La sostanza onirica da Omero a Derrida / Fedeli al sogno
Che c’entra il sogno con la filosofia, verrebbe da chiedersi, imbattendosi in libreria nel volumetto di Umberto Curi intitolato Fedeli al sogno. La sostanza onirica da Omero a Derrida (Bollati Boringhieri, 2021)?
La filosofia moderna non si apre forse con l’età dei Lumi, con l’Aufklarung kantiana, che hanno spazzato via la prigionia delle menti e dei corpi, le superstizioni e l’oppressione, insomma tutti quei mostri del passato che, per il Goya dei Caprichos, sarebbero generati dal sueño della Razòn? (in spagnolo, come nel latino somnium, la parola significa sia ‘sonno’ che ‘sogno’). Gufi occhiuti, pipistrelli, demoni grotteschi verrebbero viceversa fatti fuori da un solo raggio di quella formidabile luce che tutti fa risvegliare...
Del resto anche nel più celebre dei miti di Platone lo ‘scopo del gioco’ è uscire dalla Caverna, emanciparsi da quella sorta di eterna avvolgente proiezione cinematografico-onirica nella quale i cavernicoli sono immersi. Tale risveglio è, per Platone, l’inizio del pensiero. Eppure, potrebbero già obiettare i lettori più o meno freschi di ricordi liceali (e magari i liceali stessi) non è proprio Platone quello che non riuscì a fare a meno dei mithoi, a dispetto della sua potentissima dialettica socratica, della sua ‘arma letale’ rivolta contro le credenze dei più?
I miti, dal canto loro, sembrano spesso seguire la logica del sogno, cioè ambientarsi in una realtà in cui tale logica è legge, in cui possiamo vedere un corpo umano diventare albero o animale, parlare cogli dèi ma anche essere da loro perseguitati, per ragioni al contempo cogenti e indecifrabili: un mondo insomma in cui i livelli della realtà, l’umano il divino il naturale, sono stranamente rimescolati.
Infine, se qualcuno si fosse fermato anche solo all’esergo del libro di Curi, cioè a quella frasetta iniziale posta degli scrittori un po’ come formula di scongiuro e insieme custode del senso complessivo del libro, avrebbe intuito che con la filosofia il sogno c’entra, eccome.
Si tratta in questo caso della famosa storia del saggio cinese Chuang-Tzu, che sognò di essere una farfalla, e al risveglio non sapeva più affermare con certezza di essere Chuang-Tzu che ha sognato di essere una farfalla, o una farfalla che sta sognando di essere Chuang-Tzu. La storiella, non a caso amatissima da Borges (il quale considerava però la filosofia come un sottogenere della letteratura fantastica) ci porta nel cuore di uno dei più importanti problemi filosofici di sempre. Siamo sicuri che il mondo che vediamo, in cui viviamo e agiamo, sia il mondo vero? A offrire la risposta più articolata a tale domanda fu naturalmente il citato Platone; ma in età a noi più prossime il razionalissimo Cartesio immaginò che un demonio maligno potesse organizzare il mondo fenomenico, quello che percepiamo, come una sorta di messa in scena fatta apposta per ingannarci. Da lì a Matrix, come si vede, il passo non è poi così lungo.
Di Cartesio, però, Curi non parla. Egli sceglie infatti di passare senza soluzione di continuità dalla cultura antica (greco-latina) al fatale 1900 in cui esce L’interpretazione dei sogni (Traum-deutung), uno dei capolavori di Sigmund Freud, vera e propria rivoluzione copernicana nel mondo onirico. L’opera, fondamentale per la psicanalisi (Freud definì il sogno via regia per l’inconscio), sembra molto simbolicamente inaugurare un‘epoca fittamente popolata da sogni, e più da incubi, incarnati sia nell’arte sia nella buona, vecchia realtà (qualunque cosa essa sia).
La concezione antica del sogno era ovviamente differenziata secondo l’indirizzo filosofico sotto le cui lenti si osservava il fenomeno. Più razionalisti gli aristotelici, più mistici i platonici, tutti erano però d’accordo su almeno tre punti. Il sogno aveva spesso a che fare con la verità; tale verità riguardava quasi sempre il futuro; tale verità non si mostrava nuda e patente nel sogno, ma bensì in modo anamorfico, o meglio cifrato: per farla emergere era necessario pertanto un lavoro di interpretazione.
