Progetto Olimpico 2020 / Sfruttamento politico delle Olimpiadi tra vita, economia e pandemia
Falsa partenza
In Italia la notizia del rinvio delle Olimpiadi di Tokyo 2020 è arrivata il 24 marzo, presentata più che altro come un’importante notizia sportiva. Il focus sui media italiani era dunque centrato sull’aspetto sportivo, sugli atleti, giovani e veterani, che avrebbero dovuto partecipare ai Giochi, oltre ovviamente alla causa di questo rinvio storico, il coronavirus che tiene in quarantena l’Italia intera e gran parte del mondo da ormai diverse settimane.
In Giappone invece la vicenda delle Olimpiadi è vissuta da qualche anno a questa parte in modo molto più complesso, non solo dal punto di vista sportivo, puro e innocente, ma su tanti livelli, sociale, politico, economico, ecologico, e anche scandalistico, ancora più di altri paesi che hanno ospitato in passato i giochi olimpici.
La sera del 25 marzo, all’indomani della decisione del rinvio olimpico, Yuriko Koike, la governatrice di Tokyo, ha convocato una conferenza stampa straordinaria insieme alle autorità mediche della metropoli, un evento sicuramente coordinato con il governo, dove ha riassunto la situazione del contagio del coronavirus sul territorio metropolitano mostrando un cartello conciso e allarmante: “Situazione critica del (possibile) aumento esplosivo di contagio”.
Tre giorni dopo, il Primo Ministro Shinzo Abe convoca una conferenza stampa nella sua residenza ufficiale per dire, anche lui, che in Giappone “potrebbe avverarsi l’esplosione del contagio qualora si verificasse una catena di contagi fuori controllo”.
E subito dopo i due interventi, si è cominciato a registrare l’impennata di numeri sia di tamponi effettuati che di contagiati in Giappone.
Questo susseguirsi così repentino tra l’annuncio del rinvio olimpico e l’improvviso allarmismo di Koike e di Abe, seguito immediatamente dall’impennata dei numeri, è apparso davvero infelice agli occhi di molti cittadini giapponesi, che si sono sentiti quasi presi in giro. Perché la sequenza sembrava proprio confermare i loro sospetti: che il governo avesse fino a quel momento effettuato malvolentieri i test allo scopo di tenere volutamente bassi i casi accertati di Covid-19, e tutto per non perdere le loro Olimpiadi, a discapito della salute della popolazione. In seguito anche molti media, intellettuali e attivisti stranieri hanno rivolto dure critiche al governo giapponese negli stessi termini.
Non ho elementi per potermi esprimere nel merito di questi sospetti, ma so per certo quanto il governo tenesse a quella manifestazione sportiva. Tokyo 2020 è stata oggetto di approfondite analisi e di innumerevoli critiche in questi ultimi anni, sia in Giappone che all’estero. La montagna di osservazioni e di dati raccolti evidenziano, a mio parere, come la realizzazione di Tokyo 2020 fosse profondamente legata a una serie di riforme promosse dal governo di Abe, che mira a trasformare in modo ultrareazionario e neoliberista la società giapponese.
Delirious Tokyo
Jules Boykoff, ex calciatore professionista statunitense e oggi politologo della Pacific University (Oregon), è uno dei più noti critici stranieri delle Olimpiadi e teorico del Celebration Capitalism: secondo Boykoff, i Giochi olimpici sono ormai il palcoscenico di un "capitalismo celebrativo" che a nome del grande evento sportivo investe enormi fondi pubblici (che sono di tutti) per generare profitti privati (a beneficio di pochi), violando puntualmente leggi, diritti umani e sostenibilità ambientale. Il celebration capitalism è una versione apparentemente meno catastrofica del disaster capitalism di cui parla Naomi Klein, ma entrambi agiscono in situazioni “straordinarie” che in qualche modo narcotizzano la mente delle persone locali, incapaci di reagire prontamente. Anche Tokyo 2020 non sfugge a questa logica, e le regole e le leggi non sembrano più valide di fronte agli attori principali, sia pubblici che privati.
