Il discorso fascista e le sue rimodulazione / Destra. Tristi tropi
Come definire, senza correre il rischio di risultare anacronistici, una destra che, oramai, pare essere così pervasiva da occupare spazi e linguaggi, pratiche e narrazioni che un tempo sarebbero appartenute a ben altri soggetti? Aggiungiamo: quanto della matrice fascista e, in immediato riflesso, di quella neofascista, rimane in essa? Ribaltando l’approccio, piuttosto che domandarsi quanto del passato non sia del tutto trascorso non è forse meglio chiedersi cosa il presente richiami ancora di un certo passato, e in quale misura ciò può risultare di nuovo funzionale alla costruzione di una parte delle identità politiche correnti? Il rischio, peraltro, è sempre il medesimo, ovvero quello di girare a vuoto, sfoderando stancamente i toni della polemica nel momento stesso in cui il suo oggetto sembra, ai molti, essere definitivamente evaporato, comunque archiviato, perché ridotto a puro strumento di etichettatura. Utile, per la sua natura di sintesi, è il volume a cura di Corrado Fumagalli e Spartaco Puttini, Destra, editato nella collana Ricerche della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli (pp. 120, Milano 2018). La ricognizione nei sette brevi saggi contenutivi è tanto asciutta quanto diretta. Non è incentrata sul fenomeno neofascista in quanto tale ma sulla persistenza di tracce e frammenti d’esso, oltreché delle sue rimodulazioni, in alcune formazioni politiche odierne. Così facendo, se ne identifica l’aspetto sub-culturale, strettamente consustanziale alla stessa democrazia (Piero Ignazi). Il calco fascistoide, infatti, è una sorta di reciproco inverso di quest’ultima.
La quale, infatti, spesso si definisce in opposizione ad esso, ovvero per ciò che non intende essere o divenire. Se diciamo fascismo, e tutte le parole che da esso derivano o sono associabili, a partire dai termini che presentano un prefisso accostatovi (pre, neo, post), ci riferiamo ad un tropo, ossia ad un uso traslato, spesso ampliato, di un termine che assume accezioni, significati, valenze, se non anche a volte valori, tanto ampi quanto eterogenei. Il tropo è una figura retorica che ha declinazione paradigmatica, poiché con esso vi è un trasferimento di significato da una dimensione primigenia, o da un nucleo originario, ad un’altra situazione, enfatizzandone l’aspetto simbolico e figurativo. Ciò facendo, assume una rilevanza non solo quanto ne è investito come destinatario di significazione ma anche quanto è stato assunto come elemento paradigmatico. Va da sé che in questo transito si istituisca un campo di tensioni semantiche, una rete di contenuti che si alimentano vicendevolmente. Le parole, d’altro canto, hanno valore per la loro plasticità. Nell’adattarsi a contesti mutevoli non per questo perdono di aderenza, semmai confermandola in rapporto all’evoluzione dei tempi.
È bene fare questo inciso poiché uno dei passaggi critici sui quali si misura la pertinenza del termine «fascismo» è, per l’appunto, la sua fruibilità in diversi contesti per definire situazioni differenti ma, evidentemente, accomunate da alcuni elementi di fondo. Si pone quindi la questione della sua circoscrivibilità, affinché il ricorso inflattivo non ne decreti la perdita di aderenza ai dati concreti. Il fatto che la parola abbia assunto anche il carattere di invettiva, di epiteto, comunque di espressione denotativa e connotativa in senso perlopiù dispregiativo, carica maggiormente di ambiguità, comunque di porosità, la sua funzione ricorsiva. È questo, quindi, un primo punto problematico di ragionamento. Così come va chiarito che il ricorso a locuzioni come «destra estrema» o «radicale» – spesso usate in funzione sostitutiva, comunque per similitudine, a neofascismo – richieda una maggiore cautela semantica, laddove il radicalismo, che rimanda all’opposizione ai principi costituzionali vigenti, non coincide con l’estremismo, che nella giurisprudenza tedesca indica invece l’incostituzionalità dell’organizzazione che si fa carico di una specifica connotazione ideologica e delle sue conseguenti prassi politiche. Il secondo problema da prendere in considerazione riguarda la «visione “geografico-assiale” della politica» (Marco Tarchi). In altre parole, la diade destra-sinistra è ancora funzionale, non solo in senso identitario ma anche operativo, rispetto all’articolazione delle diverse opzioni politiche, in Italia così come in Europa? La sua qualità euristica persiste oppure si è consumata?
