Il fascismo non se ne è mai andato / Né destra né sinistra, semmai peggio

25 Luglio 2017

Sulla opportunità e la pertinenza rispetto agli umori dei tempi correnti della proposta di legge Fiano, intesa a identificare, colpire e reprimere le manifestazioni di «propaganda» del fascismo nella società italiana, soprattutto «se il fatto è commesso attraverso strumenti telematici ed informatici», si può discutere a lungo. Rimane il riscontro che, in questa estate confusa e riottosa, laddove ancora una volta la politica sembra precipitare in una condizione di latitanza o comunque di vuoto pneumatico, mentre il nostro Paese, specchio mediterraneo del Continente, cova tensioni e rancori irrisolti, il ripetersi di espressioni di identitarismo fascista, laddove l’orgoglio di una appartenenza si maschera come «libertà di opinione», solleva molte inquietudini. Ci sono i precedenti penali e repressivi delle leggi Mancino e Scelba.

 

Ma c’è anche il timore, come già è avvenuto con la discussione sul caso del negazionismo, che si ingeneri una specie di eterogenesi dei fini, per la quale la sanzione penale (peraltro di non facile applicabilità in un nazione che ha un corpus legislativo in perenne superfetazione accompagnato da notevoli incongruità e arbitrarietà nella sua traduzione in atti concreti) potrebbe creare casi di sedicenti perseguitati. Qualcuno, risalendo ancora più indietro, ha evocato, per l’ennesima volta, la questione dell’«amnistia Togliatti» del 1946 e, prima ancora, il tema della mancata epurazione come indici di debolezza della nuova classe dirigente postfascista nei confronti del regime e dei suoi sostenitori. Anche da ciò, ovvero da una clemenza che rasenta l’impotenza, sarebbero conseguite, nel corso del tempo per poi arrivare a noi, condotte acquiescenti, se non collusive, con ciò che del mussolinismo e dei suoi epigoni era sopravvissuto alla conclusione del conflitto. Considerazioni, queste ultime, da sempre tirate in ballo nella discussione politica, al netto di tutta una serie di questioni di sostanza, ossia che la società italiana, negli anni del fascismo, era stata spesso legata ai suoi organismi, non importa con quanta convinzione. Il rischio di un’epurazione ad ampio raggio, una defascistizzazione sistematica, che nelle intenzioni dei suoi sostenitori avrebbe dovuto sanare un popolo, un’intera nazione, stava nel dispositivo medesimo della sua estensione, di fatto nullificandola.

 

Non di meno, rivelava lo scarto esistente tra gli azionisti, legati ad un’idea di radicale rigenerazione morale della collettività, e i comunisti (assai più timidamente, in questo caso, i socialisti) che invece si ponevano come prioritari, dentro un quadro di mutamenti degli assetti istituzionali, sia il problema della continuità amministrativa degli apparati dello Stato non eccessivamente compromessi con il regime mussoliniano sia l’accesso degli italiani ad un sistema di partecipazione politica per più aspetti inedito. Il tutto, va ricordato, nel generarsi di un durissimo bipolarismo intercontinentale. Anche nei decenni successivi, a consolidamento della Repubblica avvenuto, l’ipotesi di mettere fuorilegge il Movimento sociale italiano, diretto erede dell’esperienza neofascista di Salò, ebbe scarso seguito, intuendone i più la difficile applicazioni e i pericolosi ritorni politici. Dinanzi alle provocazioni neofasciste e missine e poi alla «strategia della tensione», furono soltanto alcuni politici, come Ferruccio Parri, a sollevare la questione, rimanendo inascoltati. Per il Partito comunista mettere fuorilegge un’organizzazione politica che aveva una solida base parlamentare e un numeroso seguito di elettori avrebbe comportato un pericoloso precedente. Quel che era considerato alla stregua di vero e proprio avventurismo, motivato più da pulsioni repressive o comunque punitive che da un disegno politico chiaro e sottoscrivibile, poteva infatti prestarsi a pericolosissime estensioni. Una volta innescata una prassi che traduce un problema politico, ancorché radicale, in azione penale, il rischio che esso potesse trasformarsi da strumento di difesa della società libera a suo vincolo, era ben chiaro a diverse tra le forze politiche che avevano partecipato, con i loro esponenti, alla Costituente.

