Speciale
Cose necessarie e difficili
«Le cose che la letteratura può ricercare e insegnare sono poche ma insostituibili: il modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto della morte, il modo di pensarci o non pensarci; la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo e tante altre di queste cose necessarie e difficili».
Qual è il posto della letteratura nella nostra società? C’è qualcosa che solo la letteratura può fare, qualcosa che la rende insostituibile? Si può pensare che la letteratura ‘serva a qualcosa’ senza per questo ridurla a un ruolo ancillare? A trent’anni dalla morte di Calvino, mi pare che il suo lavoro di ricerca e sperimentazione attorno a queste domande sia l’elemento più forte della sua eredità. La citazione di apertura è tratta da Il midollo del leone: nata nel contesto del dopoguerra e della militanza comunista, la riflessione sulla letteratura è, in origine, insieme un richiamo all’engagement e una difesa della differenza specifica del fare letterario contro il documentarismo di tanta letteratura engagée come contro l’anti-intellettualismo proclamato dall’estetica sovietica.
L’allontanamento dal PCI e la svolta cosmicomica, se spostano l’accento e modificano i toni degli interventi calviniani, non pongono però in secondo piano questo nodo di questioni. Critici come Marco Belpoliti (L’occhio di Calvino), Pierpaolo Antonello (Il ménage a quattro), e Massimo Bucciantini (Calvino e le scienze) stanno tornando a porre l’accento sul valore epistemologico che l’autore attribuisce alla letteratura; la teorizzazione che Calvino porta avanti in questa direzione è (anche) una risposta alle domande dei primi anni Cinquanta sul ruolo della letteratura, un tentativo di definire le “poche ma insostituibili” cose che la letteratura può insegnare, articolando e precisando l’elencazione effusiva del Midollo. Già negli anni Sessanta Calvino suggerisce che la letteratura possa servire da modello allo scienziato, “come esempio di coraggio nell’immaginazione, nel portare alle estreme conseguenze un’ipotesi” (Due interviste su scienza e letteratura). Nel corso degli anni Settanta tale rapporto viene teorizzato in modo più sistematico e ardito. Tra Lo sguardo dell’archeologo e I livelli della realtà in letteratura, la pratica letteraria e la riflessione su di essa divengono paradigma per l’indagine scientifica e, più in generale, per la costruzione del sapere.
In questo senso, mi pare, l’ambizione di Calvino ci interessa oggi: è ormai banale (ma non per questo meno vero) dire che viviamo nel tempo della marginalizzazione del sapere umanistico, sempre più assente nel discorso pubblico, accantonato nella formazione, disdegnato rispetto ad altri saperi tecnici o scientifici. Un’assenza – vale la pena di ribadirlo – in cui non si può non rilevare una componente di snobistica automarginalizzazione: dal disinteresse a ingaggiare un serio dialogo con la scienza alla chiusura di una cultura che torna a essere sempre più elitaria, intellettualistica, sganciata dalla realtà sociale, politica e storica.
Sul fronte del dialogo con gli altri saperi un contrattacco c’è (soprattutto, direi, in ambito americano), ma c’è anche il rischio che i dialoghi della letteratura con la medicina, la scienza, l’economia o la giurisprudenza siano costruiti su premesse generalizzanti (che cosa, esattamente, hanno in comune tutte le humanities?) o su una concezione riduttiva di quello che la letteratura è e ha da dire. La letteratura è un paradigma per la costruzione del sapere – ci dice Calvino – non tanto perché ci insegna l’empatia, o perché ci mostra che tutto è narrazione, quanto per il tipo di rapporto che essa instaura con la realtà. A questo proposito mi pare che abbiano ancora molto da dire le discussioni attorno al progetto della mai realizzata rivista «Alì Babà». Nel contesto del dialogo con Neri, Celati, Ginzburg e Melandri, per Calvino la letteratura diventa modello per la conoscenza perché è caratterizzata dalla consapevolezza di costruire ipotesi di interpretazione della realtà instabili e non definitive, ‘mappe’ non vere ma funzionali a muoversi nel mondo, a lottare e sfidare il labirinto.
Vista in questa prospettiva, la rilevanza della letteratura va ben oltre il rapporto con la scienza e la filosofia: la letteratura serve alla vita, alla lotta, alla costruzione della società. Non a caso la riflessione e la pratica di Calvino si sviluppano in un contesto come quello dell’Einaudi, la cui identità è costruita attraverso scelte forti, di libri che siano coerenti con una specifica identità politica e culturale e che, pur non essendo magari definitivi (o del tutto condivisibili), servano, si inseriscano nel panorama culturale italiano suscitando un dibattito. È una morale editoriale che, oltre che dalle scelte di pubblicazione, emerge dai paratesti. Dai risvolti dei «Gettoni» in cui Vittorini attacca i libri che ha scelto di pubblicare, all’Avvertenza de Il fiore del verso russo in cui Pavese si interroga senza arrivare a una conclusione sulla condanna poggioliana di un’estetica di Partito, sino alle discussioni dei primi anni Settanta sul modo in cui va presentato Céline: il principio continuamente ribadito è che il lettore debba essere coinvolto in un dibattito aperto, che spetta all’Editore aprire ma non predeterminare.
Il discorso ritorna sul secondo fronte dell’automarginalizzazione di tanta parte del sapere letterario che si chiude su se stesso, che constata l’insipienza di chi dovrebbe gestire la cosa pubblica o l’ignoranza delle masse solo per ritirarsene sdegnata (le masse: la sola parola evoca scenari di trite polemiche veteromarxiste. Ma davvero non ha più senso parlare in questi termini?). Calvino scommette sulla possibilità di parlare a un pubblico ampio, ‘di massa’, su una letteratura che aspira a essere rilevante, ad avere qualcosa da dire anche al lettore più ingenuo, ma che allo stesso tempo rifiuta di educarlo.
Alla radice di tale atteggiamento ci sono il rispetto e l’ammirazione per gli altri, quelli che lavorano e lottano nel mondo non scritto. Come non citare ancora il Midollo? “Ma non possiamo sopportare la sufficienza, il cinismo freddo, lo sguardo di chi sa tutto e non si brucia, di chi non rispetta e ammira il fare, l’ardire, il durare degli uomini e delle donne”. C’è anche, però, la convinzione che la letteratura sia qualcosa di necessario per questo fare e questo ardire e che “la paura per le cose scritte è una deformazione professionale degli intellettuali, che vogliamo lasciare tutta a loro”. Se le parole sono ancora del Midollo, il principio viene riproposto a più di dieci anni di distanza in Per chi si scrive?: “l’antiletteratura è una passione troppo esclusivamente letteraria per essere all’altezza dei bisogni culturali attuali”.
Proprio in virtù di quelle “poche ma insostituibili” cose che può ricercare, la letteratura a cui ambisce Calvino non ha bisogno di rincorrere la scienza e la tecnica ma può avere un ruolo determinante nel loro sviluppo, e sa avere un impatto sulla realtà anche senza rappresentarla (e anzi, proprio perché rinuncia a rappresentarla direttamente). In questo senso, mi pare, Calvino lascia aperta una sfida che vale la pena di raccogliere.
Chiara Benetollo è dottoranda in Letterature Comparate all’Università di Princeton. Ha studiato alla Scuola Normale Superiore e all’Università di Pisa, laureandosi con una tesi sull’Einaudi e la letteratura russa e sovietica tra gli anni Cinquanta e Settanta. Si occupa della ricezione della letteratura russa in Italia, di Calvino e di traduzione.