Speciale
Fuochi e altre “Apocalissi” / Mentre la Calabria brucia
Quest’anno i boschi in Calabria hanno bruciato come mai prima: quasi 8000 incendi – tutti dolosi – nella siccità estiva hanno mandato in fumo 1/6 di tutta la superficie forestale della regione, aree protette e parchi nazionali inclusi. La Sila e il Pollino bruciati per mesi, un lungo ininterrotto barbecue silvestre. Un olocausto verde, l’ustione più vasta di tutta l’Europa continentale.
Solo nel territorio silano, questa estate, ci sono stati roghi estesi dai 25 ai 40 kmq. A Longobucco (Cs), un unico incendio è durato più di quaranta giorni. «Quando si era sul punto di spegnerlo notavamo l’apertura di un altro fronte di fuoco, una strategia studiata a tavolino», dice chi era presente. Solo nei primi nove mesi dell’anno nella regione più ustionata d’Italia ci sono stati già più di 8000 incendi boschivi. La provincia più colpita è stata quella di Cosenza, con ben 413 kmq di aree percorse dal fuoco, l’equivalente di 60.000 campi di calcio, 45,8 kmq di boschi in cenere ogni mese.
L’aria plumbea che brucia i polmoni, il cielo basso, striato da una nuvola brunastra sospesa a mezz’aria. Una cappa uniforme e densa di fumo ha avvolto per mesi tutta la Calabria come in un sudario di fuoco. Si sente in giro odore di cenere, l’acre sensazione di bruciato che lasciano i roghi degli incendi appiccati ovunque. Quando faccio strade così certe volte guardo fuori dalla macchina e mi sento cercato, voluto da occhi che non ci sono. Abbasso il finestrino, entro nel paesaggio e ascolto il vento che sibila tra gli alberi, che fischia tra gli ostacoli. Si sente l’odore di cenere, il fumo, i resti anneriti del fuoco. Mi sembra che tutta la terra stia male e urli di dolore senza potersi sgravare di tutti questi pesi. Sì, è molto peggio del terremoto, delle frane, delle alluvioni ricorrenti, della natura indifferente che a furia di scossoni ha plasmato nelle ere questa terra sempre in bilico, che per secoli ha rifiutato di assoggettarsi alla soma dagli uomini, che è sempre stata indomita, una cosa sola col regno della natura.
I boschi qui non sono mai bruciati per autocombustione e comportamenti distratti. La montagna in Calabria è stata il regno dei mistici e dei briganti, il deserto spirituale dei santi ecologisti in fuga dal mondo e il rifugio preferito di furfanti e irregolari in lotta col potere. Quello della natura silvestre è un mondo ostile e tabuizzato, minaccioso ed estraneo ai più. La storia della Calabria dice che qui la gente non ama la natura che regna per sé. Le montagne che incombono incontrastate sui paesi dalla marina alla Sila fanno paura, e i boschi e le foreste un tempo fitte ed estese sono stati considerati sin dall’antichità un danno più che una ricchezza, «terra rubata» all’agricoltura. I tagli dei boschi per far legna e il debbio, l’incendio regolato di porzioni del manto forestale per far posto ai coltivi e ai pascoli, sono sempre stati praticati da contadini e pastori per limitare l’estensione delle superfici considerate improduttive. La storia della letteratura calabrese è costellata di incendi e fuochi appiccati, dal cupo romanticismo dei racconti silani di pastori e carbonai di Nicola Misasi («che il fuoco non si spenga»), fino all’incendio nell’oliveto che mette fine a Le baracche di Fortunato Seminara, per arrivare alla vendetta mafiosa che brucia i terreni della piana lametina nell’ultimo romanzo di Enzo Siciliano, La vita obliqua; spesso ciò che sta sulla terra è destinato ad ardere e a finire in cenere. Persino Cesare Pavese negli anni del suo confino a Brancaleone ha sentito avvampare sottopelle la forza del fuoco che serpeggia e cova nascosta nella metafisica di questi luoghi di Calabria al punto da trarne ispirazione per il suo romanzo Fuoco grande.