Cominciamo dalle enormi spese organizzative di Tokyo 2020. Al momento della candidatura (2013) il budget ufficiale era di circa 7.6 miliardi di dollari, che ora sono cresciuti addirittura a circa 26 miliardi. Passeranno come le Olimpiadi più costose della storia. Inoltre, con il rinvio, ci saranno inevitabilmente ulteriori costi aggiuntivi e andremo sicuramente in rosso, come del resto è avvenuto per quasi tutte le altre edizioni degli ultimi trent’anni a eccezione di quella di Atlanta del 1996.
I promotori giapponesi delle Olimpiadi, sin dall’inizio, hanno spinto la candidatura di Tokyo sottolineando l’enorme opportunità economica, ma come ci insegna la storia, sapevamo già che i cittadini non avrebbero beneficiato niente, anzi, avrebbero pagato a lungo il deficit accumulato.
Quanto alla cifra scandalosa, dobbiamo poi parlare della “spesa” sospetta – qualcuno parla senza mezzi termini di corruzione – di circa 2 milioni e 300 mila dollari, pagata dal Comitato per la candidatura di Tokyo a una società off-shore di Singapore, ma destinata a un personaggio potente nell’ambito sportivo internazionale e a suo figlio, servita presumibilmente per ottenere l’assegnazione dei giochi olimpici.
Il problema non riguarda solo le cifre esorbitanti, ma anche la gestione non trasparente di molte operazioni connesse a Tokyo 2020. In realtà niente di nuovo, si tratta di operazioni che purtroppo accompagnano spesso queste manifestazioni. Per esempio, sono state modificate forzatamente alcune leggi urbanistiche pur di costruire il nuovo stadio olimpico e altre strutture connesse. Di conseguenza, una parte di abitanti più poveri di quell’area sono stati cacciati via per favorire l’interesse di developer e costruttori: lo sfratto forzato degli inquilini delle case popolari (230 famiglie).
Sono emerse anche grandi irregolarità nella gestione di un terreno della città di Tokyo concesso a prezzi irrisori a un grosso costruttore per creare il villaggio olimpico, destinato a essere convertito dopo i Giochi in condomini di lusso.
Francamente mi sembrano tutti un po’ troppo disinvolti nell’agire senza rispetto di alcun tipo di regolarità e di legalità. Per di più, si sta cercando di aprire per la prima volta un casinò che è sempre stato illegale in Giappone.
L’avidità è alle stelle e sotto la spinta degli attori neoliberisti Tokyo sembra letteralmente in preda al delirio del capitalismo celebrativo. Ma a differenza dei casi di shock-doctrine descritti da Naomi Klein, qui gli affari del celebration capitalism non sembrano costituire di per sé lo scopo finale, sembrano piuttosto contribuire a loro volta a creare un ambiente favorevole a un ulteriore disegno del governo.
Fascismo Olimpico
Il delirio che si è prodotto a Tokyo ha investito non solo l’ambito economico, ma anche mediatico, legislativo, sociale, educativo, e perfino costituzionale, il tutto sotto il vessillo nazional-fascio-patriottico.
Come si sa, oggi i megaeventi sportivi come le Olimpiadi, la Coppa del mondo di calcio, il Campionato mondiale di atletica leggera o la Coppa del mondo di rugby, profondamente legati al sistema dei mass media, hanno un enorme potere di attirare l’attenzione del pubblico. Anche perché oggi lo sport entra in ogni casa tramite la televisione e viene assimilato nella vita quotidiana di tutti. Quando il tuo Paese ospita uno di questi eventi, l’intera nazione rimane catturata completamente per l’intera durata dell’evento. Sembra che l’intero paese entri in una specie di trance. Ricordate Italia 90? Noi dal canto nostro ricordiamo benissimo il grande fervore con cui l’ultima Coppa del mondo di rugby ha avvolto tutto il Giappone lo scorso autunno. Grazie anche a un ottimo risultato della squadra di casa, la manifestazione ha scatenato una travolgente passione sia dentro che fuori gli stadi.
