L’orso

14 Gennaio 2017

Io, dell’orso, non so alcunché. Ho letto un libro interessante, quello di Bernd Brunner (Uomini e orsi), ho visto qualche film dove gli è riservata una parte anche cospicua (nitida è almeno la scena madre di The revenant), ma non posso dire di conoscerlo, neanche alla lontana. Il problema è che io, come tutti, di orsi veri ne ho visti pochi, anzi pochissimi. Qualcuno al circo impegnato in neghittosi esercizi a sfondo comico (c’era anche un orso col cappellino in testa, uno di quelli delle feste sceme o degli scemi in festa?), altri osservati mentre si trascinavano stancamente per la loro buca al parco zoo delle Cornelle, vicino a Bergamo. Basta. Non ho altri elementi, anche perché non reggo i documentari naturalistici, che sono sempre eccessivamente didattici, noiosamente inclini a farti rientrare nelle asfittiche dimensioni dell’aula e nel mortifero clima delle interrogazioni (e se le immagini sparissero e comparisse il “docente” e mi chiedesse di riassumere quello che ho appena visto?). Perché mi sia venuto in mente di scrivere dell’orso, non è per nulla agevole da spiegare. Vado per tentativi, anzi, tutto quanto si legge qui di seguito è solo un esercizio di decifrazione di una scelta. 

 

Inizio dall’aspetto. L’orso è un uomo, è evidente. Un uomo corpulento, massiccio, lievemente ottuso, uno di quelli che non ti tradiscono mai, ma anche uno di quelli che, se provocato, abbandona le sue abitudini paciose e diventa violento, manesco (zampesco), capace di spaccare tutto. Una specie di barbuto fratellone tonto ma inesorabile. Il problema è come mai un uomo abbia quell’aspetto. Gli antichi parlavano di uomini prigionieri di altrui nature, o di esiti di accoppiamenti tra appartenenti alle due specie, o di regressioni punitive nelle aree della ferinità. Così, prima che Darwin evidenziasse i nostri legami con le scimmie, gli orsi – soprattutto nel Nord del mondo – erano i nostri più diretti correlativi animali. E non si fatica a capire perché. Quello stare in piedi, o addirittura seduti, quel movimento delle zampe anteriori, quella indolenza annoiata sono quanto di meno animalesco si dia a vedere. Animale umanizzato, animale antropomorfo, ma anche animale con l’uomo inconciliabile. Nonostante il parere del naturalista svizzero Peter Scheitlin, citato da Brunner, che, nel Settecento, diceva essere l’orso estremamente cauto nei confronti dei bambini (a cui si sarebbe limitato a rubare le fragole dai cestini senza lasciare il minimo segno), l’orso non è mai stato ritenuto un amico della nostra specie. Forme simili ma vite preferibilmente separate. Infondate le voci di una possibile domesticazione. L’orso, soprattutto sotto la specie del grizzly, è l’irruzione del pericolo allo stato puro. La minaccia che annienta. L’orso come rivale, come nemico invincibile.

 

 

Come assassino. Più raro che lo stesso ruolo spetti ai primati, se non talvolta appunto a quelli di dimensioni ingombranti. Quindi l’orso rappresenta il pericolo che si nasconde in chi ci assomiglia, in chi ha atteggiamenti che ricordano i nostri. L’orso come uomo senza la civiltà, senza l’apporto della ratio. L’uomo selvatico, l’uomo dei boschi. Non è un caso che lo yeti, l’abominevole uomo delle nevi, possa essere un orso. Non è un caso che nei film l’orso sia presentato con irruzione improvvisa, con un ruggito profondo e straziante, come una folgore che s’abbatte sull’incauto che si espone, più o meno incoscientemente, ad imprese azzardate. 

Visto che è così, visto che l’orso ha in sé qualcosa di numinoso legato al suo aspetto e il numinoso spacca tutto quello che lo circonda, il numinoso atterrisce, diventa un po’ più spiegabile quel gran lavorio della nostra immaginazione di sapiens, che è poi lo sforzo che abbiamo fatto quando qualcuno con quel numinoso ci viveva davvero a fianco e finché lo ha dovuto fare, ha dovuto trovare una spiegazione al suo essere “una fragile fibra dell’universo”. Ora gli orsi sembrano non esistere più, per quanto ci riguarda sono labili inesistenze e null’altro. Però qualcosa è rimasto lì, sedimentato. I rari avvistamenti a latitudini desuete sono salutati con percepibile inquietudine. Negli zoo vengono distanziati più di qualunque altro animale dai visitatori. Quando è stato possibile, in un passato ancora recente, sono stati ridicolizzati, ovvero ridotti a innocui destinatari di ilarità collettiva. 

 

Riemerge un ricordo, che tecnicamente è il ricordo di un ricordo. Ma non è una storia, perché è priva di movimento. All’opposto è un’immagine, fissa, come un fotogramma di cinema muto che rappresenta l’inverosimile lotta tra un uomo e un orso in un ring improvvisato nella Milano di un secolo fa. A proporla, continuamente, era mia nonno che però si limitava a citare la scena senza mai un particolare (che nemmeno lui conosceva, del resto). Io bambino vedevo quel tale come un energumeno forzuto in canottiera, con mani enormi e testa confinante per sagomatura a quella del suo avversario, che supponevo accondiscendente e benevolo. Già, perché quell’orso che quotidianamente duellava senza infierire sull’ uomo, risparmiando la risibile (ai suoi occhi) complessione del presunto baffone palestrato, mi sembrava l’inequivocabile segno dell’intelligenza dell’animale, della sua consapevolezza che da quello spettacolo assurdo dipendeva il suo pane e dunque era meglio sfruttarlo il più possibile. Quello era stato il primo orso della mia vita. Mai visto, mai inserito in un contesto, mai, come si direbbe, sostenuto da una prova. Però un orso era. Ed era un orso che gli uomini avevano ridotto a spettacolo. E quando gli uomini fanno così – già a partire dall’antichità, è noto – è perché hanno paura, molta paura, e sono poi curiosi di vedere se davvero l’orso è quel mostro invincibile di cui si parla. Ma come sarà stato quell’orso? Sarà stato legato? Magari c’erano uomini pronti con fucili ad abbatterlo se avesse sgarrato? E poi lo avranno certamente drogato, reso incapace di fare davvero l’orso. E, di certo, si sarà trattato di un vecchio esemplare. Stanco, malato, lentissimo. 