 

Non si trattava di difendere un’astratta libertà di manifestazione delle idee, a prescindere dai loro riflessi culturali e sociali, ma di perimetrare uno spazio concreto dove il dibattito politico non fosse pregiudicato a priori da veti, tanto più se di natura giuridica quando intrinsecamente intimidatori. L’antifascismo ne derivava quindi come una naturale connotazione del sistema in sé, non come un ingrediente a misura e posologia variabili. Del sistema democratico difendeva le sue radici, che avrebbero dovuto assorbire anche le eventuali deviazioni attraverso il ricorso all’azione politica e all’attuazione del dettato costituzionale. Qualcosa che oggi sembra invece fare difetto ad una sinistra sbiaditamente liberale, già debitrice del tramonto dei modelli socialdemocratici, fortemente individualista, tentata dalla censura nei confronti di ciò che, non riuscendo a definire in termini diversi, derubrica a minaccia da perseguire attraverso il ricorso alla sanzione di natura giurisdizionale. A ulteriore riscontro, basti rammentare che la dodicesima disposizione transitoria e finale della Carta costituzionale, vieta la ricostruzione del Partito nazionale fascista mentre la legge Scelba, la numero 645 del 20 giugno 1952, norma la punizione dell’«apologia di fascismo» in un contesto pubblico. Sulla scorta delle due manifestazioni di volontà normativa, furono disciolte organizzazioni neofasciste di carattere insurrezionale e manifestamente avverse ai principi più elementari della vita democratica.

 

 

Nel 1972 la procura della Repubblica di Milano chiese, ed ottenne dalla Camera dei Deputati, l’autorizzazione per procedere contro Giorgio Almirante, segretario del Msi, ipotizzando il reato di ricostituzione del partito fascista. Di fatto, dopo il trasferimento dell’inchiesta a Roma, nulla ne derivò. La peggiore delle soluzioni, a conti fatti, poiché rafforzando in molti democratici l’impressione che effettivamente il partito neofascista costituisse, di per sé, il prosieguo non solo ideale ma anche organizzativo, del vecchio regime e dei suoi epigoni saloini, non dava però seguito alle premesse penalistiche, alimentando invece negli aderenti all’organizzazione missina la convinzione di essere per davvero gli aedi di una formazione politica antisistemica. Una sorta di legittimazione all’incontrario, attraverso la tentata – e abortita – delegittimazione, ovvero una eterogenesi dei fini. Va infine rammentato che sul piano costituzionalistico, l’articolo 21 della Carta fondamentale, difficilmente si presta alla punizione di generici richiami ai trascorsi fascisti, dovendo primariamente tutelare, come garanzie universale, il diritto all’opinione e alle sue manifestazioni, entro i limiti di un dibattito che non può mettere in discussione l’ordinamento democratico ma deve comunque riuscire a contrastare gli atteggiamenti più radicali soprattutto attraverso gli strumenti della politica e della cultura.

 

In altre parole, perseguire penalmente una condotta in quanto reato non può costituire una scorciatoia rispetto all’afasia e alla paralisi dell’azione politica. Detto questo, rimane il fatto che in Italia il fascismo non torna per il semplice motivo che non se ne è mai andato. Senz’altro il regime politico mussoliniano è ingloriosamente tramontato in ragione di una congiura di palazzo, dopo vent’anni di diretta corresponsabilità da parte delle classi dirigenti “afasciste”, a partire dalla monarchia. Non di meno, la cupa e delirate Repubblica sociale italiana si è accartocciata tragicamente, per poi estinguersi in quanto fantoccio insufflato dal «camerata germanico». Storia vecchia, forse. Ma il calco antropologico del fascismo, la sua funzione pseudo-modernizzante nell’età della nazionalizzazione delle masse, con il loro pieno ingresso nella sfera pubblica in posizione subalterna, non si è mai esaurito. In quanto di impronta si tratta, destinata quindi a sopravvivere alle manifestazioni temporanee del soggetto che l’ha impressa. Certo, non tutto quello che tentiamo di definire, a volte con un eccesso di disinvolta nomenclazione, come «fascismo», risponde ai precisi esiti politici della sua trascorsa espressione storica. La tentazione di rubricare ciò che disgusta e repelle sotto un’unica voce, rischia più di rendere una cortesia a quanto si dice di volere contrastare, estendendone il campo del dominio semantico e simbolico invece che assolvere al ruolo di denuncia. Rimane il fatto che se di un calco si va parlando, allora esso esiste perché alla forma che ci consegna corrispondono delle copie.