Più in generale, sussiste ancora – nella politica contemporanea – una dimensione realmente dicotomica? Si tratta di una divaricazione valoriale oppure rimanda ad altri orizzonti? La risposta è affidata a Massimo Cacciari quando già nel 1982 affermava che: «l’impostazione del problema politico in termini destra-sinistra appare tipico di un messaggio che intende indurre a scelte operative nette, tese a includere o a escludere rapidamente ed efficacemente dal governo interi gruppi, interessi, culture […] vuole indurre decisioni drastiche, imporre scelte di schieramento: amico-nemico (con buona pace di chi usa tale schema, ma respinge pregiudizialmente Carl Schmitt)». La polarizzazione è senz’altro funzionale al persistere di una dimensione identitaria nell’operare politico (senza la quale la stessa politica peraltro perirebbe), così come all’agire inclusivo od esclusivo in base ad approcci pregiudiziali, ma non riesce a dare pienamente di conto del mutamento che caratterizza l’andamento dell’epoca corrente, dove lo scompaginamento delle identità precostituite, a partire da quelle del lavoro, si riflette sulla successiva domanda di rappresentanza e sulla richiesta d’identificazione politica. In questo frangente, più che dichiarare abrogabile la dicotomia tra destra e sinistra (una facile e ingannevole soluzione, che in realtà quasi sempre propende per assorbire il secondo polo nel primo), varrebbe forse la pena d’introdurre l’elemento del pluralismo all’interno dei singoli campi di appartenenza. Le «destre», allora, manifestano nel proprio seno caratteri di marcata differenziazione.
Un ambito di forte tensione è quello che rimanda alle politiche economiche e sociali. La separazione tra una destra neoliberale e liberista, emersa definitivamente negli anni Ottanta (benché i suoi fondamenti concettuali e ideologici riposino nei decenni precedenti, costituendo una risposta alla diffusione delle economie sociali di mercato e ai sistemi redistributivi previsti dal costituzionalismo postbellico), poi divenuta egemone negli ultimi decenni, rispetto ad una destra che ha recuperato la sua dimensione «sociale», gaucho-lepénistes, è un elemento fondamentale per comprendere dove si ridislochi anche il neofascismo continentale ed italiano. Poiché nella dialettica tra la prima e la seconda senz’altro si identifica con i motivi espressi da quest’ultima, tanto più quando ad essi si abbina l’antiliberalismo, declinato essenzialmente come rifiuto dell’individualismo atomistico. Un altro ambito di tensioni è quello che rinvia all’ambiente, inteso nella sua fisicità di luogo antropizzato, all’interno del quale si svolgono le relazioni di reciprocità tipiche di un’organizzazione comunitaria. La riformulazione della «comunità di stirpe», accezione etnica della Gemeinschaft, ruota intorno al tema della «Heimat», una patria fisica che è prima di tutto un concreto vincolo di terra e di carne – per l’appunto una «patria carnale» – e poi solo successivamente un legame giuridico. La stessa nozione di diritto positivo, creato dal consesso umano attraverso la sovranità dello Stato, è qui invece piegata ad un fondamento organicista, dove la radice delle norme risiederebbe, in ultima istanza, in un diritto naturale che promana da una immutabile dimensione ecologica, una sorta di sistema alla perenne ricerca di una omeostasi.
