Heinrich Mann. La Germania e l'odio
Le recenti elezioni tedesche fanno riaffiorare lo spettro bruno, ricordando che giusto un secolo fa la loro prima affermazione i nazisti l’ebbero proprio in Turingia. Il rimosso, quel 1933, s’impone di nuovo. Quell’anno per Heinrich Mann significa l’esilio e la pubblicazione di un saggio incandescente, L’odio. Come il nazismo ha degradato l’intelligenza (tr. di Eusebio Trabucchi, L’Orma), dedicato disperatamente «alla mia patria», ormai perduta. Per la prima volta in maniera appassionata e ‘partigiana’ Mann illustra con la potenza del dolore l’ingiustizia subita rievocando la situazione politica del Terzo Reich. L’odio illumina la vita quotidiana di quel terrore che già nei primi mesi si viveva in Germania con arresti arbitrari, perquisizioni illegittime, sparizioni improvvise, ritrovamenti di cadaveri deformati, reclusioni brutali e ingiustificate nei primi Lager, chiusura forzata di sedi di partiti, sindacati, associazioni, giornali, case editrici, pestaggi violenti degli oppositori. E su tutto e tutti una diffusa cappa di odio, compatta, sostenuta dal terrorismo di stato. Mann, il fratello maggiore di Thomas, nato anche lui a Lubecca, nel 1871, morì in esilio a Santa Monica nel 1950 poco prima di tornare in Germania, o più esattamente nella Repubblica Democratica Tedesca, in qualità di presidente della Accademia delle Arti di Berlino Est. La scelta di tornare in Germania – a differenza di Thomas – e di optare per quella che veniva chiamata ‘Germania comunista’ ossia nella neonata DDR, chiarisce le simpatie di sinistra di Mann, che nel saggio afferma la speranza in un futuro comunista per la Germania, in termini utopici, mentre l’autore non affronta la grave responsabilità della KPD, del partito comunista tedesco, notando, tuttavia onestamente: «Il Partito comunista di Germania non ha mai davvero interpretato il proprio ruolo, non ha mai agito in modo indipendentemente, limitandosi a prendere ordini da Mosca, e spesso senza saperli neppure eseguire. Gli mancava una profonda convinzione interiore della propria missione, e di conseguenza anche volontà e forza».
Fu lungo il percorso che condusse lo scrittore a diventare il testimone della sinistra –tanto da ventilare la sua candidatura a presidente della Repubblica di Weimar contro il feldmaresciallo Paul von Hindenburg, quello che nel ’33 incaricò Hitler, il ‘caporale austriaco’, ad assumere la carica di cancelliere, consegnando di fatto il paese nelle mani del partito nazista e alla dittatura. Mann, che proveniva da una agiata famiglia di commercianti anseatici, malgrado l’opposizione del padre aveva imposto la sua volontà di divenire scrittore. La liquidazione della ditta di famiglia –quella dei ‘Buddenbrook’ – con la precoce morte del padre, gli consentì di poter vivere di rendita e di compiere viaggi con prolungati soggiorni in Italia, tra cui quasi due anni tra Roma, a via di Torre Argentina, e Palestrina. È il periodo ‘dannunziano’ della trilogia, così intensamente decadente di Le Dee o i tre romanzi della Duchessa d’ Assy, che coincide con la direzione nel 1895, ancorché per breve tempo, della rivista «Il secolo ventesimo», di tendenze nazionalistiche, monarchiche, conservatrici, e persino antisemite. Proprio a cavallo tra i due secoli avviene la svolta ideologica di Mann, che trova una sua spiegazione persino geografica con l’orientamento sempre più accentuato e definitivo per la Francia e la sua cultura democratica, laica, illuminista, che affiorò nel 1915 – a guerra iniziata – nel saggio Zola, pacifista e democratico, che causò la rottura con il fratello Thomas. Intanto Heinrich con Professor Unrat o la fine di un tiranno del 1905 si era confrontato con una critica spietata del filisteismo autoritario tedesco. Nel 1930 la trasposizione filmica in L’angelo azzurro con Marlene Dietrich per la regia di Josef von Sternberg gli assicurò un successo internazionale, mentre in Germania lo scrittore aveva colto un’altra affermazione con Il suddito. Che divenne un testo esemplare per l’‘altra’ Germania, quella democratica, quella dei quattordici anni scintillanti, spregiudicati, creativi della Repubblica di Weimar, che non sopravvisse al Trattato di Versailles e alla grave crisi del 1929 e soprattutto alla demagogia nazionalsocialista, allo scatenamento del terrore dalle SA. Heinrich si schierò sempre per la giovane democrazia in tutti i possibili interventi pubblici, protestando la sua fiducia in una unità europea fondata sull’alleanza tra Germania e Francia, con una Francia già pronta ad accettare una pace profonda, definitiva. Ma la Germania aveva compiuto la sua drammatica e scellerata scelta storica, quella dell’odio classista, razzista, nazionalista, quella dell’odio contro la ragione fino a giungere ai roghi, manipolata da Hitler ed egemonizzata da Goebbels, l’artefice del tentato assassinio della cultura tedesca, che era ancora egemone in Occidente.
