Franco / Valle de los Caidos
La visita a un luogo rilevante esige, a un certo punto, una sua teoria specifica. Il fatto di spostarsi per scoprire un sito si iscrive in un orizzonte ermeneutico che espone il viaggiatore a domande del tipo: “qual è il senso di una visita proprio a questo luogo?”, “dove ti porta – e in che modo – un viaggio di questo genere?”
Visitare posti “inconsueti” impone un atteggiamento critico, e ciò sia in una prospettiva individuale (“chi mi ha portato qui?”) che intersoggettiva (“per quale motivo vorrei proporre questa visita ad altri?”).
Tali considerazioni affiorano con prepotenza alla mente in un luogo molto particolare: la “Valle de los Caídos”, nella Sierra de Guadarrama. Innanzitutto: è utile andarci ora che la stampa, anche internazionale, parla della decisione di spostare i resti del Generalissimo Franco dal complesso della “Valle dei Caduti” a Madrid? La parola “luogo”, in questo caso, non rende onore alla complessità dell’oggetto in questione, visto che la “Valle de los Caídos” è tutt’altro che una realtà neutra riassumibile in un unico concetto (come “luogo”, “sito”, “monumento”).
La “Valle dei Caduti” (combattenti morti durante la guerra civile) si trova nella valle di Cuelgamuros, nel comune di San Lorenzo de Escorial. Si tratta di una vasta area monumentale che culmina – nel senso letterale – in una cima rocciosa sovrastata da una croce gigantesca. Il progetto, iniziato in piena guerra mondiale (1942), fu terminato e solennemente inaugurato nel 1959. Il “luogo” contiene trentatremila-ottocento-quarantasette resti umani di caduti spagnoli battezzati, con oltre diecimila corpi che restano tuttora anonimi. La storia della costruzione è conosciuta ed “epica”: per erigere questo monumento vi sono stati dei morti, per finanziarlo si sono dovuti superare varie difficoltà, oltre ai soliti problemi tecnici data la dimensione dell’insieme.
Per capire di che genere di insieme stiamo parlando, è utile suddividere la “visita” in tappe.
L’atmosfera si fa unheimlich sin dall’entrata, che ricorda un posto di blocco di tipo militare. Ogni macchina viene controllata. Già qui, nella parte più bassa, la natura circostante, prevalentemente forestale, contrasta con il grigio militaresco e il grigio dell’asfalto. Grigio e pulito, anzi leccatissimo. Per accedere al temenos che ci aspetta in alto occorre seguire la strada per alcuni chilometri. Attesa che pare interminabile. A tratti si intravedono tra le folte fronde degli alberi di pino pezzi dell’immensa croce. Benché tutto sembri “pacifico”, nulla è bucolico. Non è un’Arcadia iberica. La natura composta con cura funge soltanto da proscenio per lo spettacolo grandioso, lassù: “preparati all’incontro con lo spettacolo grande, smisurato che ti aspetta!”
L’enorme parcheggio all’arrivo si confonde con una sterminata piattaforma. Il grigiore minerale annulla quasi la presenza umana, riduce il visitatore a un “puntino” insignificante. La dimensione di questo spazio transizionale ricorda chiaramente luoghi di triste memoria nazista, il linguaggio di Albert Speer, caro alla Riefenstahl di Triumph des Willens. È una specie di Reichsparteitagsgelände potenziale trasposto in una zona semi-selvaggia nel cuore della Spagna. Mancano soltanto – per fortuna – le masse. Il lato perturbante può assumere momentaneamente un che di tragicomico: il “fan” davanti a noi, giunto sin qui con la sua Harley-Davidson per godersi l’incontro con i resti di Franco e Primo de Rivera, cammina come intontito, come portato dall’immensità del paesaggio minerale che lo circonda e che lo prepara all’esperienza “sacrale” all’interno della Basilica.
Ed eccoci alla tappa seguente: seguiamo scalinate senza fine che portano dentro il sacrario. Ma ciò che si apre nel ventre della montagna non ha per niente l’aria di uno spazio religioso: l’immenso involucro di più di duecento metri di lunghezza ricorda piuttosto la volumetria gigantesca di una centrale elettrica nascosta nelle viscere della terra. La penombra e il dominante chiaroscuro, la vastità spaziale e la pesantezza della massa rocciosa creano un ambiente cupo. Questo luogo previsto per la conservazione della memoria avrebbe potuto evocare i progetti utopici di Boullée o di Ledoux, invece qui di utopico non c’è neppure l’ombra. Stiamo – anche letteralmente – in una tomba e dentro quella stessa grande macchina che si è nutrita dei corpi dei caduti (non soltanto quelli di parte ammessi qui ufficialmente, ma le centinaia di migliaia di vittime della guerra civile).
