Speciale
Due modi della guerra / Ucraina: i guerrieri e i sacerdoti
1. Sono passati tre mesi da quando è iniziata l’aggressione russa all’Ucraina, e le nostre percezioni del conflitto si sono evolute. Abbiamo maturato la convinzione che nel 2022 il mondo sia entrato in una nuova epoca, e stiamo tentando di comprenderla: ci hanno aiutato le informazioni e gli approfondimenti di alcuni quotidiani, che si mantengono a un livello decisamente apprezzabile; i tre numeri di “Limes”, il primo dei quali, a marzo, si intitolava per l’appunto “La Russia cambia il mondo”; alcuni libri recenti, pubblicati a ridosso della guerra, e dei quali possiamo valutare la serietà e la lungimiranza.
In una fase di riflessione, la memoria si allarga al passato: da un lato, il ragionamento analogico rimane essenziale per l’analisi degli avvenimenti storici e politici, benché lo si debba usare tenendo conto delle differenze; non uno storico, ma un poeta, Coleridge, ha detto giustamente che nessuna analogia cammina su tutte e quattro le gambe; dall’altro lato, la riflessione va a interrogare i contributi di autori come Nietzsche e Freud sul problema dell’aggressività tra gli esseri umani. Iniziamo con Nietzsche, e con il dissolvere persistenti equivoci. Come ci ha spiegato Heidegger (1960), agli occhi di Nietzsche non è la guerra, bensì l’arte, a costituire la forma suprema della volontà di potenza; ma facciamo finta di dimenticarlo. Non dovremmo dimenticare, invece, che per Nietzsche non esiste “la” volontà di potenza, bensì il conflitto, nella volontà, tra forze attive e forze reattive.
Questa distinzione, su cui è imperniata tutta la Genealogia della morale (1887), non è semplice da chiarire: in ogni caso, si tratta di una distinzione tipologica, e non empirica. Nell’empiria, nella realtà concreta, i due tipi di forze sono sempre mescolati: il che non rende trascurabile la dominanza di un tipo di forze sull’altro in un singolo individuo, o in un popolo, considerato in un determinato momento storico. Le forze attive, e dunque gli individui in cui esse prevalgono, dicono “sì” alla vita, e anzitutto a se stessi; negli individui reattivi, invece, domina il “no” – e il “no” è la loro unica forza creatrice. Questa prima definizione è troppo vaga? Certamente. E chi legge Nietzsche senza interpretarlo, prendendo alla lettera alcuni suoi enunciati, non può che continuare a scandalizzarsi (benché le letture di destra siano ormai anacronistiche; è superfluo rammentarlo?).
Facciamo un passo in avanti, verso la zona di massima ambiguità. Nelle società occidentali si sarebbe svolta una lotta tra la morale dei signori e quella degli schiavi: da un lato la forza esuberante, la salute, l’autonomia, dall’altro la malattia, e in particolare il rancore. È dal rancore e dall’impotenza che nasce la patologia del “risentimento”: a partire da Nietzsche, questa nozione è diventata irrinunciabile. Chi non ha familiarità con la sua filosofia si trova adesso di fronte a una sorpresa, perché l’uomo del risentimento non è necessariamente qualcuno privo di potere. Anzi, nella sua versione suprema, l’uomo del risentimento è un dominatore: è il prete, come figura storica del cristianesimo occidentale. Figura storicamente determinata, vale la pena di ribadirlo a scanso di equivoci: nessuno come papa Francesco è più lontano da questa figura, che si può imporre anche in una versione laica. Se vogliamo comprendere chi sia un prete per Nietzsche, oggi non dobbiamo pensare al patriarca Kirill, bensì a Putin.
2. Ancora un chiarimento prima di continuare. Dalla distinzione tra forze attive e reattive deriva quella tra i guerrieri e i sacerdoti; ma, lo ripeto, questa distinzione è tipologica, serve a cogliere una dominante, e non delle incarnazioni pure. Senza dubbio esistono, almeno in letteratura, individui che si avvicinano molto all’ideale del guerriero: gli eroi dell’Iliade, per esempio. E nella storia? Il termine guerrieri potrebbe venir riferito a personaggi che hanno agito in base a una sovrabbondanza di forza: Alessandro Magno, Napoleone. Le guerre condotte da individui “superiori” (nell’accezione di Raskol’nikov, in Delitto e castigo) hanno causato morte e distruzione; dal punto di vista etico, niente può assolverle. In questo momento sto cercando di chiarire una distinzione, che forse è applicabile soltanto a un tempo mitico, come quello dell’Iliade; e forse è valida solo per i difensori. Come denominare diversamente i soldati greci a Maratona, in una battaglia che secondo Max Weber ha reso possibile la libertà occidentale e la sua straordinaria cultura?