La più grande risorsa pubblica di questa regione, la terra e le aree protette, negli ultimi 50 anni è stata cancellata e immiserita in nome della speculazione continua e degli scambi incrociati del consenso. Il settore della forestazione in Calabria è un’altra delle piaghe dolorose della crisi civile di questa regione. Le inchieste sulla corruzione dei dirigenti sono all’ordine del giorno. Chi appicca i roghi delle aree verdi che ogni anno a centinaia divorano con ordine geometrico macchie e boschi in ogni contrada della Calabria? Non c’è forse una regia occulta anche per gli incendi che scoppiano ogni estate in questa regione in cui tutto ormai è occulto e trasversale? Chi ha interesse a bruciare, e perché? La colpa è – solo – della mafia? E gli speculatori che dopo i roghi incettano biomasse per le centrali, gli intermediari che a vario titolo si disputano fette di territorio per i loro comodi? E i costruttori senza scrupoli di nuovi slums abusivi, e i vecchi pastori di una perduta arcadia che fanno terra bruciata per ridurre i boschi a pascolo per pecore e capre? E gli stessi forestali, che (si dice sempre sottovoce) bruciano quello che loro stessi piantano per assicurarsi il lavoro sui cantieri di rimboschimento? Un dato soprattutto fa riflettere: praticamente tutti gli incendi di questa estate si sono sviluppati in prossimità delle centrali a biomassa – centrali elettriche che funzionano a combustione – disposte ad anello rispetto ai roghi. Si consideri che in situazioni normali non è possibile tagliare nemmeno un ramo all’interno dei parchi, mentre in caso di incendi si ottiene un permesso speciale per la potatura degli alberi. E in questi casi parliamo di alberi carichi di resina, cioè facilmente infiammabili. L’azienda che in Calabria si occupa dello spegnimento dei roghi è poi la stessa che è incaricata della bonifica delle aree incendiate: “Calabria Verde” (che con legge regionale 25 del 2013 ha sostituito le funzioni delle Comunità Montane). Altro dato anomalo registrato dalla Protezione Civile calabrese, è il boom di iscrizioni di nuove ditte boschive nate negli ultimi 5 anni. Non poche sono in odore di mafia. Di certo nessuno crede all’autocombustione, ai piromani isolati, ai fanatici del fuoco in gita di piacere, ai mozziconi gettati distrattamente dai finestrini. Forse il totale che assomma i fuochi che di estate su estate divampano incontrastati è il risultato di tutte queste scelleratezze messe assieme. C’è un bel mucchio di appiccatori di incendi dolosi conto terzi. In una regione in cui si ha sempre fame di qualcosa e si va dritti allo scopo con ogni mezzo lecito o illecito; non è una cosa improbabile.
Ma forse c’è anche un utile di significati simbolici da cogliere in tutto questo divampare di fuochi tra le montagne e i boschi calabresi. La montagna che si innalza coi suoi boschi verso il cielo, al contrario, è un luogo naturale di armonia e di pace, simbolo della ricerca della fede e dell’incontro con Dio, che in origine si manifesta ai viventi «su una montagna grande e alta» (Apocalisse 21:10). I mistici calabresi e molti santi – Gioacchino da Fiore, Bruno di Colonia e Francesco di Paola – sono stati montanari ed ecologisti ante litteram. Spiriti sensibili all’armonia e al bello naturale, erano uomini originari dei monti e asceti della vita silvestre. Vivevano da sapienti a contatto con boschi e acque, e da piante e animali traevano beneficio senza sopraffazione. I santi della Calabria amavano la natura frutto della creazione divina e le foreste ombrose e fresche di cui si erano fatti essi stessi custodi con monasteri e santuari incastonati tra i boschi e le valli. La nemesi del contemporaneo in Calabria sembra aver scacciato dalla memoria e dalla storia anche queste figure della cura, queste àncore religiose di sensibilità antiche, questa umile e saggia religione dei luoghi.
