Un paese emigrato e terremotato
Che lavoro fai? Lavoro in Germania. Che lavoro? Gelataio ambulante, sei mesi all’anno, da marzo a settembre. Dove lavori? In un paese vicino Stoccarda. Come ti chiami? Nicola Melillo. Vai da solo in Germania? No, con due di Colliano. Per chi lavorate? Il padrone è di Palomonte. Quanto guadagnate? Novecento euro di stipendio, più novecento di provvigione. E nei sei mesi che stai qui che fai? Prima ho lavorato in un ospizio a Lioni, poi è finita. Comunque pagavano poco, dieci euro al giorno. Con chi vivi? Con i miei genitori. Che fanno? Un po’ di campagna, e poi accudiscono mia nonna, praticamente la sua pensione è l’unica entrata sicura.
Castelnuovo di Conza comincia così. Siamo nel punto dove la provincia di Salerno confina con le province di Avellino e di Potenza. Sono le undici del mattino del ventidue dicembre. Nicola mi è venuto incontro dicendo il mio nome: ho letto su Facebook che oggi venivi qui. Lui è uno dei tanti che stanno su Facebook senza commentare, senza mettere mi piace. È come se partecipassero a una festa a cui non si sentono invitati.
Nicola ha trentun’anni e vorrebbe inventarsi un lavoro, ma qui il lavoro si dà a dosi omeopatiche. Il lavoro non c’è o c’è con poco guadagno: difficile avere più di seicento euro al mese. Bisogna lavorare tanto per avere poco più dello stipendio base di questo paese: i 480 euro della pensione minima. Nicola mi dice che ai tempi di Monti fecero pure un servizio a Porta a Porta sul fatto che nel paese c’erano tanti pensionati che vivevano con la minima.
La campagna ha sempre offerto poco. Si lavorava nei campi, ma non qui, si andava nella Piana di Eboli, terra fertile, piena di serre. Un lavoro soprattutto per le donne. Gli uomini si dedicavano alla campagna indigena, aspra, franosa, buona solo a sfiancarti.
Chiedo a Nicola se ci sono stranieri in paese. Lui mi dice che c’erano i rumeni, le donne assistevano gli anziani e gli uomini andavano a lavorare nella Piana. Poi hanno tolto il pullman e allora i rumeni si sono spostati a valle. Ecco un paese dove emigrano pure gli immigrati. Qui l’emigrazione è una necessità e una vocazione (Castelnuovo risulta al secondo posto in Italia per incidenza del fenomeno migratorio). All’inizio del novecento erano quasi duemila abitanti, ora ne sono rimasti poco di un quarto. Se ne sono andati ovunque: San Salvador, Venezuela, Guadalupa, Africa, Stati Uniti, Svizzera, Germania, Belgio. Solo nel 1933, nonostante la politica fascista scoraggiasse le partenze, se ne andarono 424 persone. Terra di partenze e mai di arrivi. Terra a cui tanti non sono mai tornati, compresi i due commercianti di corallo Francesco Turi e Vito Pezzuto, che morirono nel naufragio del Piroscafo Ercole, anno di disgrazia 1861: secondo alcuni storici non fu colpa del mare, ma fu la prima Strage di Stato nel nascente Regno d’Italia (su quella nave c’era anche Ippolito Nievo che pare avesse con sé dei documenti che attestavano i finanziamenti dell’Inghilterra a favore della spedizione dei Mille).
La storia mai finita dell’emigrazione qui si è intrecciata con i terremoti: l’ultimo portò via ottantacinque persone la sera del 23 novembre del 1980 (nei paesi vicini ce ne furono ancora di più: 137 a Teora, 303 a Laviano). A tre chilometri c’è Santomenna che qualche tempo fa figurava al primo posto come paese più povero d’Italia. Stando alle dichiarazioni, qui il reddito è poco superiore ai quattromila euro, ci sono solo 33 paesi in Italia in cui il reddito dichiarato è inferiore. Ora sui guadagni si può discutere, ma i dati demografici sono inappellabili: nel 2015 una sola nascita a fronte di undici morti. E questo spiega il calo di popolazione superiore al trentacinque per cento che si è avuto tra il 2001 e il 2014.
Curiosi anche i dati sullo stato civile: i maschi celibi sono 148, praticamene uno su due non è sposato. E non risultano maschi divorziati. Nei paesi del Sud interno una delle famiglie più diffuse è quella composta da madre vedova con figlio scapolo. Quando si fanno i censimenti non si pensa mai a una famiglia di questo tipo. Spesso i censimenti mentono. Basti pensare alla differenza tra quanto si può leggere circa la situazione degli immobili a Castelnuovo e lo stato completamente diverso che si osserva venendo qui: un museo delle porte chiuse, l’intero centro storico con le case ricostruite dopo il terremoto quasi tutte non finite e precocemente avviate allo stato di rovine. Ma la rovina più grande è la sfiducia nel futuro.