Come non pensare alla macchina divoratrice di vite umane che, incessante, macina i corpi in Metropolis di Fritz Lang? È una caverna che avrebbe potuto essere sublime, ma addirittura un simile effetto estetico difetta nella “Valle dei Caduti”. Malgrado l’imponenza dell’involucro, la relazione fra soggetto – disorientato – e architettura – fuori scala – non avviene. Ci si sente schiacciati, ma non sorpresi e ancor meno “elevati”. La caverna di Franco è un sito dove si può sperimentare per un momento la reificazione totale. È ciò che accade quando la logica totalitaria si impone con la sua terrificante violenza; non soltanto quella politica, ma anche quella altrettanto perversa della tecnica.
Scappiamo via allora e proseguiamo il nostro percorso all’esterno.
Tuttavia pure l’ascensione della “montagna” è una delusione. L’assemblage meccanico contrasta con la voluta solennità e trasforma il tutto in una specie di Disneyland disumana e un po’ ridicola. Non è un caso che il 1959, data di inaugurazione della valle monumentale, sia l’anno in cui la Disneyland di Anaheim, in California, apre al pubblico il suo famoso finto Cervino. Anche le rocce alla base della “montagna” si presentano come un artificio dall’aspetto molto teatrale. Qui, in mezzo a una natura che sa di bricolage, l’estetica che prevale è quella di una modellistica estrema trasferita in uno pseudo-locus amoenus.
Non resta che aggrapparsi al climax verticale, la smisurata croce di cemento di ben cento-cinquantadue metri di altezza. Questo segno visibile da lontano (è la più grande croce auto-portante del mondo) rappresenta il coronamento logico della chiesa detta “della Santa Croce”. Simbolo di quanto è stato definito il “nazional-cristianesimo”, l’enorme elemento annulla quasi la vetta del Risco de la Nava. La croce sommitale dell’insieme architettonico non fa parte del repertorio abituale del cattolicesimo iberico con i suoi bizzarri Gesù in gonnella o le sue Vergini-montagna, come la Virgen de Guadalupe. La croce non esprime né esuberanza spirituale né malinconica tristezza asburgica (sia El Escorial che Yuste, i rigidi edifici asburgici, sono geograficamente vicinissimi).
La realtà è che non si tratta di una croce, ma piuttosto di una enorme spada! La croce, la basilica, la piattaforma, la montagna stessa sono state trasformate – sottoponendo al lavoro forzato e a terribili sofferenze più di ventimila persone prelevate dai lager dell’epoca – in un paesaggio-arma. Al più tardi a questo punto del nostro itinerario ci rendiamo conto che la “Valle de Caduti” è non soltanto un monumento alla violenza, ma un monumento violento.
L’ambiguità dei monumenti – e dello stile monumentale – è un tema analizzato da tempo. Robert Musil, per non citare che lui, ha scritto pagine memorabili sull’inutilità e sulla bruttezza della maggior parte dei monumenti esistenti. Affrontare la “Valle de los Caídos” non pone solo problemi di simpatia politica. Anche luoghi di memoria “democratici” possono destare un senso di indignazione (il Mount Rushmore, per esempio, è una mastodontica orgia kitsch). Ciò che non funziona qui è proprio la qualità estetica dell’insieme, e per estetica intendiamo un fondamento che dovrebbe conferire senso alle cose. Questo complesso architettonico non fonda proprio nulla. E il problema di questo mausoleo violento non è la presenza delle spoglie mortali di Franco, ma la retorica di ciò che resterà anche quando i suoi resti saranno traslati a Madrid. In verità, occorrerebbe decostruire l’intero complesso.
L’utopia positiva sarebbe la sua trasformazione in un luogo di memoria completamente diverso, anche sul piano estetico. Un nuovo progetto potrebbe restituire la caverna vuota alla montagna e umanizzare la croce. Il famoso Kongenshus Mindepark, una “valle della memoria” realizzata da Carl Theodor Sørensen nella landa danese, propone una alternativa interessante. Una semplice distesa circolare costellata da piccole rocce crea uno spazio “agoratico”, che permette una forma di comunione aperta, plurima, evolutiva.
Con il suo monumento Franco voleva lasciare al mondo delle sublimi vestigia nella tradizione dell’antichità classica. Invece la violenza che caratterizzò il suo regime gli prese la mano anche in quest’opera, rimpicciolendo sul piano concettuale il titanico gesto architettonico. La sua opera si è ritorta in fin dei conti contro di lui in una sorta di amara vendetta.