Il ritorno di fiamma di quest’ultimo motivo è peraltro agevolato dalla spaccatura consumatasi con la destra industrialista e poi neoliberale, rilanciando il discorso ecologico, un tempo appannaggio della sinistra ed ora assunto da una parte consistente della destra radicale (e anche di quella neofascista). Per quest’ultima, si tratta di una frattura inevitabile, essendo vissuta sia come la riedizione del rifiuto di un certo capitalismo borghese, per sua natura volto a distruggere gli “autentici legami comunitari”, sia la legittimazione del tema dell’immigrazione come processo non solo invasivo ma innaturale, tale poiché destinato a mutare gli altrimenti secolari equilibri socio-ambientali. Al centro di queste formulazioni c’è la dialettica tra artificiale e naturale, rifiutando il primo capo della dicotomia poiché colonna portante di una modernizzazione senza identità (e quindi priva di luoghi, che sono tali anche perché si perimetrano attraverso le frontiere). Non può stupire che il rimando alla «decrescita», più o meno «felice», sia stato assunto da questa destra come un’opportunità, legandosi a tratti di una visione che vorrebbe enfatizzare la nobiltà della dimensione spirituale della vita quotidiana, in una sorta di anacoretismo militante. Ancora una volta va ricordato come la teologia politica del radicalismo abbia una forte connotazione restaurazionista, rivendicando la necessità di ripristinare qualcosa di preesistente ma poi perduto nel tempo per via dei processi di meticciato, di imbastardimento e di perversione della purezza originaria. Il suprematismo razziale e il restaurazionismo comunitario sono, d’altro canto, due ingredienti imprescindibili. Un terzo fattore di identificazione è la politica internazionale, dove forse si registrano le maggiori discontinuità rispetto al passato.
A tale riguardo, due sono gli aspetti più significativi. Il primo di essi, confrontandosi con la necessità di fare fronte alla improponibilità del vecchio anticomunismo, è il transito dall’atlantismo all’«antimondialismo». Se la funzione antisovietica degli Stati Uniti e del blocco occidentale era comunque imprescindibile, con la consunzione del bipolarismo si è passati alla critica della pervasività della globalizzazione, insieme al rifiuto del ruolo di primazia di Washington nelle relazioni internazionali. Il nucleo di questo riposizionamento sta nella denuncia della natura a sua volta artificiale del potere globalizzante espresso dagli americani. Il secondo aspetto è il netto spostamento, sia tra i movimenti populisti che nella destra radicale, dalla dimensione locale della lotta politica alla valorizzazione di quella globale. Un mutamento di scala che cerca di superare l’attrazione per l’effetto nicchia, funzionale a disegnare e tutelare il perimetro della propria identità ma incapace di fare fronte alle nuove domanda di rappresentanza che provengono da una platea sempre più ampia. La traiettoria della Lega di Matteo Salvini ne è al riguardo un chiaro esempio. Più in generale, sembra verosimile il pensare che negli anni a venire, a fronte della crisi degli ordinamenti delle organizzazioni internazionali multilaterali, così come dei sempre più faticosi tentativi di dare corpo a progetti quali l’Unione europea, venga contrapposta una forma alternativa di legame basato sulla reciprocità tra movimenti e partiti – nonché eventualmente Stati – che condividono un approccio sovranista, identitario ed etnicista. Il gruppo di Viségrad, ancorché nella sua intrinseca fragilità, ne è forse una preconizzazione.
Non è allora un caso se la Russia di Putin costituisca oggi un polo d’attrazione quasi fatale ed ineludibile, per la sua miscela di imperialismo etnico, di tradizionalismo e di politica di potenza. A rimorchio di queste nuove sensibilità c’è poi la necessità di ripensare le forme di organizzazione dello stesso Stato. Poiché qualsiasi ipotesi sovranista deve comunque confrontarsi con la crisi degli Stati nazionali e con la necessità di ricongiungersi all’identità comunitaria. L’attenzione verso il federalismo, quindi, permette di recuperare la dimensione locale, proiettandola su un agone politico più ampio. L’insieme di questi elementi si riordina e si organizza, infine, all’interno di una dicotomia che se non è di per sé inedita tuttavia viene riformulata alla luce di una frattura antropologica, ovvero quella tra individualismo e comunitarismo. «C’è, dietro questa divisione di fondo, un drastico scarto tra due impostazioni antitetiche: una caratterizzata da una concezione prometeica e, si potrebbe dire, hobbesiana, che vede l’uomo come il centro e il dominatore designato della natura e ne esalta le specificità individuali, inquadrando la sua convivenza con altri soggetti sullo stesso territorio in un’ottica di necessità, di obbligazione politica determinata dal bisogno di protezione dalle minacce alla vita a alla proprietà di cui si dispone; l’altra connotata da un’antropologia anti-universalista, che vede gli esseri umani come soggetti naturalmente radicati in specifici contesti locali e in definite tradizioni culturali e ne lega il destino individuale a quello della collettività in cui sono inclusi per nascita ed eredità […]» (Tarchi, p. 18).