Se parli con qualcuno il tema è sempre lo stesso: la mancanza di lavoro. Cosa si fa? Cosa si è fatto? Ci sono 275 ettari di terreno comunale. Qualcuno ha mai pensato di metterne una parte a disposizione dei ragazzi che vogliono lavorare queste terre? La sensazione nettissima che non ci sia un pensiero su queste zone. Chi le amministra non ha risorse e deve fare i conti con uno spopolamento che è anche cognitivo. La politica regionale è tutta sbilanciata sui luoghi più affollati, quelli che decidono le elezioni. E allora il sindaco di Castelnuovo, che è a capo di una lista civica, ma è vicino a Fratelli d’Italia, ha chiesto, per ora vanamente, la bonifica dell’impianto di compostaggio dove sono stoccate quasi ventimila tonnellate di compost di dubbia composizione. L’impianto è stato chiuso per l’intervento della magistratura ed è il classico esempio di una logica industriale che arreca danni ai territori più che portare risorse. In rete si parla di uno degli impianti più grandi d’Europa, ma a vederlo da vicino non sembra un impianto particolarmente avanzato.
Un paese come Castelnuovo di Conza non può essere salvato con logiche ordinarie. Le case in rovina per essere rifatte richiedono una spesa notevole. E poi che si fa? Il solito albergo diffuso in cui non alberga nessuno? Si potrebbe immaginare di metterle a disposizione dei profughi, ma per ora il Comune non ne ha accolto neppure uno. Allora bisogna pensare che i problemi dei paesi non si possono risolvere né dall’alto e neppure dal basso, occorre un incrocio di queste due logiche. Questa è anche la filosofia della Strategia Nazionale delle Aree Interne che sta partendo in molte regioni. Purtroppo Castelnuovo non appartiene alle aree prescelte. Forse sarebbe il caso che il Governatore De Luca mettesse alla prova qui il suo decisionismo. A cominciare dalla strada SS91 in condizioni vergognose. Illuminare Salerno può andare bene, ma poi devono restare i soldi per non spegnere i piccoli paesi.
In attesa che la politica faccia qualcosa, i paesi meritano comunque attenzione. Io ho passato a Castelnuovo tre giorni prenatalizi. Il primo giorno, dopo Nicola, ho incontrato un’anziana signora. E il bel quarto d’ora passato con lei è stato un tipico esempio di quello che io chiamo turismo della clemenza. Mentre riflettevo sul fatto che qui la vecchiaia lascia affiorare qualcosa dell’innocenza giovanile, ho incontrato un’altra persona del luogo che ho conosciuto su Facebook. Si chiama Luca Zarra. Anche lui sapeva del mio arrivo e ha pensato di donarmi un poco di cioccolata Svizzera e il miele buonissimo che fanno qui, ma il prodotto tipico è un altro, è la generosità.
Il secondo giorno ho parlato pochissimo: sono andato a mangiare il panino nel grande campo di calcio, dove sulle ampie tribune è cresciuta una fitta vegetazione. Un altro simbolo del paese è la chiesa a forma di torta nuziale: sono le chicche ereditate dalla stagione dello spreco. Ho guardato il paese fino a quando c’è stata la luce breve di dicembre. Non ho cercato il Sindaco, non ho chiesto informazioni a nessuno, ma sono andato via con un senso di gratitudine. Non è chiaro cosa possiamo fare per questi paesi: forse sono loro che possono fare qualcosa per noi.
Il terzo giorno, vigilia di Natale, mi sono fermato un poco al bar. Qui mi hanno presentato un uomo che sembra anziano, ma anziano non è. Ha perso nel terremoto la moglie e le sue tre figlie e anche la madre e due sorelle. Il viaggio finisce dove era cominciato. Il primo giorno nella piazza del paese avevo letto i nomi delle vittime del sisma divisi per famiglie. Mi aveva colpito questo gruppo: La Morte Giuseppina 26, Porreca Gerardo Vittorio 0, Porreca Maria Grazia 2, Porreca Filomena 4. Mi ero chiesto dove mai potesse essere il padre, me lo ero chiesto in uno di quegli attimi in cui ti arriva la vita degli altri, prima di continuare nella prigione della tua.
Questo articolo è apparso su L'Espresso.