Così, alle ‘origini’ stesse della Letteratura Occidentale, il sogno di Penelope nell’Odissea simbolizza tramite una strage di oche il massacro dei Proci che Odisseo, rivelatosi finalmente nella sua identità di re di Itaca, compirà alla fine. Profetici, e tutti da interpretare benché piuttosto ‘aperti’, sono pure i sogni che si raccontavano nelle tragedie greche: e così via.
Non siamo insomma molto lontani dal metodo freudiano: il medico viennese riconobbe del resto il suo debito con l’onirocritica antica, in particolare con Artemidoro di Daldi, autore dell’opera omonima. Lontano archetipo delle nostre ‘smorfie’ (sì, proprio quelle dei numeri del lotto) Artemidoro parla infatti dei sogni che si fanno veramente: perdere i denti, volare, parlare coi parenti morti ecc. Non vi compaiono in genere solenni figure in toga che intonano eloquenti predizioni sul futuro immortale di Roma, tanto per dirne una.
E la genialità di Freud, pare, consistette proprio nell’andare a frugare in quei fenomeni della psiche considerati marginali: grotteschi errori che si fanno parlando ed agendo, le dimenticanze, i lapsus, le battute di spirito ed appunto i sogni. Per molti, ancor oggi, essi non sarebbero che il risultato insignificante del nostro cervello che ‘fa le pulizie’. Anche se ciò fosse vero, rimarrebbe sempre però interessante il nostro stesso interesse per i sogni, a quanto pare tutt’altro che scomparso in quest’epoca neurobiologica.
Ma non dimentichiamoci dell’interpretazione, della Deutung. Il Dottore interpretava, e interpretava duro. Un nevrotico di origine russa gli raccontò di aver sognato sette lupi bianchi su un albero. Il Dottore non si stancava di martellarlo sul fatto che i sette lupi erano un solo lupo, che rappresentava un cane da lui temuto, e che quest’ultimo rappresentava il Padre. Il povero nevrotico, che aveva le sue buone ragioni per sostenere la pluralità dei lupi, dovette abbozzare. (Per una contro-analisi del caso, tutt’altro che imparziale ma assai gustosa, oltreché seria, si veda G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia II, Castelvecchi, 2005).
Lo stesso Freud, del resto, sospettò che la Deutung avesse dei limiti; e fu proprio il suo Inconscio a mettergli la pulce nell’orecchio. Infatti, cercando di interpretare un suo sogno che aveva come centro l’iniezione fatta ad Irma, giovane amica di famiglia, egli elaborò l’affascinante nozione di «ombelico del sogno», con la quale volle designare la zona ininterpretabile del sogno stesso. Traccia ‘legata’ della nascita del fenomeno onirico nelle profondità dell’inconscio, tale «ombelico», pur carico di senso, non era interrogabile. (Chi voglia approfondire il concetto, può leggere J. Derrida, Resistenze. Sul concetto di analisi, Orthotes, 2014, che Curi non usa).
Curi oppone all’approccio aggressivamente interpretativo, e spesso arbitrario, proprio soprattutto della tradizione psicanalitica, un diverso atteggiamento, che privilegia la «fedeltà» alla ‘lettera’ del sogno. Una linea filosofica, certo; ma in cui sono arruolati anche parecchi artisti.
Il ruolo di questi ultimi è anzi fondamentale. Conosciamo l’usanza di molti scrittori, pittori e registi di tenere un taccuino sul comodino, sul quale al risveglio annotare sùbito i sogni fatti durante la notte. Questa pratica sarebbe per Curi un primo esempio di «fedeltà» al sogno. Quelli di Schnitzler e Fellini sono i dreambooks citati da Curi, insieme ai «protocolli» del filosofo Theodor Wiesengrund Adorno, ma se ne potrebbero aggiungere altri, come quello di Georges Perec, famoso autore del megaromanzo La vita istruzioni per l’uso (cfr. G. Perec, La bottega oscura. 124 sogni, Quodlibet, 2011, a c. di F. Amigoni).
