprezzare le loro conquiste, anzi di disdegnarle. Dicevano: Ecco cosa ha prodotto il crollo dell’Urss! Ma non capivano che questi “nuovi russi” erano stati capaci, seppure in maniera assai discutibile, di sfruttare operativamente i rottami dell’Urss. Lo dico da studioso di fenomeni culturali, non da politologo. Senza stare a piangere su quelle rovine, i nuovi ricchi hanno tirato fuori qualcosa di nuovo. Giusto o sbagliato che sia stato, è accaduto questo: hanno agito. Gesto assai scarsamente verificato nella storia della mentalità del paese, al punto da essere condannabile ed esecrabile. Putin in ambito politico ha percorso una strada simile. Si è avvalso della preparazione sovietica, degli strumenti acquisiti nel Kgb, e del fatto che conosce molto bene i nervi scoperti del Paese, del popolo, come prima di lui avevano fatto Lenin e Stalin, meno Chruščëv o Gorbačëv, che hanno invece contrastato, deliberatamente provocato l’atteggiamento di fondo della cultura russa.
Riguardo a Putin si parla del corpo politico del leader, come ha funzionato?
Una costruzione sapiente e raffinata. Ha capito la situazione del paese, mentre l’intellighenzia si autocommiserava, lui ha costruito il suo impero un poco alla volta, investendo nel primo mandato sul fronte finanziario e sui possibili rapporti con l’Europa, scambi commerciali e tutto il resto. Ora, visto che la crescita del paese non è più potente com’era stata all’inizio, ha deciso di intervenire sul fronte “cultura e spirito”.
Krivonogov, Realizziamo il pianio quinquennale in quattro anni, 1948
Cosa fa esattamente con la cultura?
Recentemente ha dato il mandato al Ministro della Cultura, Vladimir Medinskij, di ricostruire e ridefinire i rapporti tra Russia e il resto del mondo. Per capire cosa significa bisogna fare un passo indietro, all’Ottocento. In Russia c’erano gli slavofili e gli occidentalisti. I primi sostenevano l’“immobilismo asiatico” della Russia, la difesa a oltranza delle tradizione, la consuetudine al sopruso e l’accettazione del potere come “affettuosa sottomissione al caro dolce Padre” che gestiva il potere, fosse il Pope, lo Zar o lo stesso Stalin. I secondi condannavano tutto questo e promuovevano un atteggiamento razionale, legalitario, la necessità di una identità civile e nazionale. Gli occidentalisti venivano accusati di essere dei “mercantilisti”, oggi si direbbe dei “capitalisti”. Ecco, la situazione, macroscopicamente, si ripropone oggi.
La stessa?
No, non la stessa, ma con le stesse ben visibili categorie. Il problema dei russi è sempre stato: come ci rapportiamo con l’Occidente. Nella loro storia è sempre stata presente una componente di complesso d’inferiorità: noi siamo arretrati rispetto al resto del mondo. Per tornare indietro nel tempo pensa a Pietro il Grande, che a fine del Seicento aveva detto: è necessario modernizzare la Russia. Aveva viaggiato poco tutto sommato, era stato in Olanda, e il suo modello primario era quello. Aveva fatto tagliare la barba ai nobili perché si adeguassero a un modello meno arcaico, e imposto l’istruzione ai giovani nobili perché si europeizzassero. Questo è stato uno dei primi blitz della storia russa. La Russia è cresciuta con improvvise accelerazioni e cancellazioni; sistematicamente ha conosciuto figure autorevoli e autoritarie che hanno detto: quanto è successo finora, non va più bene. Pietro dice: siamo arretrati dobbiamo europeizzarci.
Seguono proteste, opposizioni, ma la mano forte del padre, lo Zar, il cui potere deriva da Dio, vince e impone il cambiamento. Poi, nel 1861 arriva la liberazione della servitù della gleba. Un sistema feudale durato sino alla seconda metà dell’Ottocento scompare. Nessuno meglio di Čechov l’ha raccontato. La classe dei proprietari terrieri, la borghesia russa, crolla, agonizza, perché incapace di gestirsi nella nuova situazione, disabituata sia al lavoro che alla razionale conduzione dell’impresa. Lo spirito di immobilismo e apatia che domina il romanzo del 1859 Oblomov di Ivan Gončarov docet. Si cambia di nuovo. La Russia non è più un paese feudale, i servi della gleba non esistono più. Ma solo sulla carta, perché i servi stessi non avevano capito: prima non avevano coscienza della loro situazione di schiavitù; quando gli è stato detto, non siete più servi, si sono chiesti cosa volesse dire. Nel Giardino dei ciliegi il servo Firs dice: Ai tempi della sciagura, ovvero alla fine della servitù, io sono rimasto coi miei padroni. L’ordine era quello e qualcuno ha cercato di sovvertirlo.
E la Rivoluzione d’Ottobre, che ruolo ha avuto in questa Russia?
Un nuovo radicale ribaltamento della situazione. Ulteriore blitz. Nei settanta anni di potere sovietico certo non è stato tutto rose e fiori. Stalin, per primo, ha sconvolto i principi bolscevichi, poi Chruščëv ha denunciato Stalin e qualche decennio dopo Gorbačëv ha attaccato il comunismo in generale.
