Fiducia e cultura nell’aree interne / Sicilia Immagina
L'indagine sulla qualità della vita delle Città Italiane di Il Sole 24 ORE anche quest'anno è arrivata inesorabile, mettendo in evidenza il divario tra Nord e Sud. È Milano ad aggiudicarsi, per il secondo anno consecutivo, il primo posto nella classifica, fanalino di coda della classifica è Caltanissetta (107°), che occupa l’ultimo posto della classifica per la quarta volta. Senza nulla togliere alla classifica del Sole, ma ho deciso di partire e andare a vedere con i miei occhi che aria tira in fondo alla classifica. Un gruppo di piccole organizzazioni culturali attive nelle aree interne della Sicilia – come il Collettivo SempliCittà, TrasFormAzioni e altre che citerò di volta in volta – in modo completamente autonomo hanno organizzato un tour di presentazione del mio libro Artigiani dell'immaginario. Il viaggio l’hanno chiamato "Sicilia Immagina”. Le presentazioni sono state scusa perfetta per avviare un lavoro di creazione di una rete informale tra pratiche di innovazione culturale in territori considerati marginali o in ritardo di sviluppo. In sette giorni ho percorso migliaia di kilometri, ho incontrato amministratori locali, artigiani dell'immaginario, giovani entusiasti, progetti e cittadini. È emersa quella brace che arde sotto la cenere e che può appiccare il fuoco del cambiamento.
Arrivo all’alba del 28 dicembre a Palermo. Via mare, come piace a me. Prima tappa da raggiungere: Mussomeli. Non potevo però lasciare Palermo, prima di scaldarmi il cuore, attraversando le sue viscere. Entro al mercato di Ballarò, brulicante di voci, colori e volti segnati. Mi intrufolo tra le bancarelle e cerco di fare qualche affare. Appena fatto l’affare, una marionetta costruita alla buona con pezzi di legno, ritagli di stoffa e pezzi di ottone, mi dirigo verso l’auto per intraprendere il primo tratto del viaggio. La Palermo–Agrigento più che una strada è una cicatrice che segna un territorio. Ogni chilometro racconta una ferita. Ogni deviazione testimonia una questione irrisolta. Una sofferenza continua dell’irrisolto e nell’incompiuto siciliano. Per arrivare a Mussomeli devio dalla strada principale e percorro inconsapevolmente un raccordo spettrale. Il tratto a scorrimento veloce Mussomeli–San Giovanni Gemini è costato 40 milioni di euro in vent’anni di cantiere. Dopo solo un mese dal taglio del nastro è stata chiusa al transito e 6 chilometri e 100 metri di infrastruttura pubblica sono rientrati nel catalogo delle opere incompiute siciliane.
Arrivato a Mussomeli, mi accoglie la magnificenza del Castello eretto tra XIV e il XV secolo e il sorriso di Michele Schifano, un giovane insegnante che ha deciso di ritornare in Sicilia da pochi anni. Michele è uno degli “artigiani dell’immaginario” che hanno reso possibile il mio viaggio in questa Sicilia interiore più che interna. Tempo di un caffè e inizia a raccontarmi storie antiche e contemporanee di un paese di Sicilia arroccato.
Mi sveglio a Mussomeli, è una giornata fredda, di neve, di quelle che non ti aspetti arrivando in Sicilia. Mi preparo, mentre la curiosità continua a crescere dentro di me. Sta arrivando il momento di scoprire le realtà, i segreti di un paesino come Mussomeli che, nascosto tra i suoi culti e le sue feste, cerca di camuffare le sue ferite. Sono pronto. Aspetto. Michele mi chiama, scendo giù. Iniziamo il nostro percorso attraversando quello che è l’impianto originario del paese: via Barcellona. Inizio a conoscere, a spostarmi, a scoprire. Vedo stendardi, scopro tradizioni, vengo a conoscenza di un’antica fiera del Castello di Mussomeli attiva da oltre un secolo. Forse il senso del viaggio è anche questo, continuare ad andare avanti senza mai dimenticare chi siamo stati prima. Continuare a mantenere una parte di noi ancorata al passato.
Proseguiamo il nostro cammino, inizio a scovare le famose “Casa a 1€” di Mussomeli, una triste realtà che alimenta ancor di più il divario economico di un paesino dell’entroterra siciliano che ancora oggi non riesce a riscattare il proprio valore.