Lo sport, oggi, molto più dell’arte e più della religione, è un’esperienza che può creare l’estasi nelle persone, ma non basta avere i miglior atleti del mondo per coinvolgere l’intera nazione. Senza la presenza dei mass media, oggi, nessuno degli sport professionistici, calcio, baseball, football americano, basket dell’NBA, tennis, pugilato, susciterebbe quell’entusiasmo a volte planetario. Federer o Messi non possono essere quello che sono senza i mass media. Ryuta Imafuku, un noto antropologo giapponese che cito spesso, chiama questo strettissimo legame tra media e sport Media-Sport Complex. Secondo Imafuku, il primo evento sportivo che ha segnato questo connubio tra media e sport in Giappone è stato “Pelé – Sayonara game – in Japan”, le due partite d’addio di Pelé, il grande Pelé, disputate a Tokyo nel settembre del 1977 tra i New York Cosmos, l’ultima squadra della leggenda brasiliana, e due formazioni nipponiche, la nazionale giapponese e il Furukawa Denko, una delle miglior squadre giapponesi dell’epoca. Era la prima volta che un evento sportivo, insieme a trasmissioni televisive, pubblicità e merchandising, era gestito da una grossa agenzia di pubblicità, la Dentsu, la stessa che si occupa oggi di Tokyo 2020.
Ma le Olimpiadi moderne, più di ogni altro megaevento sportivo, contengono una grossa quota di nazionalismo in sé, proprio per la loro evoluzione legata all’ascesa degli Stati Nazione. I giochi sportivi così finiscono inevitabilmente per trasformarsi anche in una competizione tra Stati che si contendono la superiorità. Gli atleti gareggiano per la loro nazione e il pubblico tifa, come dice Paul Veyne, automaticamente per gli atleti di casa e le loro squadre nazionali. Alla premiazione si suona l’inno nazionale del vincitore e viene issata la sua bandiera nazionale. È una cerimonia indubbiamente nazionalista. Conosciamo anche gli addestramenti ferocemente intensi imposti agli atleti nei paesi dell’Est durante la guerra fredda. Lo sport sembra politicamente innocente e neutro, ma in realtà si è sviluppato come parte della politica, come dimostrato perfettamente dalle Olimpiadi di Berlino (1936) nella Germania nazista.
Oggi il Media-Sport Complex giapponese, che riversa ogni e qualsiasi aspetto delle Olimpiadi a casa di tutti i cittadini (è una vera inondazione, un martellamento senza eguali che non copre solo la durata dell’evento ma che inizia già mesi prima dell’inaugurazione), di gran lunga di più di quanto faccia la RAI che comunque trasmette una buona parte delle gare e offre altri contributi, diventa un formidabile veicolo per ispirare il pubblico giapponese a un’attitudine fortemente nazionalista, e questo senza mai fare un discorso palesemente politico.
Tokyo 2020 ha dato così al governo l’occasione per imprimere la linea nazionalista-patriottica della sua politica anche nell’istruzione, già espressa nella molto discussa Legge fondamentale sull’istruzione, riformata nel 2006 (Kaisei kyōiku-kihon-hō), intervenendo pesantemente sull’insegnamento scolastico. Nelle scuole elementari, medie e superiori, il tema delle Olimpiadi e Paralimpiadi è stato inserito in molte materie, non solo educazione fisica ma anche letteratura giapponese, storia, etica, perfino inglese, sempre raccontato positivamente con tutti gli ideali sportivi (pace, amicizia, fairplay, ecc.) ben indicati. I ragazzi sono invitati a partecipare a molte nuove attività scolastiche, come quiz sui Giochi olimpici, oppure a praticare qualche disciplina delle Paralimpiadi come Blind soccer. Inoltre, a partire dal quarto anno delle elementari, tutti gli alunni e studenti ricevono “Il quaderno di studi sulle Olimpiadi e Paralimpiadi Tokyo 2020” che li accompagnerà per tutto l’anno scolastico, in modo da poter raccogliere le loro riflessioni sulle due importanti manifestazioni sportive che si svolgono in patria. In questo modo ogni loro attività e riflessione verranno associate alle Olimpiadi e Paralimpiadi, e dunque abilmente convogliate sulla linea guida patriottica.