Kugach, Gloria al grande Stalin! 1950
In che modo ha agito Stalin?
Rimettendo in campo principi economici e culturali che la Rivoluzione prima, e il bolscevismo poi, aveva scardinato. Creando dei privilegi, una classe elitaria, il lusso, la gerarchia. Basta leggere Michail Bachtin e il suo studio sul corpo grottesco e il carnevale, che mette in discussione proprio questo. Il suo Rabelais non poté essere pubblicato sino all’epoca di Chruščëv. Bachtin fu inizialmente un entusiasta rivoluzionario, secondo i principi che riconosce in Gargantua e Pantagruel: la rivoluzione avrebbe sovvertito l’ordine borghese delle regole, dei privilegi e delle gerarchie.
Stalin li rimise in auge tutti e deluse profondamente lo studioso. Inventò una serie di categorie di eccellenza come lo stacanovismo, l’eroismo del lavoro, i lavoratori d’assalto e relativi premi, privilegi, vantaggi che avevano come tragica contropartita quella di potersi trasformare senza necessità di motivazioni precise, in colpe e abuso di potere, e condurre fino all’epurazione ed eliminazione fisica. Si trattava di una retorica che funzionava su un reciproco inganno, non dichiarato come tale, ma riscattato in nome dell’idealità e dell’investimento in essa.
Bastava dichiarare di essere un lavoratore d’assalto, e si godeva di privilegi, come negozi riservati, persino automobili private. La propaganda si fondava su queste finzioni e le riproduceva nella gente. Noi oggi parliamo di “neocapitalismo staliniano”, e di questo si trattò: bei vestiti per le donne, profumi, industria cosmetica, cibo. Il riscontro reale fu per pochi, solo per l’élite. Questa élite abitava in appartamenti splendidi, si nutriva con eccellenza, e la donna non era più un fantoccio mascolino come negli anni Venti, si profumava e si vestiva con eleganza. Per gli altri restava un procedimento virtuale di immedesimazione e coinvolgimento emotivo e ideologico.
Come stava insieme tutto questo con le purghe staliniane con i Gulag?
Si tratta di un’altra forma di spettacolarizzazione della bontà del regime. Le purghe non erano nascoste; si sceglievano a tavolino i casi che dovevano essere retoricamente trasformati in un segnale di positività da parte della gestione politica, quindi sui giornali si scriveva: Ieri sono stati eliminati altri cento o duecento nemici del popolo.
Questo per noi, che non siamo russi, è difficile da capire, a maggior ragione se a essere coinvolti nelle epurazioni erano amici o parenti. Si costituiva un piccolo “regno del male” in universo meraviglioso. Lo stalinismo era come un grande parco a tema dove non esiste più il brutto. Kundera ha scritto nell’Insostenibile leggerezza dell’essere: il Kitsch totalitario è quando si rimuove la merda dalla vita. Nell’Urss staliniana la merda era quel piccolo regno del male dove venivano isolati ed eliminati i nemici del popolo.
Pimenov, Contro la religione, pianno quinquennale in quattro anni!, 1930
Ma se il nemico del popolo era il padre, il marito, il figlio, il compagno di lavoro, come si faceva a non dubitarne?
La costruzione di questo discorso culturale, soprattutto visivo, era tale che diventava convincente. Cito sempre a questo proposito Olga Berggol’c, poetessa, musa dell’assedio di Leningrado, colei che attraverso Radio Leningrado ha tenuto in piedi il morale dei cittadini durante l’assedio. In un suo diario segreto, tanto segreto che neppure il marito sapeva che esistesse, lo conservava sepolto nel cortile della casa in cui abitava, aveva scritto che quando era stata imprigionata come “nemica del popolo”, e aveva visto in prigione di quale luce fosse circondato il nome di Stalin, non si era permessa di dire a quella gente che lei era arrivata a dubitare che Stalin “sapesse tutto”. Una raffinatissima intellettuale era arrivata nel segreto della propria anima a pensare che Stalin potesse essere responsabile delle tragedie del paese, ma, per rispetto e non solo per paura, non ne aveva fatto parola ai suoi concittadini.
Come poteva funzionare questa seduzione di massa? Attraverso le immagini?
Il cinema, la musica, l’arte, l’architettura… poi tieni conto che si viveva nelle case in coabitazione o addirittura nelle baracche, case di legno costruite per stare in piedi qualche mese, durante i cantieri edili, poi trasformate in abitazioni permanenti. La realtà era pesante ma poi si andava al cinema e si vedevano nei musical staliniani splendidi appartamenti, storie entusiasmanti e coinvolgenti… la rappresentazione del “radioso avvenire” era costante.
G. Aleksandrov, Il circo, 1936 in russo senza sottotitoli.
I. Pyr’ev, La porcara e il pastore, 1941, con sottotitoli in inglese.
C’era solo un salto temporale con cui fare i conti. Come aveva sostenuto Ždanov: il presente è troppo grigio per essere rappresentato così come è. L’arte, la musica, la letteratura, devono rappresentare il futuro come sarà quando, grazie agli investimenti e realizzazioni dell’ideologia, si realizzerà quell’avvenire.
