New York, l’anima nella fotografia
Se vi è capitato, come al sottoscritto, di raccontare a chi incontravate che presto avreste visitato New York, o magari di essere rientrati da un viaggio recente nella città che non dorme mai, avrete una misura della frequenza straordinaria con cui le conversazioni in merito attingano al contenitore marchiato dall’etichetta “Cinema”. Non occorre una riflessione granché eccezionale per asserire che, del resto, il mondo cinematografico (e, negli ultimi anni, quello delle serie tv che, in molti casi, al cinema stanno rubando il mestiere) si sia dedicato con tanta dedizione a New York City da formare il nostro immaginario a essa relativo, in altre parole: quando andiamo a New York – leggi: Manhattan – ci aspettiamo di riscoprirci al centro del centro del mondo per come ce l’hanno raccontato i grandi film. Eppure, gli esempi del fatto che New York sia probabilmente la città più fotografata sul pianeta sono innumerevoli e privi di soluzione di continuità, come raccontano la raccolta, curata da Marla Hamburg Kennedy, New York: a photographer’s city (Rizzoli USA 2011) o il recente lavoro di Gabriele Croppi, New York. Metafisica del paesaggio urbano (Sime Books 2014), pubblicato con la partecipazione di Kennedy stessa; vien fatto di pensare che l’anima della Grande Mela (o, quantomeno, una delle sue anime più intime) stia nella fotografia.
La sensazione si alimenta dell’attraversamento che, finalmente, si compie di questi luoghi, letteralmente spettacolari, percependo istantaneamente l’attrazione magnetica che essi esercitano sulla rappresentazione, la tendenza che essi inoculano alla testimonianza dello spettacolo, appunto. Le fotografie che ho avuto l’intenzione e la fortuna di osservare durante la permanenza in città sono impossibili da enumerare, ma di alcune si conserva una rimanenza, da qualche parte dietro la retina. La prima non era stata ancora scattata quando sono arrivato, ed è scomparsa subito dopo essersi mostrata per qualche breve istante. Uno dei ciclopici schermi a uso pubblicitario di Times Square recitava un copione sempre uguale, e senza pause tra uno spettacolo e l’altro: mostrando per una decina di secondi il risultato dell’inquadratura di una camera, disposta da qualche parte sullo stesso edificio, invitava i passanti a una posa collettiva (invito che veniva naturalmente accolto con festoso entusiasmo) e infine giungeva lo scatto, la fotografia della folla, l’arrivo a Manhattan era stato suggellato. E subito era svanito, per occuparsi di qualcun altro arrivato nel frattempo.
Era venuto il momento di scandagliare, un passo via l’altro sulla Highline, il tessuto artistico più vivace di Manhattan, il panneggio che ha deciso di punteggiare la trama e l’ordito della topografia con un numero impressionante di gallerie d’arte, il quartiere di Chelsea. Una nota di candido stupore la suscita immediatamente la Benrubi Gallery, dedicando l’esposizione postuma di Fernand Fonssagrives alle sue Light Perspectives: il fotografo francese, che lavorò con le più grandi pubblicazioni di moda e lifestyle e pure mantenne intonso il proprio spirito libero, fu uno dei più straordinari osservatori e narratori per immagini della bellezza. Il lavoro di Fonssagrives è stato celebrato da numerose mostre, dopo la morte nel 2003, e queste Prospettive di luce sono un’ode trionfale al corpo femminile e alla potenza che ne fa, probabilmente, un oggetto fotografico così eminente: questi scatti mostrano come i corpi sappiano radunare intorno e su di essi le luci e, inevitabilmente, le ombre e proprio questa dimostrazione che l’occhio fotografico ci propone fa dei suoi prodotti non soltanto dei meri giochi di studio ma, appunto, delle prospettive, dei punti di vista, delle vigorose dichiarazioni di intenti.
Per visitare un altro mondo basta attraversare una soglia, non serve cambiare galleria; Encouble di Delphine Burtin è lo spiazzamento dell’oggetto che scava una via d’uscita dalla sua quotidianità e si trova scomposto, deterritorializzato, improvvisamente unico e, pur fotografico, irripetibile. Linee spezzate spezzano le cose e le fanno diventare altre; accostamenti improbabili convincono la statistica della loro possibilità con la semplice forza del loro apparire; di nuovo: una mostra che è un gioco e, in quanto tale, è quanto di più serio possa esserci.