Nella suddetta legge è sottolineata anche l’importanza dello spirito di sacrificio (per la patria). Su questa linea è in programma la convocazione semi obbligatoria di alunni e studenti di scuole elementari, medie, superiori e università, come volontari a supporto della manifestazione Tokyo 2020. Si parla dello sfruttamento di 110mila volontari, chiamati a lavorare per 1000 yen (circa 8 euro) al giorno per 20 giorni consecutivi. Addirittura ci sono state università disposte a modificare il loro programma didattico pur di liberare i loro studenti e permettere loro “un’esperienza imperdibile come volontari delle Olimpiadi”. Tutto questo mi ricorda il gakuto-dōin, la mobilitazione degli studenti per sopperire alla carenza di manodopera durante la Seconda Guerra Mondiale, tra il 1943 e il 1945, sotto il regime imperiale.
Nel 2017 il parlamento ha forzatamente approvato senza una discussione degna di questo nome una legge sul Kyōbō-zai (crimine di cospirazione) con una formulazione molto ambigua che permetterebbe di punire addirittura chi ha solo pensato un crimine senza mai attuarlo. Il governo ha forzato la sua approvazione sostenendo che senza quella legge era impossibile gestire la task force antiterrorismo per le Olimpiadi, ma sono in molti a dissentire. C’è chi la paragona alla famigerata Chian iji hō, la legge sulla sicurezza (1925-1945), creata originariamente per resistere all’eventuale espansione delle forze comuniste, ma che è stata poi usata per sopprimere qualsiasi attività del movimento democratico e della libertà.
La nuova legge sul Kyōbō-zai, combinata con le misure di sicurezza antiterrorismo messe in atto in vista delle Olimpiadi, potrebbe forzare smisuratamente la sorveglianza dei cittadini nuocendo gravemente ai diritti fondamentali dell’individuo.
Tutti questi fattori, ritenuti “inevitabili” con la scusa di sostenere le Olimpiadi, hanno iniziato a creare una strana atmosfera che potremmo definire “fascismo olimpico”, ancora ben diverso da un regime totalitario ma tale da non permettere alcuna critica né dissenso, non solo sull’argomento Olimpiadi, ma anche oltre. Ricordo che il Giappone è pur sempre un paese democratico con la libertà di opinione sancita dalla Costituzione (art. 21), quindi nessuno verrebbe arrestato, ma se qualcuno parlasse male delle Olimpiadi di casa, per esempio il sottoscritto, diventerebbe immediatamente il bersaglio di un massiccio hate speech che lo farà sentire immediatamente hikoku-min, antipatriota. E sono in molti a notare un’infelice somiglianza della situazione con l’ascesa del Taisei Yokusan-kai (Associazione per il sostegno dell’autorità imperiale, un partito para-fascista attivo dal 1940 al 1945), un grande motore che spinse compatta la nazione nipponica dritta verso la guerra.
E difatti anche questo governo guarda alla guerra oltre che alle Olimpiadi. Questo clima fascista che nasce e cresce attorno all’argomento Olimpiadi può contribuire anche a realizzare un altro obiettivo molto importante per Abe: la riforma costituzionale. Essa consisterebbe nel rivedere l’articolo 9 che bandisce la guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali che coinvolgono lo stato; lo stesso articolo ribadisce che per questo il Giappone abbandona qualsiasi forza armata. Purtroppo il Giappone convive con l’ambiguità delle Jiei-tai, le Forze di Autodifesa, che in realtà sono vere e proprie forze armate, per la precisione il 7° esercito più potente del mondo, ma che non possono prendere parte a conflitti armati. Il governo Abe vuole ritoccare questo articolo per rivedere lo status delle Jiei-tai e avere in futuro via libera per esercitare la sua potenza nei conflitti armati.