Il potere dell’immaginario, come nei film di Hollywood, dove si presentava un mondo a cui tutti, anche gli immigrati dell’Europa o i neri, potevano aspirare…
Così. O come nel cinema dei telefoni bianchi dell’epoca fascista italiana. Il potere dell’immaginario è immenso. Era tutto così ben costruito, con attenzione e addirittura sofisticazione. E poi in Russia sotto Stalin si investì moltissimo nell’empatia, nel coinvolgimento emotivo.
Da dove nasce questa empatia?
Dall’idolatria per la figura del capo, quello che Chruščëv avrebbe stigmatizzato come culto della personalità. Stalin dio o semidio, immagine costruita sapientemente, e tutta investita sul simulacro. A differenza di Hitler o di Mussolini, Stalin non scendeva in mezzo alla gente, non si faceva toccare dalle folle, non si lasciava guardare. Era lui che osservava gli altri sfilare per il suo piacere sulla Piazza Rossa in quelle forme straordinariamente armoniche, esteticamente perfette di corpi seriali, che costituivano il corpo politico del paese.
Un esempio tra i molti, la parata ginnica del 1939, sperimentalmente girata a colori
Dal canto suo si faceva rappresentare dalle statue. Era dovunque in forma di monumento o gigantografia e quindi la presenzialità era garantita, e la sua immagine, che fosse una statua, una fotografia o un ritratto, aveva al contempo la doppia valenza: io sono qui con voi a dividere l’emozione in questione ma nello stesso tempo vi tengo d’occhio.
Ci sono molti quadri del realismo socialista che rappresentano feste popolari dove immancabilmente incombe il ritratto di Stalin appeso. Ed è una specie di monito: voi fate tutto ciò che dovete secondo la circostanza ed io vi vedo. Il compagno Stalin è con voi, e voi godete non per le vostre soddisfazioni personali, ma perché condividete le sue. Nel dopoguerra fu pubblicato un manifesto in cui si vede Stalin che dà la mano a un lavoratore e lo slogan è: Lavora in modo tale che il compagno Stalin ti dica grazie. Quindi si lavorava per fare contento Lui.
Nel contempo si organizzavano i ricevimenti premio al Cremlino per l’élite del suo sistema e esservi ammessi era una grande ricompensa. Il genere pittorico che ne derivò fu: Ha visto Stalin! Si rappresentavano persone che lo avevano incontrato, che avevano addosso l’aura di quella visione. Pensa a Barthes nella Camera chiara che, davanti a una fotografia del fratello di Napoleone fa questa riflessione: questi sono gli occhi che hanno visto l’Imperatore. A me viene in mente Cuore di De Amicis con il padre del ragazzo che dà la mano al Re, e poi la passa al figlio ancora calda: Questa è la carezza del Re. Non è successo solo in Urss.
Viene in mente la frase di Giovanni XXIII: Date una carezza ai bambini e dite questa è la carezza del Papa. A Mantova hai detto una cosa molto interessante: Stalin è andato contro l’anima russa. Me lo vuoi spiegare? Credo che questo abbia a che fare con l’attuale politica di Putin.
Stalin va contro i principi bolscevichi. In realtà già nella NEP degli anni Venti Lenin aveva messo in discussione i principi di sobrietà, distacco dal possesso. Era stato criticato, ma si doveva salvare la situazione economica, e quindi i dogmi del comunismo erano stati messi tra parentesi. Morto Lenin la NEP era stata dichiarata chiusa. Stalin ha raccolto gli esiti di quella nuova forma di borghesia, e li ha istituzionalizzati. Non era più fuorilegge avere una casa bella, comoda, ben arredata; non era più fuori legge il cattivo gusto dei soprammobili. Il samovar, che rappresentava la borghesia, o le romanze tzigane, venivano rimessi in auge. Venivano stabiliti premi e incentivi per i migliori lavoratori del paese. Tutto questo significava andare contro la purezza del bolscevismo, dei costruttivisti che avevano inneggiato alla sobrietà, all’essenzialità, investendo nell’utopia dell’eguaglianza.
E il rapporto di Stalin con l’anima tradizionale russa?
L’animo russo, uso questa espressione, lo chiamo così perché parlare di “anima russa”, come si faceva nell’Ottocento, non mi pare corretto; spirito russo, animo russo o mentalità russa. Questa mentalità era atavicamente legata al sacrificio, alla sofferenza, alla malinconia, alla tristezza. Pensa ai canti popolari russi. Il canto, ai tempi della servitù della gleba, era l’unico diritto che il contadino russo riconosceva a se stesso; i canti di lavoro, i canti popolari, non sono canti di protesta, ma l’esaltazione della propria sofferenza attraverso la melodia. Non si maledice il padrone, lo zar o altro. Si esalta casomai con il canto il proprio rapporto privilegiato con la Natura e con la sofferenza (Il canto noto come I Battellieri del Volga ne costituisce un esempio eloquente).