Tornando su un piano di realtà, nessuno più custodisce i boschi. Nessuno più sa come si fa. Non i forestali, non il Corpo Forestale (diventati Carabinieri, scarsi di mezzi e con poca esperienza), non i volontari-disoccupati delle squadre antincendio. Sapeva come farlo la gente di montagna. Una volta lo facevano i boscaioli e i «mannesi», gli operai forestali di un tempo. Sapevano tagliare le piante mature, e sapevano come trattare e accudire il fuoco nei boschi anche i carbonai: loro il fuoco sapevano appiccarlo e custodirlo, sapevano come controllare la fiamma e circoscriverne il pericolo dell’incendio nei boschi. Giorno e notte si «vegliava innanzi alla carbonaia che ardeva, mandando in alto le sue vampe tra nuvoli di fumo» (Nicola Misasi, «Capanna di carbonaio»). I carbonai vivevano per mesi alla macchia nei capanni, vigilando la carbonaia. Ardevano lentamente le loro pire fumiganti tra i querceti e le faggete; il carbone tornava utile, una risorsa estratta con sapienza dalla selva incolta andava così a regolare il giusto prelievo dalla natura selvatica. Era una forma di cura, una salvaguardia umana, produttiva e simbolica che ha conservato la Calabria verde, «la magna Sila, gran bosco d’Italia». Quest’anno invece non sono bastati i Canadair, le squadre di vigili del fuoco e gli interventi della Protezione Civile a mettere fine a questo scempio di roghi incontrollati che da anni fa olocausto dei boschi e dei monti della Calabria che brucia. La Calabria va a fuoco, in tutti i sensi. Il nostro è un mondo democraticamente caduto nella follia dei roghi autostradali e dell’olocausto incurante di boschi e foreste. Si bruciano i boschi secolari, si brucia la Sila, il Pollino, l’Aspromonte, si bruciano i parchi nazionali e le oasi naturalistiche da cui dovremmo, si dice tra l’altro, ipocritamente, saper trarre opportunità di sviluppo per un «turismo sostenibile».
Qui la tragedia della natura è il seguito degli altri disastri di una democrazia senza qualità, degenerata in abuso, governo caotico di un blocco di potere disordinato, tetragono e quasi privo di regole intellegibili. Uno di quei danni enormi, più o meno procurati, che affliggono questa regione ormai abbandonata alla deriva del peggio, in mezzo al caos dei tempi di adesso. Ma in questo caso si tratta senza dubbio di un olocausto inutile, di una distruzione senza purificazione, puro annichilimento di risorse preziose e irripetibili senza speranze di rigenerazione. Una prova della stupidità umana che ha in testa responsabilità politiche e sociali. Domani pagheremo di nuovo con le frane e con le alluvioni ciò che il fuoco ha distrutto in estate. Con il seguito dissimulato e peloso di pretese e lamentazioni rituali. La pianificazione del territorio in questa regione continua ad essere una piaga. Si costruisce ovunque, sparisce la campagna, il sacco del territorio favorisce l’espansione senza limiti. Il paesaggio è abusato senza soste, la bellezza dei luoghi stuprata di continuo. La natura stessa, in tutte le sue molteplici manifestazioni, resta cosa dissacrata, materia denudata a disposizione di ogni sfregio; res extensa, non più circoscritta da sapienze e pratiche tramandate e da un sentimento religioso che proviene dal passato e dalla spiritualità popolare.