Rimane il fatto che questi campi di tensioni oggi sono frequentemente riassorbiti all’interno di un’ampia offerta, quella della destra populista che, in sé, raccoglie anche segmenti del risorgente neofascismo. I tratti del populismo di destra sono netti e agevolmente riassumibili in pochi punti, tra i quali : «1) l’ostilità verso la politica rappresentativa, se non addirittura verso la stessa politica, che convive però in modo ambivalente con la convinzione che (soprattutto in circostanze eccezionali) l’impegno politico sia necessario; 2) l’identificazione con una immagine mitizzata della “terra patria” (heartland), da cui sono naturalmente esclusi determinati elementi alieni, intesi come minaccia per la sanità del popolo: 3) l’assenza di un ancoraggio solido a quei valori ben definiti come l’eguaglianza, la libertà, la giustizia sociale, che invece caratterizzavano molte ideologie; 4) la stretta connessione con la convinzione di essere di fronte ad un processo di estrema crisi; 5) le tendenze a semplificare le grandi questioni politiche e a rifuggire dalla dimensione istituzionale (aspetti che spesso determinano il carattere effimero del fenomeno); 6) l’attitudine camaleontica ad adattarsi a contesti in cui si ritrova e a sviluppare dunque, accanto alle proprietà primarie che lo distinguono, delle proprietà secondarie adeguate all’ambiente» (Damiano Palano, p. 82). Il punto di partenza o, se si preferisce, il ventre molle di questo insieme di elementi è storicamente offerto dal moderatismo qualunquista a dalla nozione, recuperata dalla lezione di Jean Baudrillard, di «maggioranza silenziosa». Lo studioso la correlava al nesso tra decadenza del politico e «morte del sociale», laddove quest’ultimo tende a dissolversi, poiché non sussiste più nessun significato sociale capace di dare forza ad un significante politico.
La maggioranza silenziosa, in quanto realtà scontornata e informe, «entità nebulosa» dai tratti indistinti, «simulazione di un sociale per sempre inesprimibile e inespresso» come anche «sostanza fluttuante la cui esistenza non è più sociale ma statistica [...] che si manifesta attraverso il sondaggio», è il campo operativo dei fascismi storici come di quelli odierni. Di essa, infatti, raccoglie ed esprime il bisogno di transitare dal conflitto sociale (vissuto con orrore, in quanto indice di sfaldamento della propria fittizia unitarietà) alla dichiarazione dello stato di crisi perenne, quella condizione di emergenza per cui si cerca la delega risolutiva, da conferire ad un soggetto capace di esercitare una sovranità tanto assoluta quanto insindacabile. Da questo punto di vista le maggioranze silenziose non esprimono una posizione moderata, e neanche conservatrice, non avendo necessariamente interessi da tutelare bensì identità da definire, di cui i soggetti neofascisti, quando sono in campo, si incaricano di dare una qualche forma. Non è un caso, allora, se lo spazio del populismo di destra, e dei suoi addentellati radicali ed estremisti, stia essenzialmente nel vuoto della politica. La triade che unisce l’etnicizzazione del popolo, l’antagonismo nei confronti delle istituzioni e l’orientamento anti-élite (quando quest’ultimo si trasforma nel sistematico rifiuto del principio di autorevolezza) è il campo sul quale i perdenti della globalizzazione incontrano la vendetta dei deprivati. Un campo ampio, nei confronti del quale diversi attori collettivi si stanno rivolgendo, dinanzi all’inabissamento delle politiche redistributive e della stessa nozione di giustizia sociale.