Arriviamo davanti a un forno, decidiamo di entrare, di conoscere uno dei pochi artigiani del centro storico. Conosco Tanino, che ogni notte accoglie nel suo forno decine di giovani che con la scusa di mangiare un cornetto caldo usano lo spazio come luogo di ritrovo caldo e accogliente. Usciamo, continuiamo a camminare fino a giungere davanti alla chiesa Madre che, fiera, si erge su tutto il centro storico di Mussomeli, lasciando costantemente a bocca aperta viaggiatori come me. Osservo, noto stemmi disparsi per tutto il quartiere. Michele inizia a raccontarmi storie antiche, di scontri, incomprensioni, indipendenze e decapitazioni. Continuiamo il nostro percorso, resto incantato da una casa poco più avanti, di epoca Medievale. È incredibile come tanta bellezza riesca a preservare tutta la sua vera essenza. Ci dirigiamo più avanti, vedo il cinema di Mussomeli, un edificio impossibile da ignorare visto la grandezza ed i colori stonati con il resto. Un piccolo cinema che da grande vorrebbe fare anche il teatro. Continuo a camminare, giungo davanti la Torre dell’Orologio. Sento il rumore degli ingranaggi in fondo al cuore. Riprendiamo il cammino, giungiamo in Piazza Roma. Ci rifugiamo per qualche minuto in un’edicola lì vicino, cercando di riprendere un po’ di calore. Ritorniamo fuori, conosco il sindaco di Mussomeli: Giuseppe Catania, un uomo disponibile all’ascolto. Michele mi porta a conoscere Enza Di Maria, una giovanissima attivista della “Pescheria delle Idee”: uno spazio che ha l’obiettivo di accogliere le idee dei cittadini e di accompagnarle in un percorso di concretizzazione.
Poco prima del tramonto con Michele ci trasferiamo a Caltanissetta, dove ci aspetta un gruppo di giovani creativi fondatori del Creative Spaces, che per definire la propria missione usano le parole di Elio Vittorini: "La cultura non è professione per pochi: è una condizione per tutti, che completa l’esistenza dell’uomo".
Conosco Eros Di Prima, uno dei fondatori di Creative Space, ritornato a Caltanissetta per scelta dopo aver studiato e lavorato all’estero come architetto, convinto che la sua terra sia il posto migliore dove impegnarsi per generare cultura e cambiamento, ci fa strada verso il Centro Espositivo d'Arte Contemporanea dell'ex Rifugio, uno spazio ricavato riutilizzando un rifugio degli anni '40, che per l’occasione ospiterà la nostra discussione insieme alla mostra Trasformazioni e rivoluzioni attraverso l’arte. Lungo la strada incrociamo la processione dei “Tre Santi”: il Redentore, l’Immacolata e San Michele Arcangelo (i tre protettori della Città di Caltanissetta), che da oltre 100 anni escono dalla Cattedrale in segno di ringraziamento per lo scampato pericolo dal terremoto che la mattina del 28 Dicembre 1908 distrusse Messina, e buona parte della Sicilia orientale. I canti dei portantini, mi fanno venire la pelle d’oca e mi rimandano a uno dei tratti più intensi del Sud: la devozione.
Arrivati all’Ex Rifugio, ci raduniamo in una stanza accogliente e ci raccontiamo in una dinamica informale, con la sempre buona scusa di presentare il mio libro.
La mattina del 30 dicembre riprendo il mio viaggio, direzione: Milena. È un viaggio interessante, fatto costantemente di scoperte. Vedo “Cozzo Minnetta”, una delle possibili sepolture di Minosse, venuto in Sicilia alla ricerca di Dedalo; attraverso un ponte che con molta probabilità tra dieci anni non esisterà più. Apprendo che Milena, è anche chiamata “Paese delle Robbe”. Le robbe sono nuclei di case costituenti piccoli villaggi dalla struttura priva di segni di centralità. La loro nascita è connessa alla gestione, in parte diretta e in parte in enfiteusi, dei fondi di proprietà del Monastero di San Martino delle Scale che, per incentivare la manodopera, concedeva la possibilità di costruire la propria abitazione nelle terre date in ‘affitto’ o ‘censo’. Tempo di pensare al sistema di relazioni generato dalle “robbe” che mi ritrovo in una sala piena di cittadini che aspettavano solo me e Michele. Si, sempre con la solita scusa del libo, entriamo subito nel vivo di una discussione accesa. Fioccano domande, prese di posizione e visioni contrastanti. Il dialogo è durato più di due ore. Abbiamo toccato temi scottanti e questioni delicate, come il coraggio di chi parte o di chi decide di restare, la fiducia, la cura dei legami nella comunità.