Questa definizione mi balena dietro la tendina dei pensieri portando con sé, pressoché nello stesso istante in cui torno in strada, la consapevolezza che si potrebbe adattarla senza fatica alla città stessa, non è una coincidenza se questi artisti si mostrano qui e ancora meno mi sorprende che, a pochi passi dalle prime, si trovino altre due mostre fotografiche che, stavolta esplicitamente, esaltano New York e aggiungono altri tasselli al mosaico dell’anima di cui sopra.
Ospitate nella suggestiva Steven Kasher Gallery, troviamo Long Stories Short di Jill Freedman e The City Beside You, The City Inside You di Leo Rubinfien. La sensazione di aver trovato ciò che si cercava si fa, in queste stanze, concreta ed evidente. Si fa fotografia, stampata, rappresa. Accostamento ideale, quello tra le due mostre, nella misura in cui sprigiona la loro energia temporale, il modo peculiare con cui esse – le fotografie in esse raccolte – studiano il tempo, lo manipolano, lo riavvolgono e lo svolgono riassestato, rimontato.
Long Stories Short tiene lo sguardo fisso sul passato, ma non lo immobilizza, anzi, lo lascia vibrare vorticosamente lungo i margini, quelli della Storia, dove stanno i suoi sconfitti e i suoi emarginati, i suoi personaggi minori che, invece, sono i protagonisti indiscussi delle storie, quelle plurali, quelle minuscole. «Mai rovinare una bella storia con la verità», recita l’adagio; Freedman sembra voler aggiungere: «Del resto, la verità nelle storie non c’è affatto, e per fortuna».
Questa rassegna di scatti, narrazione dalla morfologia mutevole, attraversa lo spazio e il tempo guardando all’indietro, scambiando un’occhiata con la morte attraverso i soggetti ritratti e dando le spalle al futuro. Quegli sguardi, quei volti, sembrano coniugarsi naturalmente con quelli che Rubinfien cattura e sposa al proprio obiettivo vagando per New York, facendosene ennesimo testimone e, pure, originario aedo: un profeta che si appoggia sul passato per proiettare il futuro davanti al suo fedele, al suo spettatore.
Una mostra che, spiegano gli organizzatori, «evoca l’esperienza di muoversi attraverso la città con grande intimità e discrezione», i soli passepartout possibili per il luogo che, nelle parole del fotografo «si caratterizza per il senso di promessa che esso propone a migliaia di persone […], per la sua durezza, per quel miscuglio di luminosità e disappunto, per come si disponga tra tutti noi eppure rimanga sempre ignoto».
Possedere nel proprio passato il deposito simbolico del mondo occidentale e, nondimeno, fondare il suo più nucleare principio sul futuro, su quella promessa rinnovata senza soluzione di continuità, sono i capisaldi che fanno di New York quello che è, che ci racconta, che ci offre. Rimane giusto il tempo per scoprire come anche una delle istituzioni più decisive, qui e al mondo, percepisca il compito di consegnare il proprio tributo alla fotografia. Spostiamoci al MoMa.
Qui, tra le eccellenze della collezione permanente e le fortunate occasioni delle temporanee, spicca una rassegna che sembra destinata a suggellare il nostro percorso. Dall’evento pop-pubblicitario, allo studio astratto dei corpi, all’affondo nel cuore della città per finire, ora, con la fotografia dell’arte che si fa arte, mentre si fa: Art on Camera: Photographs by Shunk-Kender, 1960–1971. Il duo di fotografi (il tedesco Harry Shunk e l’ungherese János Kender) ritratto attraverso i suoi ritratti, raccontato attraverso i suoi racconti, rimesso all’opera per mezzo delle sue performance. Siamo inaspettatamente sul molo con Richard Serra, incrociamo le dita con John Baldessari, balliamo nudi per Yayoi Kusama e reggiamo il gioco (e il telo) a Yves Klein. Un allestimento di grande stile accompagna le stampe, riuscendo quasi a rimettere in scena l’evento di cui esse portano addosso la testimonianza, emozionando una volta di più il sottoscritto, sottolineando e concludendo il suo viaggio interminabile ma finito, quasi avesse avuto egli pure il suo Saut dans le vide e non a Fontenay-aux-Roses, ma a Manhattan.