Il fatto che in russo ci siano due termini per indicare la parola “libertà”, è significativo; uno è volja, la libertà dello spirito anche se il corpo è prigioniero e schiavo; l’altro è svoboda, la libertà politica. Si dice che l’uomo russo antico, il servo della gleba, si sentisse libero comunque grazie a questo rapporto. In Andrej Rublëv di Tarkovskij si trovano splendide tracce di tutto questo. Quindi la sofferenza, il sacrificio, l’accettazione del sopruso, l’affettuosa sottomissione al potere, erano categorie irrinunciabili per l’animo russo. La Rivoluzione d’Ottobre le sovverte, invita alla rivolta, alla protesta. Stalin poi proclama addirittura l’ottimismo di Stato: la gioia di vivere imposta dall’alto. Stalin priva il popolo russo della categoria del sacrificio e della sofferenza. I canti popolari vengono banditi. Sono canti malinconici, strazianti, dove si parla dei sonagli della slitta, della tormenta di neve che cancella le tracce, dove protagonista è il dialogo sofferto tra il passeggero e il postiglione; (Steppa e ancora steppa tutto intorno, canto popolare russo, interpretato da Lidja Ruslanova)
tutto questo viene cancellato e sostituito dalle canzoni di massa, allegre: le marce ottimistiche, positive, assertive, che cantano la nuova situazione.
Vasta è la terra mia natia, colonna sonora del film Il circo, 1938
E il rapporto con la Natura come si trasforma?
Si cancella la categoria del sublime, che suscitava nell’uomo russo il timor panico. La Natura viene soggiogata dall’uomo staliniano. C’è una canzone del 1937, una delle tante canzoni di massa degli anni Trenta, dedicata a Stalin, che lo definisce un semplice uomo sovietico ma che ha saputo “spostare le montagne e invertire il corso dei fiumi” (Un semplice uomo sovietico). Quella Natura che era responsabile del fatto che l’uomo russo si sentisse libero, anche se era schiavo, sotto Stalin è asservita all’uomo. I vari interventi sul Volga, tutti i canali artificiali scavati, le stazioni idroelettriche ribadiscono questo cambiamento. Si dice ai russi: non dovete più incantarvi davanti alla potenza smisurata della Natura russa, perché noi siamo più potenti di lei, che è al nostro servizio.
Nei tuoi saggi parli della “malinconia russa”, da quello che dici è parte fondamentale dell’animo russo. In cosa consiste la malinconia per i russi?
La malinconia viene dal rapporto con lo spazio, con il paesaggio, con l’immensità dello spazio russo. Ci sono una serie di termini intraducibili in lingue diverse dal russo. Per esempio, “paesaggio” in russo si dice pejzaž o landšaft, un calco dal francese e un calco dal tedesco. Il vero termine russo, slavo, per indicare l’immensità di quel paesaggio è prostor. Per tradurlo ci vuole una parafrasi: è il territorio infinito, di cui non si vede la fine, l’orizzonte mancante, la piattezza infinita. In Anime morte di Gogol’, Čičikov, viaggiando in trojka, rivolge delle domande alla Russia: Sei così piatta, sei così uniforme, che cosa attira in te? E la risposta che si evince è:
L’energia nascosta sotto la steppa, che soltanto chi è russo e chi ha vissuto quel rapporto fisico con il suolo, comprende. La terra russa è stata suolo prima di essere nazione. Il piede del pellegrino, del vagabondo, dell’evaso dalla Siberia, percorreva a oltranza la terra russa, e faceva trasparire dalla steppa questa energia segreta. Chi non è russo, scrive Gogol’, non può capirne la grandiosità e la bellezza. Tuttavia questa stessa grandiosità suscita agorafobia, timor panico. L’uomo russo prova delle sensazioni particolari: toska, chandra. Sono i termini russi, che indicano un misto di malinconia, nostalgia, angoscia, e che spingono l’uomo a rinchiudersi nello spazio ristretto dell’isba dove vivevano accatastati.
Nonostante avessero a disposizione spazi immensi, i villaggi erano tutti concentrati in un territorio ridottissimo; le isbe erano una addossata all’altra e dentro le isbe, pur avendo a disposizione boschi immensi per costruirne delle altre, vivevano in spazi minuscoli, accatastati l’uno sull’altro, finché nasceva dentro di loro il desiderio del salto nel vuoto. In russo questo desiderio si dice: Bystraja Ezda, che sarebbe letteralmente “la cavalcata veloce nello spazio”, lanciarsi nello spazio trainati da una trojka di cavalli. E di nuovo il desiderio e l’entusiasmo di andare a cercare quel confine che non c’è. Si tratta di un’alternanza continua di agorafobia e claustrofobia.
Primo Levi nella Tregua parla dell’alternarsi continuo di entusiasmo e depressione dei russi con cui entra in contatto…
Sono sbalzi d’umore ricorrenti: dall’euforia all’angoscia più devastante. I canti popolari, per tornare a quanto dicevo prima, erano l’unico diritto per narrare la propria sofferenza. Nei canti popolari durante questi trasferimenti nello spazio non si sapeva mai da dove si partiva e dove si arrivava. Quello che contava era il percorso. Si racconta alla tormenta, al vento, al postiglione, l’ingiustizia che si è provata, ma non si cerca di porre riparo a questa stessa ingiustizia. Al massimo la canzone dice: Maledicendo il destino. L’evaso dalla Siberia che attraversa il Lago Bajkal, arriva a casa e trova la propria madre. Le chiede: Cosa ne è di mio padre e di mio fratello? Lei risponde: Tuo padre è da tempo nell’umida terra, tuo fratello fa risuonare le catene nella lontana Siberia. E cosa fa l’evaso-viandante? Riprende a vagabondare attraverso le selvagge steppe del Transbajkal con la bisaccia in spalla maledicendo il destino (Per le selvagge steppe del Transbajkal, canzone popolare russa, interpretata da Lidja Ruslanova). Non cerca soluzione, non interviene. Il ritmo di queste canzoni le fa definire protjažnye, cioè “strascicate”, riprendendo l’andamento del paesaggio.