Dopo l’incontro i ragazzi che hanno organizzato il festival Mi Fa Sol|MIlena FestivAl SOciaLe-è ora di cambiare musica! ci portano al Magazzino Culturale “Ex oleificio”, un ex oleifico che hanno trasformato in centro culturale aperto alla comunità. Qui continueremo la serata con una cena sociale, la proiezione di un cortometraggio e un concerto. Carmelo, uno dei tanti giovani siciliani che ha deciso di ritornare nel paese di origine, così mi racconta di questa esperienza del Festival: “È successo che, attraverso il confronto e il dialogo competente e sincero, gli slogan sulla viabilità sono diventati proposte per una nuova mobilità, sostenibile, moderna, necessaria e che risponda ai reali bisogni di un territorio fortemente cambiato e che non può più rispondere a schemi mentali ormai antichi.
È successo che, attraverso delle proposte concrete elaborate da operatori del settore, la parola sociale non è stata associata, come succede spesso, ad assistenza ma a opportunità, per le persone, per chi è più debole e ha minori opportunità, per tutto un territorio con la sua comunità. È successo che gli autori di piccoli sogni sul territorio si sono seduti allo stesso tavolo per capire insieme come far diventare i loro piccoli sogni tasselli di un unico progetto ancora più grande e possibile! È successo che due ragazzi ci hanno raccontato come una comunità si è unita per contrastare il degrado e l’inquinamento del proprio territorio e di come possiamo e dobbiamo sostenerli tutti. È successo che ci siamo emozionati impastando il pane e facendo le ‘mbriulate, riscoprendo il loro senso profondo e antico insieme al fatto che si possano ripensare i territori, in maniera diversa e più necessaria, partendo dal cibo e di come si possa fare economia vera e sostenibile, reale per la nostra terra.
È successo che donne e uomini appassionati ci hanno raccontato di come il gesso non sia un elemento geologico ma sia il nostro passato e possa essere il nostro futuro. Pane, gesso, ‘mbriulata, metafore di come eravamo e di come dobbiamo ricostruirci come comunità umana, racconto di tutto quelle cose che dobbiamo recuperare e imparare a riconoscere per rianimarle. È successo che dei giovani si sono uniti e hanno creato un movimento fatto di proposte concrete e possibili, costruite durante i loro racconti in giro per la Sicilia, perché vogliono riuscire qui senza per forza essere costretti ad andare via. È successo che una pescheria è diventata un incubatore di sogni ed è successo che dei giovani emozionati ci hanno raccontato di come hanno deciso di tornare e di mettersi in gioco. È successo che abbiamo analizzato le migrazioni di oggi osservando quelle antiche dei nostri nonni. È successo che siamo stati in Africa attraverso i racconti di uno che, a casa loro, c’è stato a visitare chi, a casa loro, davvero li aiuta. Ed è successo che abbiamo visto piangere vecchi e giovanissimi ascoltando tutto questo. È successo che tanti giovani, un sabato sera, hanno aspettato sino a tarda notte per poter fermarsi a parlare con una splendida teatrante alla fine del suo spettacolo. È successo che uno degli uomini che ha trasformato una follia in un sogno ci ha insegnato che potere è verbo e non sostantivo e che nel trasformare l’immaginazione in realtà nessuno può e deve essere escluso. È successo che si sono seduti allo stesso tavolo un artigiano dell’immaginario, un’artigiana dei significati della parola, un disobbediente, un obbediente, un’artigiana delle diversità e un sognatore ed è successo che le parole hanno preso forma concreta perché l’idea si farà azione.
È successo che una poesia d’immagini ci ha mostrato dolcemente come un rastone bocconiano, invece di guadagnare decine di migliaia di euro in giro per il mondo, ha deciso di tornare nel suo paese di 500 anime per fare l’agricoltore. È successo che bimbi biondi e neri giocavano a imboccarsi cibi camerunensi, pakistani, romeni cucinati da tre splendide donne che dopo la cena si saranno sentite un po’ meno straniere. È successo che un dolce e timido ragazzo nigeriano ci ha cantato Rosa Balistreri e come ha realizzato i suoi sogni. Tutto questo è successo e vogliamo che succeda ancora … tutto questo è successo ed è stato un successo, un arricchimento umano e un accrescimento culturale che mai si era visto a Milena, nel cuore profondo della Sicilia. È successo e qui (da oggi non più) non era scontato che sarebbe mai successo”.