 

In parte o per il tutto, quindi con maggiore o minore aderenza al modello di riferimento. Comunque ad esso riconducibili. E se usiamo il rimando all’antropologia allora ci riferiamo ad un sistema di simbolismi e di segni fortemente radicati. Già Umberto Eco, nel suo discorrere sulle componenti idealtipiche dell’«Ur-fascismo», aveva composto un sistema di falsi valori identificato con il culto della «tradizione»; nel sincretismo ideologico connotato da un’asfissiante inconsistenza teorica a fronte di una devastate propensione ad invadere tutti gli ambiti della vita associata; in una imprescindibile vocazione all’arbitrarietà e all’opportunismo pseudo-culturale; nel camuffamento di un violento bisogno di dominio con il possesso e il deposito di «verità ancestrali», di cui il progetto politico si incaricherebbe esclusivamente di tradurne operativamente l’inderogabilità; nel rifiuto della varietà culturale ma anche nell’esaltazione del scientismo e della tecnologia come elementi neutrali nell’esistenza civile; nel culto dell’azione fine a se stessa, intesa essenzialmente come esibizione vitalistica, dove non si lotta per vivere meglio ma si deve orientare la propria esistenza per la lotta; nella concezione del pluralismo e della critica come di un disaccordo che mina alle basi la continuità dei legami sociali; nell’uso politico della frustrazione e del disagio, indicando come soluzione alle crisi identitarie il riconoscersi in una meta-appartenenza, quella della «nazione etnica»; con l’ossessione paranoide per la storia come complotto, generato da potenze metafisiche, di cui gli ebrei sarebbero la quintessenza umanoide; nell’idealizzazione negativa dei «nemici», così forti da minacciare l’altrui diritto all’esistenza ma anche così meschini e ripugnanti da dovere essere battuti; nell’elitismo come cognizione aristocratica del ruolo di guida in un percorso comune; nell’eroismo come angosciante erotismo necrofilo fino alla concezione della lotta come guerra e della guerra come prosieguo dell’esercizio prevaricatorio del dominio di genere; nel conflitto semantico e con l’istituzione di una neolingua dai significati contratti, dalla sintassi basica ed elementare, espressione di una logica primitiva.

 

Ph: Alberto Scarpinato


Questo insieme di elementi, sia sempre detto e quindi ripetuto a scanso di equivoci, non corrisponde ad essenze immutabili bensì ad un vero e proprio apparato pulsionale, che poi si fa anche regime politico, qualora se ne diano le condizioni reali. La forza del fascismo che rimane è, d’altro canto, la sua capacità metamorfica. Del pari ad un suo fratello in armi, l’antisemitismo, trattandosi di due patologie della contemporaneità che frequentemente si incrociano, solidarizzando e rinforzandosi vicendevolmente. Va comunque da sé che la questione non si chiuda in questi soli termini. Per dare ad essa un respiro più coerente bisogna allargare il campo delle indagini. Se si vuole avere un indice di riferimento, risparmiandosi voli pindarici così come arrampicate nel cielo delle astrazioni, è un buon esercizio seguire l’ossessionante diluvio di compiaciute diffamazioni che si è riversato su Laura Boldrini, combinato disposto tra false notizie, veicolate sempre più spesso dai Social Network, fittizie cronache su quotidiani nazionali e corredo di invettive, vituperi e insulti. Poiché dallo strame della ragione che accompagna l’aggressione pressoché quotidiana nei riguardi della donna che ricopre la terza carica dello Stato in funzione di rappresentanza collettiva, si coglie tutto il deposito mentale, ossia sub-culturale, che rimanda, come un link funzionante in automatico, al fascismo perenne, persistente, eterno e paludato che dir si voglia. 

