Final Words. Le tue ultime fotografie

12 Gennaio 2015

La fotografia intrattiene con la morte un rapporto, vien da dire, genealogico. Fin dalle sue origini, la realizzazione fotografica si è fatta carico di una sorta di narrazione della vita dalla prospettiva eminente dell’interruzione, del termine della vita stessa.

 

Roland Barthes, nel suo La camera chiara,[1] compie forse il più celebre affondo critico nell’abisso che è proprio il rapporto tra fotografia e morte. Egli afferma, senza mezzi termini, che «in fondo, ciò che io ravviso nella foto che mi viene fatta (l’“intenzione” con la quale la guardo), è la Morte: la Morte è l’eidos di quella Foto» (p. 17).

 

Final Words [final-words.org] è un progetto che si prefigge di instaurare una riflessione sulla pena di morte raccogliendo e diffondendo le Ultime Parole, appunto, dei 517 giustiziati dallo Stato del Texas dal 1982. Iniziativa no-profit sostenuta da VII Association – ente che si attiva per la sensibilizzazione e il dialogo intorno ai diritti umani – Final Words ha in primo luogo dato vita a un libro. Tra le pagine si trovano i profili dei condannati, esaustivi sia in termini anagrafici che in merito alla vicenda giuridica, le loro ultime dichiarazioni, spesso destinate a figli, famiglie e amici, e i loro ritratti.

 

Final-Words, project

 

Questa associazione di immagini e parole, lasciti estremi, getta un ponte che Final Words concretizza in un’azione quantomai contemporanea: una campagna che si declina secondo la dichiarazione «We the people selfie against the death penalty» che suona all’incirca «Noi, il popolo, scattiamo selfie contro la pena di morte». La descrizione della campagna, che mira a raccogliere scatti accompagnati da brevi testi e che incoraggia i partecipanti a essere creativi per sostenere la causa con sempre maggiore visibilità, ne ribadisce così l’intento: «Bringing human rights back into focus». In un gioco di parole che, dal significato letterale e fotografico di «rimettere a fuoco i diritti umani», trasla fino a intendersi, traducendo liberamente in italiano, «riportare il focus sui diritti umani», tu, io, chiunque si faccia allora un selfie per diventare attivista contro la pena di morte.

 

Con una piccola donazione, poi, si garantirà la presenza del proprio selfie nella mostra itinerante che nascerà da Final Words. Il progetto, infatti, si alimenta secondo il popolare schema del crowdfunding, finanziamento collettivo che, in proporzione all’entità del contributo, offre prodotti e benefici sempre maggiori. Intanto, sul sito e negli spazi online che promuovono l’iniziativa, è facile accedere alla galleria dei selfie e accorgersi che, più ancora che il video di anteprima del libro o i messaggi dei celebri testimonial (l’attrice Susan Sarandon, tra gli altri), sono proprio quelle fotografie di “gente qualunque” a trattenere il nostro occhio, un istante ancora.

 

Si tratta, in alcuni casi, di composizioni particolari, fatte di inquadrature studiate o di trucchi e artifici, perlopiù alla ricerca di un effetto straniante quando non didascalico sull’occhio dello spettatore. Ma, per la grande maggioranza, siamo alle prese con fotografie piuttosto aderenti allo schema più diffuso del selfie: primo piano di un volto che guarda in camera, inquadratura non troppo elaborata, nessun trucco particolare e spesso, dettaglio che esce dallo schema solo apparentemente, riportando invece il selfie al suo archetipo, smartphone ben visibile in primissimo piano, impugnato dall’autore/soggetto.

 

Final-Words, Selfie Campaign

 

Quel che invece stupisce, di questi volti, è l’intenzione evidente di non volere, di non potere apparire gioiosi: questa volta, diversamente dalla cornice più famosa dell’universo-selfie, non si sta raccontando il proprio entusiasmo per la vita, almeno per un suo istante. Al contrario, qui si vuole mostrare il proprio volto sgomento di fronte alla morte, e forse proprio questa è la ragione per cui queste foto ritraggono sempre persone sole (mentre la coppia o il gruppo sono schemi compositivi tipici del selfie). In questo senso, allora, non può sfuggire che il trait d’union tra le Final Words dei condannati a morte e le dichiarazioni dei sostenitori della campagna non sono affatto the words, le parole, bensì the pictures, le fotografie.

 

Fotografie a chi vive per impedire che ci siano ancora fotografie di chi muore. È ancora La camera chiara, che torna alla mente, quando Barthes insiste nel tentativo di individuare quella «stigmate» che chiama «il punctum», e finisce per capire che non si tratta «più di forma, ma d’intensità, [esso] è il Tempo» (p. 95). In quelle pagine, compaiono insieme la storia e la fotografia di Lewis Payne, il giovane che tentò di assassinare il Segretario di Stato degli USA Seward, nel 1865. In quella foto, come recita la didascalia di Barthes, il giovane «è morto e sta per morire». Proprio come i condannati ritratti in Final Words.

 

E come i protagonisti dei selfie raccolti dalla campagna: essi sono ancora vivi, hanno tutta la vita davanti, e tuttavia hanno prodotto un (uno dei tantissimi, innumerevoli) memento mori che associa il loro volto indissolubilmente a quello dei condannati. Perché raffigurare la propria vita, im-mortalarla, possa impedire che un altro ritratto di chi «sta per morire» venga alla luce.

 

Un’utopia politica, certo. Che, tuttavia, si sceglie di affidare alla fotografia. Anche laddove l’utopia aveva esordito con le parole. L’immagine della morte, più della sua parola, ci trattiene, insieme. E proprio le parole, quelle di Mauro Carbone, sembrano auspicare questo tempo politico, solo apparentemente impensabile, «nel quale ci troviamo a essere morti insieme non solo alle vittime di quell’evento, ma a tutti quanti ci sono accomunati per essere stati trafitti da certe sue immagini».[2]

 

Indissolubile è, davvero, il rapporto tra fotografia e morte. Forse per questo, per la morte quale punto di partenza e di arrivo che la fotografia sa riavvolgere su di sé facendosene carico, è così roboante il potere di quest’ultima d’invadere la vita, di diventarne estremo oggetto del desiderio.

 

[1] R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, 2003.

[2] M. Carbone, Essere morti insieme, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 98.

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