A propria volta Adorno – non a caso esploratore della dialettica dell’Illuminismo, quel curioso fenomeno per cui anche la veglia, e non solo il sonno della ragione hanno prodotto mostri nella modernità – indicava nell’opera di un altro filosofo, suo amico e sodale, l’esempio più interessante di ‘pensiero del sogno’.
Stiamo parlando di Walter Benjamin, il teorico dell’«aura», dell’Opera d’Arte nell’Epoca della sua Riproducibilità Tecnica, nonché l’esploratore instancabile della Parigi ottocentesca. Con Benjamin assistiamo, ci spiega Curi, a un rovesciamento della direzionalità temporale tradizionalmente attribuita al sogno ‘vero’. Esso non contiene più la predizione di un futuro, ma diviene custode del passato. Ma quale passato? A leggere il grandioso e incompiuto dossier benjaminiano su Parigi (Passagenwerk) e altri suoi scritti (consiglio ad esempio il breve e folgorante Kitsch onirico, sull’arte surrealista, in W. Benjamin, Opere complete. Scritti 1923-1927, Torino, Einaudi, 2001, pp. 378-380), sembrerebbe che si tratti di un passato prossimo reso ‘archeologico’ dall’inopinata accelerazione del tempo indotta dal ‘progresso’ della produzione capitalistica. Grazie ad essa le cose, gli oggetti, le merci che solo poco fa sembravano à la page, ora mostrano a noi il loro lato grigio, polveroso, ammuffito.
Secondo Benjamin, insomma, noi sogniamo oggi le rovine della storia, soprattutto quella dell’altro ieri. Ma in queste rovine sognate e sognanti è nascosto un potenziale rivoluzionario esplosivo, a patto che le stesse forze intellettuali che le indagano siano anche quelle che inducono al risveglio. Benjamin parla proprio del «momento del risveglio» come momento storico-politico privilegiato: una zona dunque di soglia, un margine che permette di guardare la luce del giorno senza dimenticare le visioni della notte. (Curi ricorda anche molto sottilmente il ‘sospetto’ benjaminiano che il binomio sogno/risveglio potesse contenere il segreto della dialettica...).
Da Benjamin Curi giunge dunque a Jaques Derrida, il grande maestro francese della cosiddetta decostruzione, attraverso la conferenza del 2001 in cui quest’ultimo parla di un sogno del filosofo berlinese fatto durante la sua angosciosa e rocambolesca fuga dalla persecuzione nazista (cfr. Curi, Fedeli al sogno, pp. 139-146). La conferenza venne tenuta da Derrida all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle, e la circostanza non è secondaria. Infatti da mille schermi fu in quell’occasione ripreso un evento che molti di noi avrebbero reputato possibile solo in sogno; nonché, a posteriori, infiniti sogni furono popolati dall’immagine di quell’inconcepibile impatto.
Sulla linea Adorno-Derrida, Curi individua alcune posture possibili della filosofia nei confronti del sogno: come «protocollo» da non violare; come ‘lettera‘ a cui essere fedeli; come qualcosa di cui «avere cura» (soprattutto in quanto mezzo per rammentarci la «possibilità dell’impossibile»); infine, il sogno come «altro» e come «straniero». Dopo averci spiegato perché e come la filosofia abbia a che fare col sogno, egli ne misura la distanza, segnando un limite apparentemente non varcabile. Sono gli artisti che, pur restando fedeli ai sogni, avrebbero con essi un rapporto ben più diretto, quasi manesco. Vedi Arthur Schnitzler, ammiratore di Freud e oniromane ma scettico sull’utilità psicanalitica del sogno stesso, al quale fa eco una linea francese che da Paul Valéry (cfr. P. Valéry, Swedenborg, Mimesis, 2018) corre fino al già citato G. Perec.
Nella Traumnovelle di Schnitzler, e in Kubrick che in extremis ne fece cinema Curi trova molti spunti. Tradotta in italiano come Doppio sogno, il racconto di Schnitzler dovrebbe invece essere letto proprio come una ‘novella di sogno’ o ‘novella onirica’. Da cui anche la lettura che Curi propone di Eyes wide shut: non tanto o non solo un ‘ritorno alla realta’ (simboleggiato dalla secca battuta che la Kidman rivolge a Tom Cruise: «dobbiamo ricominciare a scopare»), quanto un saper vivere sia nel sogno sia nella veglia con uguale intensità.