 

Il problema, come già avevamo avuto modo di rilevare, in questo caso non è il giudizio politico su Boldrini ma il suo essere divenuta il bersaglio di una serie di violenti, diffamatori e strumentali attacchi a prescindere, ossia che esulano dai riscontri di fatto, cercando semmai di sostituirsi essi stessi ai fatti, per affermarsi come una sorta di realtà parallela, che vive una esistenza propria. La qual cosa indica non solo che chi ascolta e recepisce certe cose non intende sottoporle a verifiche ma che con il suo fare è alla ricerca di una realtà “altra”. Va poi registrato che negli indici di aggressività si stanno contraddistinguendo non pochi quotidiani nazionali, in parte collocati a destra dello spettro politico, come «Libero», «il Giornale», «il Tempo», «la Verità», in parte più mediani o “neutrali” (a volte anche il sansonettiano «il Dubbio», quasi una sorta di contrappasso alla testata diretta da Belpietro, definendosi come «il quotidiano che sbatte i diritti in prima pagina»). Si tratta di una vera e propria strategia della confusione, tra cosiddette «fake news» e uno pseudo-dibattito politico, quest’ultimo basato sulla maniacale reiterazione sempre degli stessi cliché. In questo agone confluiscono tratti tipici della fascisticità, ancorché spuria, per l’appunto calco antropologico piuttosto che ideologia politica, che peraltro ha sempre faticato a riconoscersi fino in fondo come tale: machismo e sessismo; un razzismo che si propone come interclassismo xenofobico; l’ossessione da invasione e il rimando all’«identità» come se essa fosse una sostanza eterea ed eterna; il sovranismo e l’appello alla «difesa dei confini», materiali e simbolici; l’angoscia da perdita e l’evocazione persistente di un risarcimento senza il quale si è, e si rimane, «vittime».

 

Un altro indice è il gioco allo sparigliamento delle carte al quale personaggi televisivi già da tempo ci avevano abituati, salvo trovare ora nuovi aedi. Il tratto comune tra generazioni diverse è il ricorso a quella che potrebbe essere definita la tecnica dei chiasmi, o dei riversamenti parossistici nell’opposto: gli “autentici” fascisti sarebbero gli antifascisti (tra i diversi esempi possibili, un Diego Fusaro d’annata su: «il fascismo dell’odierno antifascismo»). Si contraddistingue, in questo bailamme, la sequela di articoli che da diversi giorni accompagnano e corredano le ampie fogliate giornalistiche sulla proposta di legge presentata da Emanuele Fiano. Anche qui, al netto dei giudizi sulla bontà e sulla opportunità o meno di tale disposizione a venire, quel che residua è l’atteggiamento, così come gli stilemi linguistici, che corredano il suo rifiuto da parte di una destra che richiama gli altri all’obbligo della liberalità quando, per ciò che la concerne, se ne esenta in automatico, con assorto spirito auto-assolutorio. Il linguaggio della denigrazione è un collante universale, riducendo a stereotipi e a bozzetti macchiettistici idee e persone: espressioni oramai non solo ricorrenti ma consolidate, quindi di senso comune, come «buonismo» e «radical-chic», appartengono ad un’idiomaticità che, etichettando circostanze e attori, evita di entrare nel merito dei problemi per attribuirne la responsabilità, a prescindere da qualsiasi concreta verifica, a chi ne è fatto derisoriamente destinatario. Sussiste un ampio repertorio, fatto di parole indice, che perimetrano l’intolleranza e la rendono regime linguistico che si convalida in se stesso, per il fatto medesimo di essere pronunciate irriflessivamente.

 

Ph: Alberto Scarpinato. 