Dalla metà dell’Ottocento, almeno, la figura del prete si è laicizzata e si è estesa all’ideologo militante, la cui visione della società e della storia consiste in pochi slogan, aggressivamente e ossessivamente ripetuti. L’ideologo è una figura del risentimento. Non che gli manchi qualche buona ragione, naturalmente: in ogni delirio, ha detto Freud, c’è sempre qualche elemento di realtà. Consideriamo allora le colpe che l’Occidente avrebbe accumulato nei confronti della Russia, e che potrebbero fornire motivazioni alla guerra in corso.
In questo periodo molti di noi si sono chiesti, cercando di essere obiettivi e onesti, se davvero la guerra voluta da Putin sia stata almeno in parte causata da legittime preoccupazioni di sicurezza, derivanti dall’espansione a Est della Nato. Come ci è stato ricordato, l’America e i suoi alleati avrebbero compiuto un atto di tracotanza, infrangendo tra l’altro la promessa fatta a Gorbaciov, in base alla quale l’Alleanza non si sarebbe allargata “di un pollice a est”, vale a dire a est della Germania. Ma questa diagnosi è adeguata? Non dovremmo avere un quadro più ampio?
Chiediamoci pure se, dopo il 1991, è stato fatto abbastanza per accogliere la Russia in una “casa comune” europea/occidentale. Sembra difficile negare che siano stati compiuti gesti importanti: nei primi anni dell’amministrazione Obama, tra il 2009 e il 2012, le relazioni tra Stati Uniti e Russia furono buone; venne firmato un trattato contro la proliferazione nucleare; fu decisa l’adesione della Russia all’Organizzazione mondiale del commercio (World Trade Organization). Buoni furono gli effetti sull’opinione pubblica: nel 2010 i sondaggi indicavano che il 60 per cento dei russi aveva un’immagine positiva degli Stati Uniti (Federico Rampini, Le linee rosse, 2017 e 2022, pp. 102-103).
Eppure l’ingresso nell’Alleanza atlantica da parte di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca era già avvenuto, nel 1999; nel 2004 avevano aderito all’Alleanza i paesi baltici, più Bulgaria, Romania, Slovacchia e Slovenia. Come mai in quel periodo i Russi non percepivano alcuna minaccia da parte dell’Occidente? Evidentemente, il buon senso faceva comprendere che poco o nulla era cambiato. In un mondo nel quale esistono i missili intercontinentali la vicinanza geografica ha perso gran parte della sua importanza, dal punto di vista militare. Negli stessi anni, però, Putin iniziava a formulare una visione revanscista, progettando di riportare la Russia ai confini dell’ex Unione Sovietica. Cominciava a prendere vita il discorso della Russia umiliata e, soprattutto, nasceva il discorso relativo alla perdita di territori ritenuti essenziali, non dal punto di vista della sicurezza, bensì nella prospettiva politico-sacerdotale.
Il 12 luglio 2021, Putin ha pubblicato un articolo “Sull’unità storica di russi e ucraini” in cui afferma l’esistenza – virtuale, dunque reale e necessaria – di un solo popolo: la nazione russa, una e trina. “Un solo popolo in tre vesti: grande-russa, piccolo-russa (ucraina) e russo-bianca (bielorussia). Ogni riferimento alla Santissima Trinità è voluto”. Sto citando l’editoriale di Lucio Caracciolo, Limes 2/2022, che continua così: “La dimostrazione del teorema putiniano si vuole lineare. Fondamento della trinità russa, insieme al cristianesimo ortodosso, è la lingua, forma della cultura comune” (p. 24).
Trent’anni fa, quando George Bush padre poteva dire “La guerra fredda non è semplicemente finita. No, è stata vinta”, tutto ciò non era immaginabile. O forse sì. Vi è stato in effetti un atteggiamento di hubris da parte dell’Occidente nei confronti della Russia, ma che non riguarda l’ampliamento della Nato, bensì l’illusione di una “fine della storia”. Ci si è illusi a tal punto da risolvere il problema dell’arsenale atomico sovietico, che era concentrato in Ucraina, affidandolo alla Federazione russa: nel 1994 sono stati consegnati a un ex nemico ritenuto ormai inoffensivo, e per sempre, molti dei missili di cui oggi Putin dispone e con i quali ci minaccia.
3. Si dice che la storia non si fa con i se e con i ma; e in parte è vero. Nondimeno, evidenziare i “se” e i “ma” permette di riflettere sugli errori che vengono compiuti. Perché tra la Russia e l’Occidente si è riaperto un baratro? Perché tutti i gesti di coinvolgimento, che ho menzionato solo in parte, sono stati cancellati? Qualcuno ha osservato che nell’Ottocento la Russia era un paese europeo, ma che dopo il periodo comunista è diventato e rimane un paese prevalentemente “asiatico”. Insomma, rimangono differenze culturali che l’uomo del risentimento ha saputo sfruttare.