Siamo abituati in Europa a considerare la malinconia come un sentimento legato al tempo, non allo spazio. Come stanno insieme tempo e spazio nell’animo russo?
Per spiegarlo bisogna riferirsi ancora al concetto di “strascicato”, di lento. Il tempo qui si dilata immensamente e la lentezza diventa una categoria fondamentale. Quando i monaci vagavano per la terra russa alla ricerca del luogo più adatto, più bello, non esteticamente ma spiritualmente, per erigere il loro monastero, il loro vagabondaggi duravano anni; l’identificazione del luogo ideale segnava poi la fine di quella particolare bellezza. Erano giunti sì allo scopo, ma questo avrebbe significato dire basta al vagabondaggio, alla lentezza, e soprattutto edificare un monastero che avrebbe messo in atto delle regole, dei limiti, rispetto di tempi e orari, mentre il tempo con cui si provava maggiore sintonia era infinito come lo spazio della Russia. Per capire la mentalità russa bisogna tornare a queste categorie spazio-temporali.
Ma quando sono arrivati i bolscevichi, quando c’è stata la Rivoluzione d’Ottobre cosa succede? Appare una forma di ribellismo che allora non si era mai manifestata nell’animo russo?
I bolscevichi cercano di imbrigliare ancora di più.
Allora com’è stata possibile la Rivoluzione?
La Rivoluzione ha cercato di dare spazio alla sete di libertà mai soddisfatta, presente nel lamento. Ma prima di convincere i russi della bontà della rivoluzione, ci sono voluti anni, decenni, ammesso che poi li abbiano davvero convinti tutti, perché l’entusiasmo per la Rivoluzione d’Ottobre è stato quello degli intellettuali, degli artisti, soprattutto dei futuristi; la gente faceva fatica a capire. Quella della rivoluzione era una élite. Come il sogno della “cultura proletaria”: non solo portiamo la cultura ai proletari, ma il proletariato dovrà essere in grado di produrre una propria cultura. E come? Il popolo russo nella stragrande maggioranza non sapeva né leggere né scrivere. Allora campagne di alfabetizzazione, operazione fondamentale, importantissima; scuole per operai. Pensiamo ai “treni d’agitazione”, che portavano nelle sperdutissime periferie dell’Impero il messaggio rivoluzionario, là dove nessuno si era accorto che c’era stata una rivoluzione.
Il Piano quinquennale, la NEP di Lenin, dopo il 1921, come si rapporta con questa mentalità?
Per contrastare il neo filisteismo della NEP si era anche ultra sistematizzato il tempo. Liquidata la NEP, parte il primo piano quinquennale, ma nel momento in cui la norma è stata fissata, dicevano i rivoluzionari, noi la bruciamo. Lo slogan era: Piano quinquennale in quattro anni. Accelerazione e compressione del tempo. Il piano quinquennale fissa un orizzonte temporale di cinque anni? I veri rivoluzionari dimostreranno che è possibile super-realizzare il piano, accorciandone i tempi.
Tutto questo contrasta però con la mentalità russa dedita alla pigrizia oblomoviana, la famosa len’, l’indolenza, il tempo che scorre segnato dal bollire del samovar. Ancora il Čechov di Zio Vania. La balia dice: da quando sono arrivati costoro, il professore e sua moglie, il samovar bolle in continuazione e nessuno prende il the, non abbiamo più mangiato tagliatelle in questa casa, non ci sono più orari. Arriva l’intellettuale trombone dalla città e porta nella tenuta lo scombussolamento totale. La vecchia Russia amava l’indolenza, l’annullamento nel tempo e nello spazio, salvo sentire, di tanto in tanto, il bisogno di contrastare con questo atteggiamento e cercare “vendetta” nella folle corse di una trojka e nella velocità.
I bolscevichi erano stati questo?
Hanno cambiato il calendario adeguandolo a quello occidentale, hanno cambiato le feste, mantenendo le stesse date, ma dando loro nomi diversi, e con il primo piano quinquennale, nel 1928, arriva la già citata compressione del tempo. Ci sono bambine che si sono chiamate Pjatiletka Za četyr’e Goda, ovvero Piano quinquennale in quattro anni. Gorbačëv ha fatto qualcosa del genere: Basta tazze di the a oltranza mentre state lavorando, basta andare a fare la spesa in orari di ufficio: il lavoro è il lavoro…
E non ha funzionato?
Assolutamente no. Gorbačëv è stato odiato anche per questo: ha imposto ritmi occidentali. E qui subentra l’euroasismo della Russia; è un ambito che ho studiato poco, lo cito, ma non sono uno specialista. L’asiaticità della Russia, che è sempre stata percepita come frenante e negativa, è in realtà una componente essenziale. Appena ti allontani dalle grandi città, il tempo riprende a scorrere con estrema lentezza. Quando ho navigato sul Volga per tre giorni e tre notti, ho percepito la lentezza del fiume, la lentezza del battello, e questa riva che scorre lentissimamente: l’inazione.
