Razzismo contemporaneo e sovranismo / Sovrano senza scettro
Afferma l’enciclopedia Larousse che il sovranismo è «la dottrina dei difensori dell’esercizio della sovranità nazionale in Europa». La sua radice sarebbe essenzialmente difensiva (quindi negativa, perché derivata per sottrazione), intendendo impedire il trasferimento di poteri, funzioni, saperi e competenze dallo Stato nazionale ad un organismo ad esso sovraordinato, federale o internazionale. In tale processo, infatti, il sovranismo identifica l’indebolimento e la disintegrazione dell’identità storica di una collettività, insieme allo svuotamento progressivo del principio democratico, soprattutto laddove esso invece istituisce e vivifica un nesso di rappresentanza diretta tra cittadini e decisori politici. La risposta alla globalizzazione senza confini, quand’essa si fa spazio totale di relazioni e di scambio, al medesimo tempo assolutista e autosufficiente, riposerebbe pertanto nella ricostruzione di saldi confini nazionali, a presidio di un territorio che è descritto come altrimenti assediato ed espropriato. Assediato dal più potente esercito che ci sia, quello della merce, ed espropriato non solo di capacità decisionale ma anche delle funzioni di rappresentanza degli interessi e delle identità territoriali.
Il movente collettivo che sta all’origine del ritorno della rivendicazione di una sovranità che si vorrebbe tanto «popolare» quando immediata, ossia diretta, è quindi il timore di decadere nell’insignificanza. È la vera condizione dettata dall’angoscia per il «sempre uguale», quest’ultima cifra profonda dei processi di integrazione verticale che si accompagnano alla globalizzazione in atto. La tematizzazione per la «minaccia» che sarebbe costituita da flussi migratori, infatti, non ruota intorno alla diversità di cui i migranti stessi sono depositari, e quindi portatori, bensì all’attentato che costoro effettuerebbero nei confronti della coesione dei paesi ospiti: cercando di diventare “uguali” a noi, vengono per carpirci un diritto incedibile e indivisibile, mettendo a repentaglio l’omogeneità sociale. Non è pertanto l’altrui rivendicazione di alterità ma il timore per l’alterazione alla propria fragile soggettività a fomentare i peggiori pensieri di chi assiste al cambiamento comprendendo di non esserne protagonista ma solo destinatario.
Il razzismo contemporaneo, nel suo dispositivo differenzialista (ognuno stia a casa sua con le caratteristiche che gli sono proprie) è il cuore pulsante del sovranismo. Non si teme il diverso, si ha semmai paura di chi vorrebbe trasformarsi in omologo, sottraendo spazio fisico e simbolico, risorse materiali e cittadinanza sociale, ai “già inclusi”. Questo ipotizza la cosiddetta «teoria della sostituzione»: vengono da “noi” non solo per “prenderci il posto” ma soprattutto per essere come “noi”. Ciò che si vuole recintare, quindi, è se stessi, non gli altri. Poiché ci si sente scontornati. Urla all’«identità», alle «tradizioni», al «buon, vecchio passato» (ma adesso anche al decantato «territorio», obiettivo di una retorica del discorso pubblico di cui sono cantori, nel medesimo tempo, i Farinetti e i Salvini) chi sa, in spirito suo, di esserne sprovvisto. I bonzi del rossobrunismo si rallegrano di questa denuncia, identificando nel rifiuto delle migrazioni contaminanti la premessa per rilanciare un soggetto storico altrimenti assente, la classe antagonista. Specularmente, le vestali del liberismo umanitario, molto diffuse in una sinistra che ha perso i suoi referenti sociali (così come l’idea stessa che la società non sia solo la somma del già esistente e la realtà non si riduca al già dato), si trincerano nel fortilizio della circolazione – delle merci, del denaro, degli esseri umani – intendendolo come l’unico indice possibile dell’evoluzione delle relazioni sociali.
Alla radice del sovranismo, e del suo cascame di protezioni e protezionismi, sicurezze e politiche securitarie, identitarismi e agorafobie, confini e muri, c’è la diffusa percezione che il paradosso della globalizzazione riposi nella contrazione dello spazio sociale, a fronte dell’espansione infinita, indefinita ed interminabile di quello mercantile. Laddove il secondo si divora il primo. Non è un caso, allora, se l’ordinamento capitalistico (l’unico soggetto al medesimo tempo internazionalista e “rivoluzionario”) sia oggi antagonista rispetto a quello rappresentativo, di matrice costituzionalistica e sociale, fondato sul patto keynesiano della redistribuzione delle ricchezze prodotte collettivamente. La risposta che ne è derivata è che, per ripristinare un minimo di efficacia della volontà politica, la rappresentanza debba contrarsi, attraverso la sua secca riduzione alla finta dialettica tra masse e capo, «popolo» e leader. La fine dell’intermediazione, della funzione dei corpi intermedi, ne diventa quindi l’ossatura indispensabile.