Tra le cause delle guerre vi è l’incapacità di elaborare un lutto, una perdita: questa la tesi sviluppata da Recalcati, e che appare senza dubbio pertinente in relazione ai territori perduti, tra cui l’Ucraina. La psicoanalisi designa tale incapacità come melanconia. Freud aveva rilevato in questa patologia un delirio autoaccusatorio: il melanconico si rimprovera al di là delle sue colpe con un furore aggressivo, rivolto contro se stesso (almeno in superficie). Nell’attuale revanscismo russo, come in altre situazioni, la colpa viene invece diretta verso l’esterno: “è colpa tua”, suona così l’enunciato in cui non c’è soltanto melanconia, ma rancore e invidia. È questa la miscela del risentimento, oltre a un senso di impotenza che scaturisce dalle forze reattive, e non riguarda necessariamente i rapporti tra gli eserciti.
L’invidia, come ha osservato Lacan, non è la gelosia: è il desiderio che l’altro non abbia ciò che non possediamo, e di cui tuttavia non sapremmo che farcene. Nella sua grande opera Decadenza e caduta dell’Impero Romano (1776-1789), Edward Gibbon menzionava il comportamento di alcuni gruppi nomadi che tagliavano il braccio destro ai contadini, così che non potessero più usare l’aratro: uno strumento di cui loro, i nomadi, non avrebbero saputo servirsi. Ecco un esempio di violenza invidiosa. Quello che Putin non poteva tollerare ai confini della Russia non è un paese che fa parte della Nato, ma un popolo che negli ultimi anni ha mostrato un’accelerazione verso i valori, la libertà, la democrazia, e lo stile di vita dell’Occidente. In questa svolta c’è stato davvero qualcosa di imprevisto, così come imprevista, per Putin, è la resistenza degli Ucraini. Tutto questo non corrisponde forse a ciò che Žižek chiama evento? Un effetto che sembra eccedere le proprie cause.
La determinazione di Putin nasce dall’ideologia - e dal risentimento: una nozione irrinunciabile, ma che può venire distorta come ogni altra nozione. Ecco un esempio, basato su un’argomentazione che probabilmente verrà ancora utilizzata nei prossimi mesi, e che quindi vale la pena di esaminare: su “La stampa” del 20 aprile, un articolo di Domenico Quirico affermava una simmetria tra i due leader, se non tra i due popoli: la guerra continua perché entrambi, Putin e Zelensky, aspirano alla vendetta. Una tesi sbagliata e agghiacciante, formulata proprio nei giorni in cui la Russia stava iniziando nel Dombass una seconda offensiva che è poi proseguita ininterrottamente. Forse nell’articolo di Quirico vi è un cascame della concezione di René Girard, secondo cui il motore della storia è la reciprocità mimetica: la violenza sarebbe un impulso irrefrenabile e contagioso, a cui potrebbe sottrarci solo la fede cristiana.
Fortunatamente non è così. Non è vero, come vorrebbe il fanatismo simmetrico di Girard, che in una guerra “è sempre difficile capire chi attacca per primo: in un certo senso è sempre colui che non attacca!” (Portando Clausewitz all’estremo, 2007, p. 47). E non è vero che l’essenza della guerra sia la violenza costretta alla continua escalation, anche se questa è ovviamente una possibilità. Nella sua lettura rozza del Vom Kriege, Girard attribuisce a Clausewitz una concezione “essenzialista” della guerra, votata agli estremi; in realtà, per Clausewitz la guerra è un fenomeno privo di essenza, e che oscilla tra forme più o meno violente, condizionate dalla politica. Ma una guerra ideologizzata, come quella voluta da Putin, che vorrebbe “de-nazificare” l’Ucraina, non poteva non essere una guerra feroce, in cui vengono autorizzate le peggiori violenze contro i civili.
Il fenomeno del risentimento non nasce e non può venire sorretto soltanto dalla propaganda: per quanto riguarda questo conflitto, esso affonda le sue radici in quella che è stata chiamata “la Russia eterna” (è il titolo di un libro di Luca Gori, 2021): una miscela di nazionalismo e conservatorismo, che si alimenta nella mitologia della propria unicità storico-culturale. La Russia eterna è quella della “terza Roma”, della missione slava, che in una superpotenza (militare) paradossalmente fragile (il PIL della Federazione russa è pari a quello della Spagna) trova un terreno favorevole.
Non sappiamo se l’Ucraina continuerà a resistere: sul piano militare, le armi fornite dall’Occidente rendono improbabile una sconfitta (con i missili antinave “Harpoon” inviati dalla Danimarca siamo in grado di affondare l’intera flotta russa, hanno detto gli Ucraini il 28 maggio). Verosimilmente Odessa non cadrà, e neanche Kiev; ma la sola “vittoria” possibile è la resistenza, da cui derivano enormi sofferenze, destinate a crescere, per tutta la popolazione; agli aspetti militari vanno sommati infatti quelli economici.
In ogni caso, non sarà il pacifismo e non sarà la debolezza a placare l’aggressore. Una cattiva potenza può essere contrastata, se non sconfitta, soltanto da una buona potenza. Soltanto i guerrieri ci possono difendere dai sacerdoti.