Da sempre, d’altro canto, la strategia di irridere risponde a due bisogni: coprire il proprio senso di inadeguatezza, ovvero la mancanza di una controproposta di merito, e al medesimo tempo stigmatizzare e deformare l’immagine dell’avversario. Si concentra su quest’ultimo l’attenzione collettiva, distogliendola dal vuoto pneumatico del proprio dire. L’anti-intellettualismo è tornato in auge da molti anni ed è il vero corredo, come nel più classico fascismo, delle posizioni che simulano una disponibilità all’azione o, comunque, una reattività basata sull’enfatizzazione della pulsione, a tratti quasi etologica, comunque pavloviana. Non è un caso, quindi, che un nuovo contenitore di questo campo di aggressività, che si legittimano da sé per il fatto stesso di manifestarsi, emergendo da una latenza alla quale erano consegnate ma non per questo sedate, sia offerto dal web e, più in generale, dalla gigantesca sfera della comunicazione pubblica. La dilatazione dello spazio virtuale sembra corrispondere ad una contrazione della sfera pubblica e, in immediato riflesso, dell’esercizio politico. Il fascismo perenne non è mai un “di più” di politica, costituendone semmai la sua estinzione, sostituita da simulacri identitari e da un vuoto ripetersi di formule ossessivamente manipolatorie. Il discorso fascista è allora suggello della crisi radicale dell’universalismo egualitario, sostituito dal bisogno di uniformità come anche da un narcisismo tanto debole quanto diffuso. Le due cose, infatti, non sono per nulla in contrasto. Il vero rischio che si sta correndo, soprattutto in alcuni ambienti politici, è di convincersi che la risposta a questo stato di cose sia garantita da un pericoloso baratto, quello che sostituisce alle battaglie per i diritti sociali l’enfasi esclusivista sui diritti civili, intendendo questi ultimi come la garanzia del pluralismo quand’essi, in assenza di reali possibilità di accesso alle risorse materiali ed espressive per una parte sempre più rilevante della popolazione, potranno essere fruiti esclusivamente come diritti alla differenza individuale o di gruppo.

 

Anche qui si ingenera un’eterogenesi dei risultati poiché, poste certe condizioni, il riconoscimento delle specificità culturale, se non si incardina in una struttura sociale a mosaico, dove le diseguaglianze economiche (che non si sovrappongono necessariamente alle differenze identitarie) non si contemperano e smussano vicendevolmente, può enfatizzare, per paradosso, la separazione tra gruppi e la loro reciproca ostilità. Contribuendo a rompere il tessuto non solo costituzionalistico ma anche democratico del Paese. Oggi il problema non è il ritorno del fascismo vecchio stile, e del suo corredo razzista, ma l’affermarsi di una vera e propria egemonia sub-culturale che rimanda al radicalismo delle destre estreme, nobilitate, in alcuni loro aspetti, a elementi delle culture di governo. Il dispositivo antisemitico sta dentro questa traiettoria collettiva. Il discorso in tal senso ricorrente demanda a diverse parole chiave, variamente declinate: «identità», «straniero», «invasione e minaccia», «popolo e morale» (soprattutto nel senso di una ipotetica rottura dell’ordine naturale e della funzione della politica come strumento per ripristinarlo), «élite e popolo» (ovvero della lotta dal basso contro l’alto), quindi «prossimità e distanza» così come «autenticità e artificiosità» (alla ricerca delle radici perdute del legame sociale) ma anche «Europa e antieuropeismo». Due sono le sintesi possibili di questo novero di elementi che stanno nell’agenda della contemporaneità: ciò che viene identificata come una sindrome, politicamente profittevole, di «panico identitario» (derivante dalla perdita degli status e delle garanzie sociali) e, sull’altro versante, il sogno – che si fa incubo – di transitare dal sociale al naturale, garantendo la fissità dei ruoli e la cristallizzazione delle identità collettive.

 