Non il bisogno di produrre e di fare, ma il contrario. Il cielo, le luci, il paesaggio, ti catturano. E se prende me, che sono straniero… Chi se ne va dalla Russia, non riesce a vivere senza quel paesaggio, senza quella malinconia, quelle visioni. Ancora oggi, fuori da San Pietroburgo, fuori da Mosca, a dispetto di quello che è accaduto, il crollo dell’Urss, Gorbačëv, El’tsin, Putin, sono quasi certo che lì tu percepisci l’inerzia e questo rapporto straordinario con la terra, l’acqua, con gli elementi che ci sono intorno.
Torniamo a Putin. Cosa ha fatto rispetto a tutto questo quadro, al passato rivoluzionario, staliniano, al crollo dell’Urss? Ha ripristinato l’anima russa?
Ha capito che la fase della nostalgia per l’Urss degli anni Novanta era per una potenza perduta, per un paese in cui ci si riconosceva nonostante le difficoltà e le vessazioni, che erano state affrontate e in parte risolte attraverso l’economia sotterranea, condannata e mandata a morte da Gorbačëv. Putin ha compreso che dopo l’indigestione di consumismo, prodotti occidentali, negozi di lusso per l’élite, era necessario pensare al resto della popolazione, a quelli che non erano né oligarchi né nuovi russi o nuovi ricchi. A questa gente la cosa che stava più a cuore era avere un ideale in cui riconoscersi, uno stato forte, e una figura carismatica cui delegare, come è stato storicamente, il compito di rappresentare la popolazione.
Ma ci sono manifestazioni di dissenso verso Putin, critiche continue anche in Russia…
L’altra settimana erano 25.000 persone che marciavano contro Putin, intellettuali e “creativi”. In una città che ha dodici milioni di abitanti, sono quattro gatti. Importante resta però che lo abbiano fatto, che ci sia chi lo ha fatto. Come ai tempi del dissenso sovietico. La maggior parte degli intellettuali dissidenti, tranne forse Sacharov, Solženitzyn e altre poche figure, chi la pensava in modo diverso dal regime non credeva che si sarebbe potuto cambiare il mondo o abbattere l’Urss. Anche questi oppositori attuali, a mio parere, lo fanno con il medesimo spirito, quello dei famosi sette disperati che erano andati sulla Piazza Rossa il 25 agosto del 1968, per manifestare contro l’invasione della Cecoslovacchia. Quei sette sapevano benissimo che sarebbero stati imprigionati e che i carri armati sovietici non si sarebbero mossi da Praga, ma come hanno dichiarato nelle loro memorie: Non potevamo fare altrimenti, non avremmo più potuto guardarci allo specchio se non fossimo scesi in piazza. Sono finiti nei campi di lavoro, negli ospedali psichiatrici. I manifestanti di oggi, rischiano molto meno, ma hanno un atteggiamento analogo.
Su cosa si fonda il consenso di Putin?
Sta progressivamente ripristinando quelle categorie che erano state svilite, sbeffeggiate e condannate come sovietiche.
Mi fai qualche esempio di queste categorie?
La forza. Pensa alla gestione del caso dei terroristi ceceni nel teatro Dubrovka. Putin non ha esitato a far riempire la sala di gas sacrificando le vite degli ostaggi russi pur di eliminare le donne terroriste cecene. La popolazione gli è stata grata. Ha riconosciuto in lui la figura forte di cui sente il bisogno. Il caso della scuola di Beslan, la sua posizione attuale antieuropea. Gli europei ci minacciano, ci vogliono imporre la loro cultura, ma noi restiamo forti delle nostre radici, questo è il messaggio di Putin.
Poi c’è il connubio con la Chiesa ortodossa, altro punto importante. La cosiddetta moralizzazione della seconda fase putiniana di governo. Il popolo che ha riscoperto la fede ortodossa, o la superstizione religiosa se vogliamo, dopo settanta anni di ateismo di Stato, ebbene Putin adesso si proclama fustigatore dei costumi, ortodosso credente e praticante. Le Pussy Riot sono considerate in Russia delle scostumate, le Femen ancor di più, e poi c’è l’omofobia, atteggiamento che rivaluta da un lato l’atavico machismo russo e dall’altro ripristina “ordine” e “coerenza”.
La manifestazione visiva di tutto questo, qual è?
Prima di tutto le azioni e reazioni alle performance artistiche e di protesta che si sono svolte negli ultimi anni. La condanna delle Pussy Riot dopo la loro anomala “preghiera” nel tempio di Cristo Salvatore.
La “preghiera” punk delle Pussy Riot perché la Vergine cacci Putin
Estremamente interessante è anche la cerimonia dell’insediamento di Putin al Cremlino.
Filmato dell’insediamento di Putin al Cremlino, 7/5/2012
Andrebbe studiato dettagliatamente, è molto significativo. Oppure l’escalation di manifestazioni culminate con il sessantesimo anniversario della Festa della Vittoria il 9 maggio 2005 sulla Piazza Rossa, è un altro esempio.