La giornata termina con la musica di Chris Obehi, nome d’arte di Christopher Goddey giovane nigeriano di 22 anni in Italia da 4, che apre il suo concerto con Cu Ti Lu Dissi di Rosa Balistreri. Chris dopo essere scappato dalla persecuzione di Boko Haram è passato per i lager libici. Del viaggio sul barcone, durato due giorni, ricorda il pianto dei bambini. Tante donne, alcune incinte, e infine l’arrivo a Lampedusa su una nave militare, poi a Messina fino a trovare la sua casa a Palermo. Oggi vive e studia lì. La mattina al Conservatorio Vincenzo Bellini e di sera frequenta l’Istituto Tecnico economico per il turismo "Marco Polo", oltre a portare la sua musica in giro per la Sicilia e l'Italia.
Sveglia di buon mattino. Ancora fiocchi di neve nell’aria si parte alla volta di Lentini. Arriviamo per ora di pranzo con ancora il sole alto oltre il vulcano Etna, li dove si estendono i fertili campi Leontini, quelli che Giorgio Franco, giovane e appassionato artigiano dell’immaginario, mi presenta come le "porte del sudest siciliano". Una terra che affonda le proprie radici nel mito: pare che Eracle "il fenicio/punico", ancor prima dei greci-calcidesi, fece dono a Demetra della sua Leonté e della pelle di un Leone, animale/simbolo che da allora divenne emblema del territorio Lentini/Carlentini (la Lentini di Carlo V).
I ragazzi di Badia Lost&Found mi aprono le porte di Palazzo Beneventano, uno scrigno di storie e di tesori, luogo di memorie e di suggestioni, riconsegnato alla Città dopo infiniti saccheggi e decenni di abbandono e incurie. Monumentale dimora di una delle casate più illustri dell’Isola, residenza nobiliare tra le più importanti di Lentini, lo storico Palazzo della famiglia Beneventano è stato inaugurato grazie alla lungimiranza e alla passione di Giorgio e della storica dell'arte C. Pulvirenti, i quali, assieme ai volontari di Italia Nostra di Lentini, hanno trasformato dal 7 Maggio 2016 un luogo senz'anima in un grande polo culturale, vocato alle arti contemporanee. Sono stati necessari anni di accurati interventi di restauro e due finanziamenti per riportarlo ai suoi antichi fasti.
I due piani dell'ottocentesco Palazzo Beneventano ospitano un "luogo del contemporaneo", museo d’arte contemporanea: 8.200 mq di spazi espositivi, con installazioni site-specific, opere della collezione e installazioni temporanee. Il palazzo, che prende il nome dalla famiglia Beneventano della Corte (XIX sec.), è stato in buona parte restaurato e prevede l'ampliamento museale con l'allestimento di una sezione dedicata alla famiglia che vi abitò. Oggi offre al suo pubblico, insieme ai percorsi espositivi temporanei e permanenti, un Centro Studi, laboratori didattici, un bookshop/caffetteria e molto altro.
Nella sala principale del Palazzo abbiamo discusso con cittadini ed associazioni della necessità di continuare a produrre un nuovo immaginario per un piccolo paese del Sud, che è in costante ricerca di una sua nuova identità.
"Niente è come sembra" avrebbe affermato Manlio Sgalambro, filosofo contemporaneo leontino come un altro nell'antichità: il sofista Gorgia, discepolo di Empedocle. Lentini ha un territorio e una storia complessa, così la sua contemporaneità si apre in un polo culturale pensato e creato dal nulla, da un collettivo di giovani professionisti.
Dopo la presentazione, sfidando ancora la neve, siamo andati a incontrare 2 anziani che continuano a produrre il pane con gesti e sapienza antica. Un forno alimentato solo con legna di mandarlo e arancio. Un profumo di una terra centro di culture millenarie.
Dopo giorni di cielo nuvoloso e fiocchi di neve, la mattina del 31 dicembre il cielo di Sicilia torna ad essere nitido e luminoso. Ci attende un lungo viaggio, dobbiamo attraversare tutte le province siciliane per arrivare a Castellammare del Golfo, precisamente alla frazione Fraginesi, dove ci aspetta Giordano Aquaviva e tutto il gruppo del Ponte di Archimede. Il viaggio è lungo ma non per questo spingo sull’acceleratore, al contrario, decelero e apro bene gli occhi. La lentezza sa amare la velocità, sa apprezzarne la trasgressione, desidera anche se teme (quanta complessità apre questa contraddizione!) la profanazione contenuta nella velocità, ma la profanazione di massa non ha nulla della sacertà che pure si annida nel sacrilegio, è l’empietà senza valore, un diritto universale all’oltraggio. Nessuna esperienza è più stolida della voracità di massa, della profanazione che non si sa.