Con il suo vivace excursus, retoricamente magistrale e con la sua singolare acutezza piscologica, Mann è uno dei primi a comprendere l’abilità del giovane demagogo, come pure la sua perfidia. L’analisi di Mann, che riguarda Goebbels, diventa anche una chiave per altri destini di intellettuali tedeschi attratti irresistibilmente dalla demonia nazista: «Un caso noto è quello del giovane letterato fallito divenuto ora l’attuale ministro della Propaganda. Era stato allievo di Friedrich Gundolf, un docente universitario ebreo, un critico di grande gusto e sottigliezza che proveniva dal circolo iniziatico del poeta Stefan George. Capita che chi disprezza la folla si getti poi a capofitto nei movimenti popolari, ma proprio a causa dell’avversione che prova per le masse incolte finisce per aizzarle contro gli intellettuali. […] Aveva dimenticato il suo maestro israelita e si scagliava contro lo spirito ebraico. Non si era scordato delle sue disfatte letterarie e per questo metteva alla pubblica gogna gli scrittori più dotati. Gli studi raffinati e profondi che aveva compiuto gli rendevano ripugnante ogni idea che aveva di massa, e così incitava il proprio uditorio fino a farlo esplodere tutte le volte che pronunciava la parola “marxista”. I passati insuccessi e una malformazione al piede che lo affliggeva fin dalla nascita avevano alimentato a lungo il suo desiderio di vendetta contro il mondo, e ora era in grado di infonderlo anche negli altri. Era questo il suo più grande talento. Trasudava odio, appestava l’aria ovunque andasse, contaminava stanze, piazze, l’intero Paese. Certo, non era il solo: gli agitatori nazisti non hanno mai fatto altro, sia prima di salire al potere che ora. Ma in lui l’odio aveva radici più profonde. Per riuscire a dare libero sfogo ai suoi più biechi istinti aveva dovuto cancellare il proprio passato». Heinrich non era presente nella fatidica notte del 10 maggio quando Goebbels denunciava la ‘vergognosa’ corruzione della cultura tedesca a causa del ’bolscevismo culturale’ che connotava gli intellettuali ebrei e marxisti, fautori di una sterile “letteratura dell’asfalto”. Heinrich non era più a Berlino, aveva lasciato precipitosamente la sua abitazione, devastata subito dalle SA e si era rifugiato per una provvisoria sistemazione economica in un villaggio di pescatori sulla Costa Azzurra, a Sanary-sur-mer, dove si erano raccolti numerosi scrittori tedeschi. L’esilio e il rogo, ecco i primi risultati dell’odio: «Siamo stati costretti ad abbandonare il nostro Paese, che non sarà mai veramente loro. Così si sono ridotti a bruciare i libri, un’assurdità che non si vedeva dai tempi dell’Inquisizione». Le considerazioni di Mann sono la testimonianza perspicua per comprendere la stupita incredulità di fronte a tale rigurgito di barbarie. In Germania tale efferatezza culturale era ormai sconosciuta. I roghi che alla Festa di Wartburg del 18 ottobre 1817 gli studenti nazional-liberali avevano simbolicamente acceso riguardavano i testi dell’occupazione napoleonica (tra cui il celebre Code Napoléon). E su quel rozzo antecedente si modellò l’“Azione contro lo spirito anti-tedesco” degli studenti nazionalsocialisti culminata con il rogo del 10 maggio 1933: quella notte bruciò all’Opernplatz di Berlino – e simultaneamente in una sessantina di altre città, soprattutto universitarie –, l’intera cultura moderna, da Marx a Freud, da Heine a Heinrich Mann. Esilio, rogo dei suoi libri, l’anno proseguiva sempre più amaramente: il 25 agosto Heinrich era nella prima lista dei 33 avversari del regime ai quali era stata disconosciuta la cittadinanza tedesca.