Filmato della festa della vittoria, 9/5/2005
Anche lì è stato importante per Putin dosare le citazioni sovietiche: la musica, i veterani con le medaglie, le divise, le bandiere. Consapevole del fenomeno della nostalgia per i trascorsi sovietici Putin cerca il dosaggio giusto per la Russia attuale. Siamo noi che ci inaspriamo e le guardiamo con occhio critico. Per il popolo russo quello era ciò che ci voleva. Oggi c’è anche la fustigazione degli artisti che danno della Russia un’immagine negativa, una sorta di ritorno alla censura che condannava chi non si attenesse a un canone di elogio e celebrazione del paese e della sua realtà. Arte e morale devono tornare a essere rispettose delle tradizioni cristiane, delle radici slave. Su questi fronti, Putin sta ottenendo un seguito impressionante.
Rispetto a Stalin che guardava dall’alto della tribuna della Piazza Rossa, Putin invece si mostra a torso nudo.
Stalin non aveva bisogno di esibire i muscoli, perché li faceva esibire agli altri: gli atleti, gli stacanovisti. Era il corpo perfetto dell’Urss. Stalin si faceva rappresentare in simulacri; il suo corpo era immobile, animato soltanto dal minimo gesto della mano. Putin ha capito che bisognava esibire i muscoli, sia metaforicamente che realisticamente. Sportivo, duro, gli occhi di ghiaccio, caccia, pesca, cavallo, donne. Andare a donne è un’altra delle cose che l’uomo vero russo deve saper fare. Fisicità, cameratismo, edonismo.
La vicinanza con Berlusconi si fonda anche su questo. Curioso, ma forse si può spiegare, che non abbia espressamente citato il consumo di vodka. Come moralizzatore non poteva esibire il proprio gusto di bere o la capacità di reggere l’alcol, ma è scontato nella sua immagine mediatica. Di El’tsin si diceva che era un ubriacone, non perché bevesse molto, ma perché non reggeva la vodka. Putin probabilmente la regge, ma su questo, che io sappia, non ha esplicitamente investito.
Oggi, visivamente l’icona culturale “corpo di Putin” come si è manifestata?
Oggi sul web trovi i magneti, le magliette, addirittura la carta igienica con la faccia di Putin. Pro e contro, si trova di tutto. A Lipsia, di recente, a un seminario, ho citato un caso che mi è capitato nei primissimi anni del suo mandato. A Mosca nel sottopassaggio della metropolitana, in un negozio di quadri avevo visto un ritratto di Putin. Avevo chiesto in russo, usando una forma di lingua parlata, quella che si usa al mercato: Quanto me lo mette Putin? E la proprietaria del negozio indignata mi aveva risposto: Come si permette di parlare così del nostro Presidente? E mi ha cacciato dalla galleria senza vendermi il quadro. Oggi probabilmente è diventato gadget anche Putin.
A Lipsia la discussione era: un corpo politico perde autorità e autorevolezza nel momento in cui viene riprodotto tecnicamente? La sua aura perde qualcosa? O acquisisce? Per la cerimonia di insediamento del suo secondo mandato presidenziale Putin ha fatto blindare Mosca e ha attraversato la città da solo in una limousine e Mosca era deserta. Il lungo passaggio è stato ripreso dalla televisione: una città fantasma. Lui solo e la città soltanto per lui: potenza massima o paura degli sguardi degli altri? È un segno di debolezza o di forza? La risposta non ce l’ho.
La moltiplicazione del corpo nei gadget paga un pegno al brand, non credi? Non pensi che anche su Putin si è innestato un elemento tipico delle marche occidentali, del brand? C’è la mentalità russa di cui hai parlato, ma anche questo aspetto più occidentale che forse gli fa gioco.
Ho una statuetta della Regina Elisabetta con tanto di batteria solare, che dopo l’esposizione alla luce si mette in moto e fa il suo saluto classico. La casa reale inglese credo abbia addirittura investito su questo. Pensa al Royal Baby, concepito quando la Scozia votava pro o contro la sua autonomia…
Nel mondo contemporaneo non c’è più la totalità, ma esistono delle nicchie, anche vaste. Funziona così per i consumatori. I brand non parlano al pubblico, ma ai pubblici, al plurale. Fuori da Mosca come dici vige ancora la mentalità tradizionale, oblomoviana, ma nella capitale e nelle grandi città ci sono le grandi marche, i loro negozi. Non credi?
Anche il corpo politico segue la strada del brand. Questo è uno degli ultimi acquisti a Mosca: uno Stalin tipo soldatino di piombo. L’ho pagato parecchio. Su Facebook negli ultimi giorni è comparso “il bambolotto Stalin”. Un caso simile alle Barbie-Madonne. Qualcuno a proposito del bambolotto Stalin ha scritto scherzosamente: ecco la risposta russa alla Barbie Madonna. La scatola è un kit con oggetti che lo rappresentano: gli stivali, la poltrona, la pipa. Anche Stalin è arrivato a essere un giocattolo?
Forse vanno interpretati come sintomi. Non è detto che siano delle realtà, non è necessario che li si produca. Sono immagini: basta farne uno e metterlo su Facebook. Ma in Putin non c’è anche un aspetto di machismo?