In tutto questo delirio, si comincia a intravedere un ampio disegno complesso, promosso dal governo attorno alle opportunità offerte dalle Olimpiadi, per minare progressivamente le fondamenta della democrazia come sovranità del popolo, i diritti fondamentali dell’Uomo, il pacifismo. Tutti principi già disconosciuti in un meeting Sō-sei Nippon del 2015, da Jin-en Nagase, ex-ministro della giustizia del primo governo Abe.
La fiamma sacra che purifica Fukushima
Ma c’è un luogo volutamente dimenticato, anzi cancellato dalla baldoria olimpica del capitalismo celebrativo e dalla crescente pressione del fervore patriottico: Fukushima.
Molti forse non ricordano, ma Tokyo 2020 non è la seconda manifestazione olimpica assegnata alla capitale nipponica, è la terza. Quattro anni dopo le Olimpiadi di Berlino, nel 1940, Tokyo avrebbe dovuto ospitare i Giochi, poi annullati a causa dello scoppio del conflitto sino-giapponese.
I Giochi olimpici del 1940 dovevano far parte di una serie di grandi eventi per le celebrazioni del 2600° anno di Kōki, l’anno imperiale, e doveva essere anche un’occasione per festeggiare la ricostruzione di Tokyo, devastata da un terribile sisma nel 1923. Quindi, sebbene non abbia avuto luogo, è facile immaginare che la manifestazione fosse stata progettata per accrescere il prestigio nazionale, esattamente come avvenne nell’edizione precedente organizzata dai nazisti.
I Giochi del 1964 non solo hanno rappresentato una grande occasione per mostrare al mondo l’immagine di un Giappone magnificamente risorto dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, grazie alla massiccia realizzazione di infrastrutture sul territorio, tra cui lo Shinkansen, il treno superveloce inaugurato nel 1959, ma è stata anche una grande iniezione di fiducia nei confronti dello stesso popolo giapponese uscito duramente sconfitto dalla Guerra del Pacifico. E difatti, da quel momento l’economia giapponese non si è più fermata nella sua ascesa mondiale.
Come in quelle due esperienze del passato, una sognata e l’altra realizzata, anche questa volta il Giappone ha voluto legare le Olimpiadi all’immagine di un’importante ricostruzione, quella di Fukushima, colpita nel marzo 2011 dal terremoto, dallo tsunami e soprattutto da un gravissimo incidente alla centrale nucleare Fukushima Daiichi. Per gli organizzatori, lo slogan ufficiale di Tokyo 2020 è “Recovery Games”, i Giochi della ricostruzione. Solo che, a differenza delle due precedenti occasioni, questa volta non c’è alcuna ricostruzione da festeggiare.
Il 7 settembre del 2013 a Buenos Aires, all’Assemblea del CIO che stava valutando le candidature di Tokyo, Istanbul e Madrid per le Olimpiadi del 2020, il primo ministro Abe, nella sua presentazione della capitale nipponica, ha voluto dissipare la diffidenza degli stranieri nei confronti della situazione alla centrale nucleare di Fukushima, sostenendo davanti a tutti i membri votanti del CIO e al mondo intero: “Permettetemi di assicurarvi che la situazione è sotto controllo”. Peccato che non fosse vero. Non lo era allora e non lo è nemmeno oggi.
Quella centrale ha rilasciato nell’ambiente una grande quantità di sostanza radioattiva (cesio 137), 168 volte più della bomba caduta a Hiroshima, e se consideriamo anche la quantità fuoriuscita in mare si arriva a un totale pari a 1000 volte più della bomba del 6 agosto 1945. Come spiega Hiroaki Koide, ingegnere nucleare, famoso accusatore delle centrali nucleari in Giappone, le fuoriuscite di materiale radioattivo in mare non sono mai cessate. Inoltre ci sono altre acque contaminate ancora immagazzinate nei contenitori all’interno del sito, che secondo alcune stime ammonterebbero a un milione di tonnellate. Il timore di Koide è che prima o poi la TEPCO sarà costretta a riversare anche quelle acque nel mare.