«Anche quest’anno la Calabria ha mantenuto il primato che la vede guidare tra le regioni d’Italia la classifica degli incendi boschivi». Dichiarazione di fonte ufficiale che ho ascoltato anch’io. È notizia propalata dal giornalista di Rai 3 che legge il telegiornale calabrese nell’edizione di metà giornata. In ogni notorietà, per quanto folle e disprezzabile, c’è sempre il riconoscimento di una forma di rispetto. Anzi. Può acquistare significato in questa prospettiva l’interesse di Bataille per l’anormale e il proibito che preannunciano le sue fondamentali interpretazioni sul dispendio rituale, sulla profanazione e sulla trasgressione (L’erotismo, 1957). Anche la fenomenologia del dispendio e della perdita può venirci incontro per spiegare qualcosa che ha che fare con quel che succede ormai ogni anno, non solo in Calabria, con i fuochi e le distruzioni. La «dépense» è la parte maledetta con cui fare i conti, la prassi sociale di una «proprietà costitutiva della perdita». C’è nel fuoco che cova e incenerisce i boschi della Calabria (e del resto d’Italia, ormai) l’espansione sistematica di una diffusa cattiveria sociale. Qualcosa che serpeggia e si incista nella vita pubblica come una follia collettiva. C’è disprezzo e odio. Un odio per la natura e per la storia, un odio che si scatena contro la bellezza, i paesaggi, i beni pubblici indisponibili. In tutta Italia e non solo in Calabria oramai si consuma nel fuoco impuro di questi ultime estati una sotterranea pulsione di morte e di olocausto.
Lo sfogo di una follia autodistruttiva, un desiderio di distrugge e negare. È un odio cieco e feroce per se stessi e per la propria terra, una furia che tutto vuole annichilire, incenerire e consumare fino all’osso. Le spiegazioni strumentali e puramente causali non bastano più. Qui non bastano la mafia, i forestali, i fondi per i rimboschimenti da fottere allo Stato, la corruzione, l’odio per la natura e la malvagità sociale, tutto il resto di ragioni chiamate puntualmente in ballo per tamponare l’emergenza e il difetto di senso che si prova davanti a fenomeni così estremi, assurdi anche per il più sporco tornaconto. È forse più vero pensare che i fuochi, i roghi inflitti con ricorrenza pianificata a boschi e superfici forestali siano diventati oggetto di azioni complesse, dépense produttive/improduttive in grado di affermare una posizione di vantaggio/prestigio all’interno della logica sconsiderata ed incomprensibile del nostro modo di produrre economia e senso in un mondo «senza finalità», come dice Marc Augé. Il tema del luogo permane, apre a ciò che del mondo, e per ciascuno di noi, resta pur sempre diverso, estraneo, folle.
Dopo questo lungo giro infiammato sulle strade e sui monti della Sila, mi sento un po’ come Wim Wenders quando ha fatto i sopralluoghi che l0hanno convinto ad abbandonare il suo progetto di film sulla Calabria. Sfumata l’illusione salvifica del paesaggio ascetico celato nelle selve medievali, torno indietro e ripercorro in macchina l’imbroglio di strade nuove scavate tra le montagne di granito, strade che si incrociano e solcano la Sila e scavallano sull’Appennino, fino al Pollino verso Nord, fino alle Serre verso Sud. Tutte incassate come trincee di cemento armato formano una spirale infernale che scende a sbalzi in basso verso le coste tra i due mari, fin dentro il casino ubiquitario delle spiagge. Percorro questo tragitto come farebbe lui, Wenders, con lo sguardo stralunato dei suoi film inquieti e commossi; il mio è rivolto verso l’altrove vicino, le periferie corrose della città provinciali della Calabria di adesso. Oltrepasso le carcasse dei paesi smunti di abitanti e rigonfi di insegne e di lussi meschini; affronto l’oltraggio del suburbio senza nome, il chiasso dei raduni estivi, i fuochi che divampano, le campagne spoglie, le terre revocate.
