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Caduto (o quasi) martedì scorso il governo, il Presidente del Consiglio si è soffermato a lungo in Parlamento a individuare i nomi di coloro che gli hanno sfilato da sotto la poltrona: i traditori. I giornali vicini a Berlusconi hanno anticipato, rilanciato e amplificato la parola, corredandola di biografie esplicative. Ma che cosa indica precisamente il termine tradimento? L’etimologia, che copriva una variegata area di significati, si è poi ristretta, nel corso della storia, ad alcune accezioni negative derivanti dall’ambito scritturale e militare.
Il verbo latino trado spaziava infatti tra vendere, raccontare, comandare ed affidare, secondo molteplici accezioni, sempre contenendo l’idea di passaggio data dal prefisso trans. Ad imporsi fu poi il significato di consegna (di una città, di armi o amici) durante un conflitto e certamente attraverso il dolo, come nell’uso del verbo in questione nei Vangeli ad indicare la consegna di Gesù da parte di Giuda (Luca, 22, 4). Ciò segnala che il tradimento si dà quando viene violato un patto di fedeltà o di lealtà, esplicito o implicito (e di qui derivano già molti aspetti problematici), quando colpevolmente si deludono le legittime aspettative altrui. Gli attributi principali che si desumono dalla bibliografia sull’argomento paiono essere l’inevitabilità e la vastità.
Il tema del tradimento attraversa l’intera cultura occidentale nei suoi testi principali. A partire dalle narrazioni del Vecchio e del Nuovo Testamento, in cui l’infedeltà di Adamo ai comandi divini, che è il presupposto alla caduta del genere umano, trova rispondenza redentrice nel sacrificio di Cristo, consentito dal tradimento dell’apostolo Giuda. I due episodi per tradizione si corrispondono logicamente antitetici nell’impianto dei libri sacri, fronteggiandosi opposti nel segno ma accomunati però dall’eccezionale impatto emotivo che da sempre ha colpito i lettori e imprimendoli, come pochi altri, in un’indelebile memoria.
Il tradimento nella cultura greca ci pare più fondato quando racconta dei legami tra uomini e dei, cioè nel caso di un vero e proprio trapasso tra sfere tangenti ma esclusive (la punizione di Prometeo, per esempio, figlio di una delle prime divinità, un titano, che inganna due volte Zeus) o comunque in presenza di un’infedeltà da parte di un uomo qualunque, più spesso di un eroe, nei confronti dei protettori superni. Sennò nel litigioso Olimpo o nelle guerre che insanguinano l’Egeo si possono trovare piuttosto figure di ingannatori (di cui Ulisse è naturalmente il campione). Essi fanno uso sistematico della menzogna e della doppiezza, che sono certo parte dell’armamentario del traditore, ma non ne rappresentano il punto qualificante.
Semmai sono gli storici del periodo antico ad aver restituito personaggi memorabili di traditori; nei conflitti tra le città greche e tra le fazioni interne alla polis si ricordano, grazie agli scritti di Tucidide che ne descrive il carattere e quindi le diverse motivazioni all’infedeltà (dall’avidità al narcisismo), Pausania che tradì Sparta, Temistocle ed Alcibiade che tradirono Atene. Un caso emblematico di defezione ancor più radicale perché di carattere etnico viene dalla vicenda umana proprio di uno storico, l’ebreo Giuseppe, che prima partecipa alla rivolta del suo popolo contro i romani e poi, conquistato dagli imperatori Vespasiano e Tito, abbraccia la cultura dei vincitori trasferendosi a Roma ed assumendo il nome di Flavio. Ma specie nei periodi più turbolenti della storia romana, quali il passaggio tra monarchia e repubblica o negli anni dell’impero, vengono immediatamente alla mente ritratti storici di traditori. La loro colpa più grave è di attentare all’integrità dello stato gettando i semi della discordia civile, per futili o viziosi moventi personali, siano essi l’orgoglio (Coriolano secondo Plutarco) o un’annosa dissolutezza (il Catilina di Sallustio e di Cicerone). Tacito, dalla sua particolare prospettiva di classe, colpisce soprattutto gli imperatori che vogliono conservare il comando, il loro corrotto entourage, i sottoposti avidi di riconoscimenti, sempre pronti ad oscure e sediziose trame per sbarazzarsi dei superiori e dei rivali, degli amici, e dei familiari per appropriarsi del potere con la congiura.
Nel primo Medioevo, in area francese, la più famosa delle canzoni di gesta, quella di Orlando, racconta la morte del paladino e la distruzione della retroguardia franca causate dalla fellonia di Gano, il barone che diventerà, per tutta una tradizione di genere giunta fino al Cinquecento italiano, il prototipo appiattito del traditore capace di creare instancabilmente trame e inganni a danno dei propri correligionari. Un amore adultero, per altro fortemente implicato con il motivo politico e feudale della fedeltà, cantano invece i trovieri della lirica provenzale e lo stesso Chrétien de Troyes nei suoi “romanzi”, esaltando gli ideali della perfetta cavalleria, imposta classicamente il tema (si pensi a Lancillotto e Ginevra) compreso delle relative tensioni tra amore e valore militare (il problema della recreant in Erec et Enide).