Ma se pensiamo a Sogno & Letteratura, il primo nome che ci dovrebbe venire in mente (di sicuro viene in mente a me) è quello di Franz Kafka, con una soglia (una porta...) del quale Curi suggella nell’explicit il suo saggio, pur non parlandone molto prima. Nell’universo creato da Kafka valgono in un certo modo le regole del mito, e anche si avverte l’oppressione che in esso le forze della Legge fanno valere. Col suo recupero della favola, della parabola, del sogno indistinto dalla veglia, Kafka lotta contro le forze mitiche che da sempre opprimono l’umanità. Anche lui, benché a giorno delle scoperte freudiane, le applica quasi sempre in modo anti-psicologico: esse, addirittura, secondo il Wiesengrund citato più sopra, valgono sì, ma a livello del mondo naturale! In effetti Kafka sembra essere davvero disceso (e risalito) in quelle profondità in cui la distinzione tra cultura e biologia non ha più senso, in cui tutta la realtà, e la coscienza e il suo ‘fuori’, esistono allo stato germinale, potenziale...
Il vero grande assente, però, nella riflessione di Curi, è a mio parere il lungo scritto che un giovane Michel Foucault poneva come prefazione all’articolo in cui Ludwig Binswanger, un allievo di Freud che aveva cercato di conciliare la psicanalisi con il primo esistenzialismo (cfr. L. Binswanger, Sogno ed esistenza, SE, Milano, 1993). La critica che Foucault muoveva all’intepretazione (Deutung) freudiana, intanto, era assai più puntuale e ‘costruittiva’ della semplice accusa di arbitrarietà. Foucault diceva che Freud adoperava un metodo nominalistico, per cui ad un certo oggetto o fatto corrispondeva un significato. Non teneva presente, cioè, l’aspetto dinamico dell’azione rappresentata nel sogno, in altre parole il suo aspetto sintattico.
Interessante che per indicare alcune figure basiche del sogno, egli – ispirato senz'altro dai vari riferimenti di Binswanger alla letteratura classica – abbia fatto ricorso ai tre generi fondamentali della ‘letteratura’ d’Occidente: la tragedia, l’epica e la lirica, abbozzando così una sorta di antropologia estetica basata sul sogno. La dimensione spaziale della tragedia sarebbe, ad esempio, sempre quella verticale, e si incarnerebbe appunto nel movimento di chi si innalza e di chi cade; la topica del sogno tragico si distribuirebbe tra l’alto e il basso; esempi portati: dalla tragedia greca a (guarda caso) certi racconti di Kafka come Il cavaliere del secchio. Ma soprattutto questo Foucault esistenzialista non smette di dichiarare che in sogno noi sperimentiamo sempre la libertà, a prescindere dal carattere lieto o angoscioso di esso.
Non poco, per il futuro teorico della follia, del controllo e del pensiero del fuori.
Sempre più, nel nostro secolo e in quello precedente, la storia e la filosofia si sono scambiate le parti, hanno sperimentato la loro profonda affinità, hanno vorticosamente danzato. In questo vortice la psicanalisi rischia di essere travolta. Sempre più screditata sul piano epistemologico (essa, è vero, non riuscirebbe a passare l’esame di professori anche meno severi di un Karl Popper), viene d’altra parte attirata verso il luogo dell’arte da studi come quello di Jaques Rancière, che ha mostrato in modo molto convincente che il presupposto per la ‘scoperta’ freudiana dell’inconscio sia stato il formarsi del campo dell’Estetico, luogo dove pensiero e non pensiero possono coesistere (cfr. J. Rancière, L’inconscio estetico, a c. di M. Villani, Mimesis, Milano, 2016).
Ma della sorte della psicanalisi non è questo il luogo di parlare, né io potrei offrire oracoli certi – se non ispirato da un sogno profetico, di quelli che però, purtroppo, pare non si facciano più.