L’unica cosa che da ciò potrà concretamente derivarne sarà tuttavia la vera sostituzione che è già in atto nelle nostre società, dove di contro all’emancipazione attraverso le opportunità e i diritti si sta affermando l’ipertrofia del corporativismo. Si rischia allora di scoprire che il rimando arcadico e ingannevole alle virtù di un popolo che sarebbe già in sé corpo unico – come tale non necessitante di mediazioni e rappresentanze che non siano quelle “dirette”, in quanto «nazione sovrana», quindi detentore di una funzione incedibile – è invece funzionale alla sua concreta segmentazione. Poiché il sovranismo registra il ridimensionamento degli Stati-nazionali, non il possibile ripotenziamento delle loro funzioni. Ne è quindi la impotente ma compiaciuta dottrina, che gabella uno scopo manifesto di fatto applicandosi per raggiungerne un altro, esattamente opposto al primo: spezzare l’unitarietà del vincolo costituzionale per trasformare la società in un arcipelago di piccole comunità etnocentrate. Quest’ultimo profilo, al medesimo tempo sociale, politico e culturale, è ciò che meglio si attaglierebbe, in prospettiva, al ritorno di una qualche «forma-impero», alla quale le democrature presenti sulla scena globale oggidì guardano con interesse, in quanto garanzia della loro continuità nel corso del tempo. La circolazione vorticosa di valori astratti, a partire da quelli prodotti incessantemente dalla finanza, svelle ogni resistenza basata sui quei codici di senso condiviso con i quali si è tentato di dare una risposta definitiva alle tragedie del Novecento, fissando le coordinate dei poteri e, quindi, i limiti reciproci tra di essi.
Il sovranismo si inserisce di buon grado dentro le dinamiche odierne, dando ad essere forma e contenuti, significati e indirizzi. Soprattutto, rivestendole di una parvenza di coerenza politica. Se per certuni è l’altro nome del nazionalismo nell’età della crisi degli Stati nazionali, non ci si può sottrarre all’impressione che esso sia senz’altro un prodotto del declino dello stato sociale. Proprio per questo ruota intorno al perno della dialettica tra inclusione ed esclusione. Poiché al centro della sovranità c’è il riconoscimento, l’accettazione e la protezione, tre condizioni che oggi possono definirsi appieno solo per ciò che vanno escludendo. Non è un paradosso. Il sovranismo presuppone la minaccia dei propri confini. Una minaccia identitaria e quindi esistenziale, senza la quale, altrimenti, non saprebbe come proporsi in quanto dottrina della virtù della giurisdizione su spazi circoscrivibili. Oggi, nell’età della «mondializzazione», propugna il risarcimento per una perdita, quella che sarebbe avvenuta con il conferimento di attribuzioni della sovranità nazionale ad organismi sovranazionali. Un processo che viene presentato come un intollerabile esproprio ai danni del «popolo». Così facendo, tuttavia, simula e millanta di potere dare un nome pronunciabile e condivisibile ai processi in atto, quando invece ne occulta la matrice più verace. Che non è politica ma economica e, in immediato ricalco, culturale.
A queste righe si può solo aggiungere che, sia pure in altra epoca, a tratti molto diversa dalla nostra, l’oracolare Walter Benjamin scrisse un frammento fondamentale, «il capitalismo come religione». Poiché oggi la critica all’esistente è soprattutto critica all’esistenza autonoma delle credenze, sostituitesi non alle ideologie bensì alle culture politiche. Se per Benjamin il capitalismo è essenzialmente una religione fattuale, ovvero priva di una teologia, in quanto ogni sua manifestazione si riduce all’esecuzione di un rito, cioè di una serie di azioni simboliche identiche e immarcescibili; se il culto del capitalismo è interminabile, divorando letteralmente il tempo fino a sostituirsi ad esso; se un tale ordine simbolico non garantisce liberazione, consolazione, resurrezione ma solo «Schuld», termine che indica al medesimo tempo la condizione della colpa e del debito, entrambi inesauribili; se il Dio della modernità e per definizione nascosto, ossia non identificabile ma solo intuibile, non offrendo altra meta che non sia quella di continuare a ripetere i medesimi gesti, allora non è sul piano dei territori che si gioca la possibilità di un’emancipazione a venire ma sul versante della liberazione del tempo. Che se ancora nei decenni trascorsi era offerta dalla limitazione della violenza pervasiva e intrusiva del lavoro nella vita (dal «tempo libero» alla «liberazione dal lavoro», poiché dannazione quotidiana) ad oggi – ridimensionandosi la rilevanza del lavoro medesimo nella produzione sociale di valore – è il tempo a domandare una completa riconsiderazione in una strategia politica che si fondi sulla critica delle cristallizzazioni esistenti. Ai sovranisti, d’altro canto, bisognerà pur rispondere (e contrapporre) un qualcosa che non sia solo il gioco della rimessa. A spostarsi continuamente all’indietro, si rischia, prima o poi, di cadere giù dalla crosta terrestre.