Poi c’è la malavita e il malaffare che mettono radici e sentinelle dappertutto. Nella vita amministrativa, nel giro dei soldi, nell’economia di carta, a volte inspiegabile. A San Giovanni in Fiore, capitale della Sila cosentina, il più grosso dei 282 comuni montani e dell’Appennino italiano situato al di sopra dei mille metri di quota, popolazione di emigrati ed ex braccianti, blocco sociale superassistito e sussidiato sin dal dopoguerra, in un paesone che fa 2700 pensionati e 8000 disoccupati su 17.500 abitanti (in calo costante dal 2000, quando erano quasi 20.000), se girate per il centro potete contare con sorpresa che vi si trovano aperte solo dieci macellerie. Ma tra concessionarie di lusso e vetrine di autosaloni si arriva alla cifra di ben venticinque esercizi aperti. Attraversando queste plaghe di vita intermittente, di vita opaca e di desolazione appenninica post-urbana, si guadagnano anche icone di un’umanità più genuina. C’è ancora qualche buon forno per il pane e i dolci della tradizione, botteghe rinomate di artigiani orafi e una bellissima scuola per la tessitura di stoffe tappeti tradizionali famosa in tutto il mondo. Ho studenti e amici di San Giovanni. Ci sono le facce e la voce della buona gente che vive qui, sulla breccia di un presente incupito dalla desolazione e dalla noia, fatto emigrazione – un’emorragia inarrestabile di giovani – e una sopravvivenza da poveri, senza più ospedali né scuole, sussidiati ma in modo sempre più scarso. Persone che non resistono e vanno via, ce ne sono tante. La Calabria dei monti perde i pezzi, paesi interi spariscono. È l’antropogeografia dell’ultimo Appennino e dei suoi profughi interni, la Società sparente, come nel titolo del libro-inchiesta che un giovane giornalista di San Giovanni in Fiore, Emiliano Morrone, ha dedicato qualche anno orsono al racconto di una fuga generazionale da questi paesi della Calabria interna. Una nuova emigrazione. Un esodo finale sconsolato, doloroso, e nondimeno necessario.
A san Giovanni in Fiore, patria del millenarismo pauperista e della spiritualità utopistica del pensiero Gioachimita, c’è anche un bellissimo Museo Demologico intitolato all’etnografo Raffaele Corso.
Ci lavorai che ero studente. Oggi è ancora lì, all’interno di un’ala della magnifica abbazia Florense, ma è quasi deserto. Da queste parti ormai nessuno ha più le facce omiletiche delle popolane in costume e i sembianti frastornati e malnutriti dei contadini e dei braccianti silani immortalati negli scatti della collezione di Saverio Marra, un meraviglioso fotografo di San Giovanni in Fiore morto nel 1978, pioniere della fotografia sociale. Le foto e i ritratti di Marra, di cui resta un lascito di 2500 lastre, una cinquantina in esposizione permanente al museo, stanno alla storia della gente comune di questo altopiano e alla fotografia come Mike Disfarmer sta ai più famosi ritratti dei suoi miserabili paesani dell’Arkansas e agli sbandati fotografati ai tempi della Grande Depressione americana.
Se Marra ritornasse in vita a fare i suoi ritratti ai compaesani di San Giovanni in Fiore oggi ne fotograferebbe la mutazione antropologica impressa nei sembianti come una sorta di geroglifico postmoderno. In giro per il paesone di San Giovanni ci restano i condannati allo sperpero di sé, i disoccupati e i reduci dall’abbandono del paese spopolato: vecchi che chiacchierano con giovani cassiere di un supermercato per guadagnare un po’ di fresco e di tempo alla solitudine, bariste e commesse di negozi che ti guardano con insistenza dal bordo di una strada e forse sognano un amore di passaggio che le strappi dalla noia, certe facce interroganti di bambini incollate al lunotto delle auto dei forestieri, gli emigranti di ritorno con le targhe svizzere e belghe che girano per andare a trovare i parenti di ritorno al paese per le ferie d’agosto. Sono volti, incontri fortuiti, in spazi che non si coniugano né al passato, né al futuro. C’è solo un presente provvisorio, senza nostalgia né speranza. Il disordine edilizio e sproporzionato del paese nuovo che dilaga sui bordi scuri dei boschi di abeti silani, segna il confine malcerto di una sorta di istantaneo “time out” della storia e della vita di adesso.