Gli impianti dei reattori esplosi sono ancora altamente fragili e secondo Koide bisognerebbe ricoprirli con un sarcofago, come a Chernobyl. Al di là dell’inspiegabile riluttanza del governo e della TEPCO a farlo, l’operazione non sarebbe nemmeno facile, visto che bisogna sigillare la struttura danneggiata anche sotto, inserendo una parte del sarcofago sottoterra per fermare quelle fuoriuscite di acqua.
Pochi sanno che il Giappone non ha mai revocato lo “stato di emergenza nucleare” dichiarato l’11 marzo 2011 e che ancora oggi, a distanza di nove anni, lavorano giornalmente per la gestione del disastro circa 4000 operatori sottoposti a radiazione. Il governo e la TEPCO inizialmente hanno stimato 30 – 40 anni per concludere tutto, ma secondo le stime di Koide nemmeno cento anni potrebbero bastare per chiudere questa catastrofe. Vale a dire, nessuno di noi nell’arco della propria vita ne vedrà la fine.
Ma la sorte più tragica è toccata agli abitanti: a centinaia di migliaia sono costretti a vivere nelle aree ancora contaminate. Lo Stato ha ritenuto, dopo l’incidente, di non poter aiutare tutti. Il motivo è economico. Se avesse fatto evacuare una zona molto più ampia (come avrebbe dovuto) sarebbe costato troppo risarcire tutte quelle persone sfollate, sistemarle altrove, fornire sostegni economici per permetter loro di ripartire da zero. In più, per impedire che troppa gente abbandonasse il territorio, il governo ha riaperto subito le scuole della zona contaminata ovunque la radioattività registrasse valori appena al di sotto della soglia dei 20 mSv/anno, ma questo è lo stesso valore che devono rispettare gli operatori che lavorano all’interno di una centrale nucleare. Non bambini che devono andare a scuola. Il fatto è che il governo ha costretto molte persone a vivere in zone per niente sicure. Le ha letteralmente abbandonate. Esiste nel vocabolario giapponese un termine preciso per indicare la popolazione abbandonata dal proprio governo: ki-min (棄民). Una parola che non conoscevo. In effetti, l’ho sentita pronunciare per la prima volta in quel periodo.
In quelle zone, anche se i mass media giapponesi evitano accuratamente di parlarne, si registrano molti casi di tumori infantili della tiroide e il tasso di mortalità per l’infarto è il più alto di tutto il territorio nazionale. Non contento di tutto questo, forse per ricostruire l’apparenza della normalità anche e soprattutto in vista di Tokyo 2020, il governo ha deciso nel marzo 2017 di ordinare a chi era stato costretto a evacuare e a chi aveva lasciato autonomamente le loro abitazioni dopo l’incidente, di tornare a casa qualora il valore radioattivo della propria zona fosse sceso sotto la famigerata soglia dei 20 mSv/anno. Ha praticamente costretto la gente a tornare a Fukushima tagliando loro i risarcimenti per la casa a cui avevano diritto. Molti sono rientrati, ma ci sono ancora 48 mila sfollati (secondo Fukkō-chō, l’Agenzia di Ricostruzione) di cui oltre 30 mila rimasti fuori dalla prefettura di Fukushima. E sarebbe questa la ricostruzione?
Dice Koide: “La cosa più importante ora è dedicare tutte le forze dello Stato per revocare al più presto lo stato di emergenza nucleare. La salvezza delle persone che soffrono a causa dell’incidente di Fukushima dev’essere la priorità assoluta. Dobbiamo proteggere almeno i bambini dal pericolo dell’esposizione alla radioattività. Eppure, questo Stato ha dato priorità alle Olimpiadi”.
