Il massimo della pena
La parola chiave è “datemi”, se mai l’ha detta. “Date a me”, cioè “date (voi) a (Io)”. La lingua prepara l’abisso. Cos’altro è, come dicono, la perdita dell’empatia? Cosa? Questo, forse: “Io” deve solo e a forza “avere”. Ma se la pena è invece intrinsecamente “perdere”, il “massimo della pena” non dovrebbe essere il “minimo dell’Io”? E invece.
Dice “uccidetemi”, e intende “uccidetemi, ma continuate a darmi”, e cioè, “mentre mi uccidete, mi date”, e anche, in fondo, “mentre uccidevo, mi davo”. Il senso dell’esperienza, dell’uccidere, della morte: manca. È evaporato.
Uccidere è tutto, è un fine per sé, è il pieno, è il “da-te-mi” essenziale. Avere avere avere. E non. Manca il limite: “Io” è assenza di confine. Miseria del vincolo, miseria dell’etica. Non si impara, da nulla, mai più. “Datemi”, come un mantra, “datemi”. La preghiera dell’uomo anaffettivo, la preghiera dell’uomo inorganico, voglio essere pietra, voglio essere cosa. “Datemi”, e “ora”, intima. Miseria della volontà. Miseria delle nostre parole.
Carlo Lissi ha confessato stamane di aver ucciso la moglie Maria Cristina Omes, e i suoi due figli, Giulia di 5 anni, e Gabriele di 20 mesi, nella loro casa di Motta Visconti.