Si era dimesso dalla “Sezione Letteratura” della “Accademia Prussiana delle Arti”, di cui era stato eletto presidente nel 1931, che era la principale istituzione tedesca per le arti. In quei mesi il suo rammarico passava gradualmente in disperazione, quella rievocata con una forza impetuosa e aspra nel saggio L’Odio, il primo pubblicato all’estero dall’editore Emanuel Querido ebreo-olandese (sefardita di origine portoghese come Spinoza), che divenne un punto di riferimento editoriale per gli scrittori tedeschi dell’esilio: finì deportato e assassinato insieme alla moglie nel campo di sterminio di Sobibór. Con orgoglio intellettuale Heinrich aveva affermato nell’introduzione della rivista «Die Sammlung» (pure edita dall’intrepido Querido) a cura di Klaus Mann: «Non ci presentiamo come giornale della “emigrazione tedesca” […], sebbene la nostra sostanziale intenzione sia quella di costituire un luogo d’incontro della grande letteratura tedesca in esilio. Noi ci presentiamo come il giornale dello spirito europeo, al quale appartiene quello veramente tedesco. Pubblicheremo contributi provenienti da tutti i paesi europei, e anche da altre parti del mondo, e si dimostrerà così, con una simile raccolta, che la vera letteratura tedesca appartiene a quella mondiale». Nei primi tempi dell’esilio, Mann si faceva delle illusioni sui contrasti fra le fazioni all’interno del partito nazista, ben sapendo però come avrebbe risposto Hitler ad ogni tentativo insurrezionale: «Le prevedibili rivolte verrebbero soffocate nel sangue, in un mare di sangue. Ma poi si ripeterebbero comunque. Gli oppositori interni al partito finirono assassinati, in un bagno di sangue nella ‘Notte dei lunghi coltelli’ tra il 30 giugno e il primo luglio del 1934. Il saggio manniano da una parte analizza l’odio scatenato in Germania dai nazisti, dall’altra si augura che finalmente l’Europa possa ritrovare se stessa in una unità economica e politica, nonché militare, fondata sulla cultura. È commovente e sorprendente lo spirito quasi profetico di Heinrich Mann, la sua invincibile fiducia nella forza della ragione: «Un rinnovamento tanto profondo può iniziare solo se si attiva il pensiero». Un processo che è ancora in atto. In un senso, ma anche nell’altro: ogni tanto si accendono ancora roghi, o si combatte contro la vocazione democratica con temibili recrudescenze, come segnalano i recenti avvenimenti tedeschi.
L’Odio si conclude con l’unica possibile forma di speranza. Un testimone scomodo viene ammazzato dai nazisti: «Non tornerà più. O forse sì, fra qualche tempo, in un’altra forma. In mille forme. Innumerevoli testimoni! Innumerevoli!».
Heinrich Mann non tornò più in Germania, così come Thomas e come Klaus. La grande famiglia venne travolta dal Terzo Reich. Fino al 1945 in patria i loro libri vennero bruciati, proibiti, distrutti.