Continua Koide: “Loro (il governo), con i loro poteri assoluti, hanno scelto la strategia di far dimenticare l’incidente di Fukushima attraverso l’istruzione e i massmedia. Così, deviando l’attenzione del pubblico verso il circo delle Olimpiadi, si vuole cancellare l’incidente di Fukushima e riaprire le altre centrali ancora chiuse”. Non è solo Koide a dire questo. È un’opinione oggi largamente condivisa tra molti residenti ed ex abitanti di Fukushima e tra i sostenitori del movimento anti-olimpico come Satoshi Ukai, professore di filosofia dell’Università di Hitotsubashi, che ribadisce ancora una volta: “Queste Olimpiadi hanno il chiaro intento di nascondere l’incidente di Fukushima”.
Ecco, questa era dunque una delle motivazioni più importanti, forse la più traumatica, che aveva spinto il governo giapponese a candidarsi a ospitare le Olimpiadi. La sua campagna era già iniziata all’indomani delle Olimpiadi di Londra, nell’agosto del 2012, con la parata trionfale per le strade di Tokyo degli atleti che rientravano in patria.
Tuttavia, come sostiene Satoko Itani, professoressa di sport, gender e studi sulla sessualità presso l’Università di Kansai, la preparazione delle Olimpiadi a Tokyo, al contrario del suo slogan ufficiale Recovery Games, ha rubato letteralmente soldi, manodopera e gru dalle aree dove questi erano più disperatamente necessari.
Se non fossero stati rinviati i Giochi, la fiamma olimpica arrivata in Giappone sarebbe poi ripartita dal J Village, l’ex-stadio e centro nazionale di allenamento per il calcio di Fukushima, tramutato nella sede dell’unità di crisi dopo l’incidente, a una ventina di kilometri a sud della famigerata centrale di Fukushima Daiichi.
Da lì i tedofori avrebbero percorso la strada statale no. 6, festeggiati da una folla di bambini schierati lungo la strada con la bandiera nazionale in mano. Quella strada, però, almeno fino a poco tempo fa, era preclusa alla circolazione di mezzi a due ruote. Green Peace ha di recente rilevato numerosi hot-spot con radioattività oltre la soglia consentita, proprio lungo quella strada. Eppure la fiamma olimpica avrebbe aperto miracolosamente ogni strada e sarebbe arrivata a Tokyo. Cosa avrebbe significato quella performance che non ha avuto luogo? Per capirlo rivediamo un attimo la storia della fiamma olimpica.
La staffetta della fiamma olimpica, come l’uso di un grande stadio per i Giochi e il volo di colombe all’inaugurazione, è un’invenzione nazista, concepita da Carl Diem per le Olimpiadi di Berlino del 1936. Simboleggia il fuoco che Prometeo ha rubato a Zeus, per rappresentare i tedeschi come legittimi eredi degli antichi greci e quindi come i veri rappresentanti della civiltà. Una fiamma quindi tinta di forte ideologia nazionalista.
Nel caso dei giapponesi, senza riferirsi troppo alla tradizione europea, il collegamento con la fiamma olimpica è riferito piuttosto alla figura imperiale, aggiungendo così una forte connotazione sacra, da cui il suo nome giapponese: seika, fiamma sacra.
Nell’edizione del 1964 la staffetta olimpica partì addirittura da Okinawa, a quel tempo ancora occupata dagli americani, riempendo quel territorio storicamente martoriato di una miriade di bandiere nazionali per poi arrivare infine davanti a Kōkyo, il palazzo imperiale di Tokyo. L’ultimo tedoforo che accese la fiamma olimpica allo stadio era Yoshinori Sakai, un giovane atleta nato il 6 agosto 1945 a Hiroshima. Una staffetta, anche quella, davvero densa di significati simbolici.