La sfida lanciata da tempo dalla destra radicale sta nel suo passaggio dalla conservazione al movimento, per ripristinare «l’ordine naturale perduto», presentandosi come soggetto che intende guidare il mutamento e, nel medesimo tempo, contrapporsi ad un liberalismo che si limita a registrare i cambiamenti, dipingendoli e spacciandoli per neutrali, poiché di essi ne beneficia, a discapito della «comunità di popolo». Lo fa intrecciando due temi di fondo: lo sposare la causa di una “cultura inalterabile”, tale poiché “autentica”, ed autentica in quanto legittimata dal suo avere profonde radici nella Gemeinschaft, insidiata dalla modernità cosmopolita della globalizzazione; l’abbracciare un’idea ancestrale di popolo, direttamente e immediatamente minacciato dallo sradicamento dei processi immigratori. Il popolo è inteso come una sorta di essenza organica, una somma indistinta di individui, un autentico «fascio» di omologhi, che conta per il suo essere quantità, alla quale si incarica di dare significati e indirizzo politico il capo carismatico. A ciò si affianca la falsa critica del neoliberalismo: sottratta al campo dell’analisi critica, diventa neonazionalismo e rigetto tout court del liberalismo. Il tutto, condito dal presentarsi come «pensiero non conforme», per sedurre il pubblico, soprattutto quello giovanile, dando a temi vecchi una patina di originalità. Ciò a cui stiamo assistendo è un ribaltamento dei poli, dove l’antagonismo viene letteralmente metabolizzato dentro l’identitarismo populista. Si tratta della restaurazione di una «teologia politica» fondata sulla «nazione». La quale cosa implica il riposizionamento del legame sociale, il suo nuovo radicamento in un determinato territorio ma anche il vivere il rapporto con gli omologhi come un destino tanto ineluttabile quanto imprescindibile. E come tale da desiderare.

 

Da ciò deriva il comunitarismo di ritorno tipico del radicalismo di destra: il «suolo», in quanto istanza generativa di identità e tradizione, viene contrapposto alla «tecnica»; è enfatizzato il valore della lentezza in contrapposizione alla velocità delle transazioni, soprattutto finanziarie; è identificata la prossimità nelle relazioni interpersonali come indice di veracità morale; si stabilisce un’affinità tra le persone in base ai vincoli di reciprocità etno-culturale e non al contratto e alle intermediazioni, altrimenti garantite dal diritto; si rimanda all’“autenticità”, che è tale sempre e comunque solo se perduta nei miasmi della contaminazione causata dai processi migratori (e come tale da ritrovare attraverso un’opera collettiva di risanamento della società, identificando chi può fare parte di quest’ultima a pieno titolo e chi no); si accentua il ruolo delle emozioni come fonte sorgiva della comunità politica (l’immediatezza, la “spontaneità”, ancora una volta la naturalità di contro alla distanza, alla mediazione, alla ragione e al calcolo, freddi strumenti di una borghesia eurocratica). Già da questo primo novero di temi, non si avrà difficoltà a ritrovare alcuni lineamenti di fondo della vecchia e mai tramontata «rivoluzione conservatrice», il vero filo nero dell’intelligenza fascista nel Novecento. E tuttavia il catalogo non si esaurisce con questi accenni. Fondamentale, ad esempio, è il rimando al tema, già citato, del «panico identitario», che nasce dal bisogno di ridefinirsi «in rapporto a comunità molto coese». Si tratta di un gioco degli specchi: la percezione che gli “altri” siano un fronte unito, minaccioso, induce a riflettere sulla propria condizione presente, sempre più spesso intesa come uno stato di miseria che nasce dal non identificarsi in una dimensione intersoggettiva.

 

La nozione di «popolo» si rigenera alla luce di questo riscontro che si fa paura: cosa sarò io se non saremo capaci di diventare, insieme, di nuovo qualcosa? È questa la condizione per cui non solo gli individui ma una comunità politica si spostano sempre di più sul piano inclinato dettato da chi ha il controllo della costruzione di immagini del presente. È la condizione per la quale ciò che resta di una sinistra senza spirito e priva di corpo si fa dettare l’agenda dalla “vecchia-nuova” destra illiberale. Un paradosso che non nasce solo dall’inanità culturale della prima ma in primis dalla inconsistenza del “liberalismo” del quale si ritiene depositaria. È proprio quest’ultimo elemento ad alimentare, come se si trattasse di una sorta di risarcimento, i fantasmi miracolosi di un ritorno ad un passato edenico, che si dice perduto. Ne deriva, come conseguenza prevedibile, l’insistenza sui «valori» e sulla restaurazione della morale. Lo scambio conflittuale che viene proposto è quello di «rimoralizzare spazi senza regole» di contro alla minaccia anomica. Il nesso logico diventa quindi questo: perdita del controllo del territorio e diffusione della mancanza di regole; reazione attraverso la ricostruzione di una morale altrimenti oltraggiata; identificazione degli individui attraverso la loro appartenenza comunitaria; saldatura tra comunità e morale. 

 

(1/continua)

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