Il senso del tradimento amoroso precedente scioglie la propria ambiguità nell’Inferno di Dante; forse il più celebre canto di tutta la Divina Commedia, il quinto dedicato ai lussuriosi Paolo e Francesca, prende preciso spunto dall’epica amorosa e, pur nella fascinazione e nella pietà, ne chiarisce il sottofondo peccaminoso. La cultura tassonomica di Dante si esercita poi lungamente sul tradimento, cui viene dedicata, alla fine di ben tre canti, la chiusura orrenda della prima cantica. Infatti sul “fondo che divora/ Lucifero con Giuda”, cioè nel nono cerchio dell’Inferno, si rinvengono diverse zone popolate da traditori di diverso orientamento. Si parte con la Caina dove giacciono i traditori dei congiunti, per passare poi ad Antenora dove espiano i traditori politici (tra i quali Ugolino e lo stesso Gano) e Tolomea riservata invece ai traditori degli ospiti, per finire alla Giudecca in cui, immersi quasi completamente nel ghiaccio, scontano il più grave tra i tradimenti, quello contro i benefattori, Lucifero, Giunio Bruto e Cassio Longino.
Ancora medioevale il mondo della scena shakespeariana, nel considerare l’usurpazione del potere da parte di sottoposti , solo vassalli o familiari (Macbeth, Riccardo), vero e proprio sacrilegio poiché attenta al patto di fedeltà contratto con la figura divina del re. Ciò sarà quindi dovuto a figure diaboliche, deformi fin dal fisico e comporta un’azione tenebrosa capace di sconvolgere la natura ed il cosmo stesso, nonché infine la mente di chi ha osato compierle (in Macbeth, atto II, scena III, dopo l’assassinio, Lennox commenta: “La notte è stata burrascosa […] L’uccello delle tenebre ha gridato quanto è lunga la notte: qualcuno dice che la terra era febbricitante e ha tremato”. Quindi entra Macduff a pronunciare l’orrore con queste parole: “Il caos ha ora compiuto il suo capolavoro”).
Shakespeare è poi ovviamente in grado di trascendere con la forza della sua arte il suo stesso tempo per consegnarci figure esemplari di traditore. Tra queste Jago che delude la fiducia del suo superiore secondo le abili e coperte modalità del traditore (che Roderigo stigmatizza così: “Le tue chiacchiere non hanno nessuna parentela con le tue azioni”), mosse tuttavia da tortuose e profonde motivazioni interiori (dice il personaggio “le mie ragioni partono dal cuore” e definisce le idee del suo disegno nate “dall’inferno e dalla notte”). Anche qui il tradimento amoroso (attribuito a Desdemona) e quello dell’amicizia, sullo sfondo della politica (quello realizzato da Jago), si accostano e confondono con le ambiguità tipiche del tema che mette in gioco quotidianità, finzione e immaginario.
Questa impostazione culturale trova riscontro nella legislazione e nella politica, per cui il tradimento, sulla scia del trecentesco Treason act, diviene per esempio l’unico crimine menzionato nella costituzione degli Stati Uniti e nella legge inglese sull’ordine pubblico perché considerato il più grave crimine contro lo stato, tanto da comportare la pena capitale. La concezione di Machiavelli viceversa rappresenta la prima battuta d’arresto nella tradizione fin qui accennata in quanto apre alla laicizzazione del tradimento, considerato ora soltanto uno tra i tanti inevitabili ed anzi talvolta preziosi strumenti per la gestione del potere, e da giudicarsi perciò esclusivamente in rapporto all’utilità nel mantenere lo stato. Lo shock culturale di tale posizione fu così forte perché abbinava l’attacco alla morale cristiana a quello all’ethos aristocratico, tanto da gettare ombre inquietanti sulle corti europee ed essere pertanto esorcizzato trasformando la riconoscibilità del tradimento nella versione spersonalizzata ed edulcorata della ragion di stato (ne farebbe fede l’ideologia della produzione tragica a sfondo politico degli autori dell’epoca Tudor e della Francia di Luigi XIV).
Il Seicento, che è il secolo decisivo per lo sviluppo dell’individualità, ribadisce in alcuni suoi trattatisti la necessità di operare nell’ombra una difesa del sé più profondo anche a costo della dissimulazione e della prudenza implicanti il tradimento verso l’esterno. Preservare un minimo di spazio di libertà individuale, seppur talvolta costretta alla sola coscienza, ma spesso coincidente, come fece già rilevare Guicciardini, con la salvezza del proprio buon nome comporta per paradosso l’uso d’un sistema protettivo d’inganni. Anche un pensatore politico di diverso orientamento quale John Locke mostra un deciso superamento del legame tradimento-peccato, impostando il nuovo modello di democrazia rappresentativa sul rapporto di fiducia tra elettori e rappresentanti. Il governo costituzionale appunto agisce per conto della maggioranza elettiva e non sarà confermato se ne tradisce il mandato.
L’insieme di esempi a cui si è soltanto accennato in modo sparso prelude già quindi, per certi versi, alla moderna e definitiva desacralizzazione del tradimento e, per conseguenza, al venir meno delle sanzioni dovuto alla pluralità delle appartenenze e delle fedeltà propria dell’uomo contemporaneo. Nella società liquida di oggi, e nell’ancor più tradizionalmente liquido parlamento italiano erede del trasformismo, evocare la pugnalata alla schiena vale a richiamare antiche fedeltà al Signore; tuttavia appare un urlo di impotenza, fuori tempo e fuori dal tempo. Il Griso è già corso ai propri interessi quando ancora don Rodrigo agita pateticamente il pugno.