Questa volta, invece, la fiamma sacra che attraversa le strade di Fukushima ancora impregnate di radioattività a macchia di leopardo, salutata da innocenti bambini che sventolano mille bandiere del Sol Levante, sarebbe stata una perversa performance di purificazione della terra di Fukushima. La purificazione, però, contiene in sé anche i concetti di depurazione, pulizia, eliminazione. E quindi anche cancellazione, oblio.
Economy first, Life after
Mentre il governo di Abe stava per portare a termine il suo grande progetto, è arrivata una pandemia del tutto imprevista. E nonostante il tentennamento iniziale per cercare di mantenere il programma olimpico (Abe ancora il 17 marzo, una settimana prima dell’annuncio del rinvio, ribadiva che la manifestazione olimpica avrebbe avuto luogo “in forma completa” nel luglio 2020), alla fine il governo ha dovuto cedere.
Ora, al di là della sospensione almeno momentanea del suo disegno politico, e gli enormi danni economici causati dal coronavirus al progetto Tokyo 2020 (secondo la stima di un professore onorario dell’Università di Kansai, Katsuhiro Miyamoto, le perdite ammonterebbero a oltre 5 miliardi e 700 milioni di dollari), il governo deve affrontare la minaccia della pandemia, eppure non vediamo ancora una, nemmeno una, misura chiara ed efficace per contrastarla.
Kenji Shibuya, professore del King’s College di Londra, consulente senior del Segretario generale dell'OMS, sta rilasciando in questi giorni diverse interviste ed è molto duro con l’operato del governo giapponese sul Covid-19. Sostiene che la dichiarazione dello stato di emergenza, pronunciata dal governo il 7 aprile, è arrivata con un ritardo decisivo di una settimana, un fatto a suo dire gravissimo. Shibuya critica sia il comitato di esperti che l’esecutivo per non prendere misure più drastiche e efficaci. È vero che in Giappone la Costituzione non prevede la possibilità per il governo di ordinare misure restrittive come il lock-down, adottato già in altri paesi tra cui l’Italia, ma è pur vero che chi sta al governo ha l’obbligo di assumere la responsabilità di tutelare la salute dei cittadini. Non basta dichiarare lo stato d’emergenza se dall’altra parte permetti alle aziende di mantenere aperti gli uffici e le fabbriche. La maggior parte dei lavoratori di Tokyo sta continuando a prendere i famosi treni per pendolari straripanti alle ore di punta, pur sapendo di rischiare moltissimo. I ristoranti sono ancora aperti e affollati.
Secondo Shibuya, potrebbe già essere “troppo tardi”, ciò nondimeno le autorità dovrebbero fare tutto il possibile perché la gente non esca di casa, se si vuole salvarla. Non c’è altro da fare. Come abbiamo visto, gli yōsei (inviti) a stare il più possibile a casa, pronunciati da Koike e Abe a fine marzo non sono serviti a nulla. Secondo una ricerca fatta dal Google, i cittadini giapponesi che si sono astenuti dall’andare al lavoro in quei giorni erano solo il 9%. Anche l’uso dei mezzi pubblici era calato solo del 40%, mentre in Inghilterra il lock-down ha portato oltre il 60% di persone a usufruire del telelavoro, e l’utilizzo dei mezzi è calato dell’80%. Perché il Giappone non fa di tutto per tutelare la salute dei cittadini? Sembra quasi che non se ne comprenda la necessità. Shibuya conclude amaramente in una delle sue ultime interviste che l’esecutivo ha dato chiaramente la priorità all’economia e non alla vita. Esattamente così come aveva dato la priorità alle Olimpiadi e non alla sicurezza degli abitanti di Fukushima. Economy first, Life after, questa è la costante di tutta la recente storia giapponese intorno alle Olimpiadi. E la ripetiamo ancora con il Covid-19. Si direbbe uno Stato che non teme di dare la priorità all’economia a discapito della vita. Non è una follia? Ma questa volta a essere messa a rischio è l’intera popolazione giapponese, oltre 126 milioni di vite umane.