Su queste strade di montagna della Sila Grande nel paesaggio si aprono spazi vuoti che sembrano spinti dai risucchi incostanti di una corrente d’aria. Vado avanti e frugo con gli occhi dentro lo scompiglio che mi si fa intorno. In alto le creste bruciate dei gruppi montuosi, rocce tutte diseguali. Sotto la macchia sgretolata dei paesi e delle case lambite dalla superstrada. La montagna che sale ripida come un ascensore alle spalle delle case vecchie e nuove resta una presenza imminente. Il frammento più nobile e potente rimasto in piedi di una natura dispotica, che qui limita lo spazio, restringe la vista e spinge verso paesaggio il bordo, mandando tutto a precipizio verso il mare. Una volta che intervistai Predrag Matvejevic, quando gli ricordai che io venivo a incontrarlo dalla Calabria, mi disse: “la Calabria è una terra strana, in realtà è quasi un’isola, una passerella alta e stretta tra due mari, la strada interrotta verso la Sicilia, l’ultimo bivio dell’Europa che prepara il salto verso il Mediterraneo profondo. È una terra di confine, uno di questi posti che viene sempre prima o appena dopo che ci si lascia tutto alle spalle. Ma il mare da voi è così vicino alle grandi montagne dell’Appennino, più che in tutto il resto d’Italia, e quasi ti viene incontro da tutti i lati. La montagna scura e il mare che vi specchia ed è vicino a tutto, così anche il paesaggio ha qualcosa di dilagante, inarginabile. Il Mediterraneo illumina anche le montagne, porta il sale delle onde fin dentro ai boschi, alla grandezza della Sila. Mi piace la Calabria, c’è più vita, e c’è più disordine in posti così. Per me conta molto, è importante il disordine. È una cosa salutare”.
Solo il reticolo asfittico di vecchie provinciali e strade comunali che si diramo come vecchi gomitoli di spago dalla vena pompante della 107 Silana-Crotonese, la superstrada che dalle due coste si inerpica veloce verso il centro della Sila e l’interno dell’altopiano, per ora sembra essersi salvato.
Ci sono punti del paesaggio in cui le cose sembrano ristagnare. Piccoli luoghi rimasti così com’era prima che tutto cambiasse accelerando, scollato dal disordine calabro-meridiano “dilagante e inarginabile” che piaceva tanto a Matvejevic. Da queste parti il salto dello spazio corrisponde ancora a un salto nel tempo. Un groviglio di stradine secondarie, spesso semiscassate da frane e incuria, che menano a contrade silane di gran fascino come i resti dell’antica Acerenzia o di Jure Vetere dove sono visibili in totale abbandono le tracce del cenobio della più primitiva comunità gioachimita, e richiami spirituali come Monteoliveto e San Bernardo che riportano ad altre impronte gioachimite sparse sull’altopiano. Piccoli nidi di montagna dai nomi lindi e profumati come Valle Piccola, Cuturelle, Caporosa, Fantino; poi Torre Garga, Righio, Germano, Silvana Mansio, gli sparuti villaggi della Riforma Agraria composti di poche case in semioscurità. Contrade e minuscole frazioni di una Sila gentile, ancora addormentate nel sopore contadino delle vecchie case rurali dai camini sempre fumiganti, ingentilite dai panni messi ad asciugare al vento, con un cane che sonnecchia davanti all’uscio di legno, un orto pettinato dalla zappa, i fiori colorati che crescono rigogliosi nelle vecchie tinozze di zinco. Poi, dopo un’ultima ansa del tempo la strada si cancella fino a diventare una serpe nera e avvolta d’ombre come dentro al bosco delle favole.