Certo. Putin si mostra volentieri a torso nudo, e poi le donne. Il machismo russo viene dal contrasto tra patriarcato e matriarcato. Il fatto che le donne abbiano sempre gestito la famiglia, l’andamento del villaggio, ma non abbiano mai avuto un riconoscimento istituzionale. Lenin, altro leader attento e acuto, aveva creato il manifesto e la frase: Ogni cuoca deve saper governare lo Stato. Investiamo sulle donne. E Stalin con altri manifesti ancora: Le donne nel Kolchoz sono una grande forza! Negli anni in cui gli uomini erano al fronte, le donne dovevano mascolinizzarsi per far andare avanti la famiglia, il paese. Stalin le coinvolge nella creazione dei Kolchoz, poi riconosce loro una specie di istituzionalizzazione formale, ma la figura maschile è rimasta sempre dominante.
Ogni cuora deve imparare a governare, Lenin
Pensa al monaco-politicante Rasputin, al poeta Esenin, a Vysockij, il cantautore degli anni settanta, erano tutte figure di maschilità prorompente. Rasputin “guariva” tutte le dame di Pietroburgo, accoppiandosi con loro, e da lì la leggenda che avesse un fallo immenso. Adesso nel Museo dell’erotismo a Pietroburgo è esposto il vaso che contiene il pene di Rasputin; in realtà è un cocomero di mare e la gente va a vederlo e fa finta che sia il fallo di Rasputin. Putin ha investito anche su queste eredità. Nel momento in cui il discorso sul “gender” si diffondeva in Russia, queer e altro, mettendo in discussione la visione convenzionale della virilità, prontamente compare l’immagine di Putin che salva il cameraman dalla tigre siberiana, che si fa fotografare a petto nudo con fucili e canne da pesca, porta i suoi ospiti, Berlusconi compreso, a caccia sulla neve con i colbacchi e a fare la sauna, la banja, altro rito maschile in cui la complicità maschile, il male bonding, trionfa.
Che previsione fai circa gli sviluppi futuri?
Credo che la Russia torni a conoscere un potere totalitario, che rischi vistosi passi indietro, che ci sia in atto un atteggiamento di restaurazione pseudo-morale e pseudo-religiosa. Tuttavia questa è un’impressione basata sulle nostre categorie culturali e sull’osservazione dall’esterno della realtà. Ciò che a noi pare insostenibile, gravissimo, non è necessariamente vissuto come tale all’interno del paese, anche da chi è parte in causa rispetto a divieti o vessazioni.
Per esempio, se parli con i gay di Mosca, ti dicono che a loro non importa troppo delle leggi omofobiche: quello che facevamo prima lo continuano a fare, almeno per il momento. Quelli che scendono in piazza a manifestare, e gli stessi rockettari e artisti che protestano, sono tra i più consapevoli del rischio di restaurazione in atto. Per gli altri cresce retoricamente e propagandisticamente lo spauracchio dell’Europa, cui ci sente inferiori, ma a cui si è tuttora consapevoli di poter tenere testa, anzi, insegnare qualcosa. Lo diceva già Gogol’ negli anni Quaranta dell’Ottocento.
Quando nel suo romanzo-poema la Trojka-Russia prende il volo, il passeggero le domanda: Russia dove vai? E la Russia non risponde, l’unica risposta è il tintinnio del sonaglio. Il Paese non è in grado di fornire una risposta ma, continua Gogol’, al suo passaggio s’inchinano, fanno largo gli altri popoli e le altre nazioni. È una visione messianica. Ecco su cosa torna a investire Putin: il messianesimo. La Russia ce la può fare da sola. Anzi farà vedere che, come l’Urss ispirava paura e soggezione in tutto il mondo, così la Russia attuale può tornare a occupare quella posizione. Un messianesimo mai sopito; umiliato e sbeffeggiato dal crollo dell’Urss, ma che può rinascere.
Il crollo dell’Unione Sovietica è stata una grande delusione per i russi?
Uno spaesamento, non se lo aspettavano neppure loro. Persino per i dissidenti sembrava irrealistico mirare alla dissoluzione dell’Unione Sovietica; poi la perestrojka ha agito e deluso molti. Gorbačëv, dicono i più anziani, ha fatto scempio del nostro paese. È seguito poi l’entusiasmo per la libertà, la democrazia, il consumismo, ma è arrivato molto tardi, dopo anni di spaesamento totale. Una studentessa bielorussa ieri a lezione riferiva dei suoi genitori che le dicevano: Noi dopo la fine dell’Urss ci siamo sentiti incapaci di tutto, nessuno ci aveva insegnato a rimboccarci le maniche e reagire. Per settant’anni il regime sovietico aveva affermato: l’individuo esiste solo nel momento in cui si trasforma in collettivo. Voi siete tutti uguali, nessuno si deve distinguere. Riproponeva, con le debite differenze, il principio della comunità contadina idealizzata dagli slavofili. Il concetto sovietico di “collettivo”, altro non è che la traduzione lessicale della vecchia comunità contadina russa, Obščina. Diversi ma insieme, costituiamo il corpo politico, come nell’ambito dell’ortodossia avevamo costituito il corpo spirituale. Adesso con Putin si cerca anche di ridare forma a tutto questo.