Nel viaggiare, nel percorrere i chilometri, finisco col raccontarmi attingendo al potere simbolico dei luoghi e del paesaggio. Chi viaggia per “arrivare” è diretto solo alla meta prossima o alle cose ultime. Per lui il viaggio non esiste e le terre che attraversa non esistono. Conta solo la meta. Così il viaggio muore durante il viaggio, muore in ogni tappa che lo avvicina alla meta. La meta cancella l’andare e chi punta solo alla destinazione procede come un cavallo con i paraocchi, non vede ciò che la via mostra al viandante. I viaggiatori sono coloro che percorrono ed esplorano la via spalancata tra inizio e fine. Mi convincono le parole di Galimberti, quando nel descrivere i viaggiatori dice: “l’andare ci salva cancellando la meta”. Lungo la strada le soste danno il ritmo. La prima sosta più che una pausa è stata una finestra del tempo, che mi ha portato secoli indietro. Deviazione dall’autostrada Catania-Palermo verso Piazza Armerina, cittadina tra i monti Erei meridionali, ma soprattutto luogo che custodisce la Villa Romana del Casale dichiarata nel 1997 Patrimonio dell'UNESCO per i suoi 3.500 mq di mosaici perfettamente conservati. In silenzio ho contemplato il corridoio della "Grande Caccia" (65,93 m di lunghezza e 5 m di larghezza), un vero e proprio compendio su come catturare le belve di due continenti.
Il sole cala pian piano e all’orizzonte inizia a stagliarsi il blu del mare della costa orientale. Lasciamo la strada principale e iniziamo ad arrampicarci tra le viuzze sterrate della montagna sopra Castellamare del Golfo. Nessuna illuminazione pubblica, solo la luna e le stelle a illuminare il tragitto. In lontananza s’intravede una casetta poco illuminata tra ulivi a perdita d’occhio. Siamo arrivati, questa è la casa del Ponte di Archimede. Giordano mi abbraccia, mi dà il benvenuto e mi lancia subito nei preparativi della cena dell’ultimo dell’anno. Accendiamo un fuoco, condiamo agnello e pollo e ci disponiamo attorno al fuoco. Un fuoco che per 3 giorni non abbiamo mai spento. Lentamente ci raggiungono altri compagni di lavoro di Giordano, ciascuno con biografie da scrivere in versi. Il Ponte di Archimede è un progetto che crea un legame orizzontale tra pratica artistica e pratica agricola. In un’area rurale di 16 ettari, tra querce bianche secolari, macchia mediterranea ancora intatta, ulivi, vacche e mare è attivo uno studio di post produzione e live recording. L’integrazione tra arte e natura, anche solo come “luogo” di lavoro, è alla base della loro ricerca creativa. Una matrice che può essere il punto di partenza per immaginare le nostre montagne e le nostre campagne non solo come campo d’azione dell’agricoltura, ma anche campo di sviluppo di processi creativi e culturali.
Sono giunto alla fine di questo viaggio con la luce dell’alba del nuovo anno e con la consapevolezza che è necessario un nuovo vocabolario per descrivere il Sud. “Buon senso” e “saggezza” è ciò che si appella come “arte di arrangiarsi”, “progettualità” e “capacità di fare” è ciò che molti chiamano “incosciente festosità” dell’uomo meridionale. Scegliere le parole per raccontare il Sud ci proietta su un campo di azione piuttosto che un altro. Dobbiamo abbandonare gli stereotipi, inaugurare tradizioni culturali che richiedono la coesistenza, la fiducia, che promuovono la perseveranza: le donne e gli uomini che ho incontrato in questo viaggio sono ginestre! Il fiore che attecchisce nei suoli più aridi, il fiore solidale, che resiste. Le esperienze che ho raccontato non sono ispirate o governate dalle istituzioni, non sono cioè prodotte da un pensiero politico capace di ordinare la propria ripresa. Testimoniano un percorso spontaneo di ricerca e di esercizio dell’identità, di conoscenza e di interiorizzazione di modelli da indirizzare a un cambiamento interiore del territorio.