 

 

Da poco ho scoperto che la lotta tra uomini e orsi divenne un vero e proprio sport, soprattutto tra Stati Uniti e Gran Bretagna tra la metà dell’Ottocento e gli anni Trenta del secolo successivo. Si può vedere qualche immagine di un combattimento svoltosi a New York nel 1937 tra un pugile a torso nudo (la canottiera era solo mia immaginazione) e un orso con museruola e pieno di fair-play. Con tanto di arbitro e di secondo, che accoglie l’orso all’angolo a conclusione del round. E con un doppio atterramento, a danno dell’orso, il primo, e dell’uomo, il secondo (cfr su Youtube “Bear boxing man”).

“Sei un orso”, mi dicevano. Me ne ero quasi dimenticato. Eppure me lo hanno sempre ripetuto in famiglia. Stare nascosto, evitare i consimili, parlare raramente. Uno che se ne sta per sé e non se ne fa nulla degli altri. Ci sono stati anni lontani in cui ero così, quando le sicurezze che mi offriva la solitudine erano superiori a quelle della vita in comunità. Oggi per me qualcosa è cambiato (forse non tutto, però). Non fare l’orso… Forse l’orso non è allora solo il mezzo scemo del villaggio che cerca disperatamente di assomigliarci riuscendo sempre goffo nei suoi atteggiamenti. Forse è anche una specie di eremita laico, di “oltreuomo”. Forse essere orso significa non sentirsi appartenere a nulla, vivere d’essenziale, vivere scomparendo nelle amate zone dell’ombra e del silenzio.

 

Abbandonarsi alla non vita dei letarghi. 

Brunner spiega che gli orsi trascorrono in letargo tre-quattro mesi all’anno. In questo periodo le loro funzioni vitali si riducono e l’orso vive grazie al grasso che ha accumulato durante le altre stagioni. Secondo una credenza popolare, gli orsi sopravvivrebbero succhiandosi il grasso delle zampe, in una sorta di autofagia. È certo che il letargo esercita un fascino potente su noi umani. Si tratta di un morire che si ripete ogni anno, un chiamarsi fuori dal fascino irresistibile. Un essere e un non essere capace di sottrarci – momentaneamente – alle difficoltà. Dormire per rivivere. 

Da questa autobiografia sotto la specie dell’orso sembra rimanere fuori un particolare. Che non è però particolare senza rilevanza, anzi è dettaglio che dà senso al tutto. Mi riferisco all’orsacchiotto. Cioè alla versione per l’infanzia dell’orso, che è diventata così autonoma da assumere le caratteristiche della sottospecie a sé – un po’ come il koala che dell’orso conserva tracce tangenziali, ma eppure orso è, a tutti gli effetti. L’orsacchiotto è la belva allo stato infantile. È il cucciolo per eccellenza, insieme ai cani dalle orecchie lunghe e pendule. Il peluche per antonomasia, quello a cui si legano i destini dei sonni di moltissimi bambini. Come mai un animale minaccioso e inquietante abbia potuto trasformarsi nel gingillo dei giovanissimi sapiens è evidentemente spiegabile come l’ennesimo tentativo di neutralizzarne proprio la portata eversiva sui nostri equilibri di specie.

 

Sempre Brunner, tra l’altro, aggiunge che “è difficile evitare il pensiero che gli orsi abbiano dovuto scomparire dalle foreste, prima che riuscissimo a percepirli attraverso questa lente di amabile inoffensività”. Inoltre il piccolo di orso con il suo impacciato candore, il naso schiacciato all’insù , l’occhio a bottone ha tutto l’armamentario necessario per attivare quella che gli etologi, a partire da Lorenz, chiamano la funzione epimeletica, ossia la naturale predisposizione della nostra specie a interessarsi dei più piccoli, anche di specie diverse, e la altrettanto istintiva tendenza ad accudirli. Del resto nell’Ottocento non era raro prendere in casa i cuccioli di orso quando la mamma veniva uccisa in una battuta di caccia. Scrive Brunner che le persone apprezzavano la “compagnia di questi ometti divertenti, pelosi e selvatici, buffi omologhi dei figli”.

 

Ed è dalla fine dell’Ottocento che, a partire dalla Francia, appaiono gli orsetti meccanici coperti di pelo. Con il 1903, produttrice la ditta Steiff, fanno la loro comparsa gli orsacchiotti con i bottoni sulle orecchie che avrebbero ricevuto il nome di Teddy dal presidente degli Stati Uniti, Theodore Roosvelt, per via di una vignetta in cui lo si raffigurava incapace di sparare – lui, noto cacciatore di orsi – a un cucciolo. Per non parlare del fatto che a fine Ottocento Kipling inventa Baloo, l’orso che, insieme alla pantera Bagheera, aiuta Mowgli a sopravvivere nella giungla. Primo atto di una umanizzazione dell’orso che i cartoni animati avrebbero completato nel corso del Novecento. 

Ebbene, proprio questo ultimo tassello, nel mio percorso non corrisponde a nulla. Nessun orso di pezza nell’infanzia. Nessuna normalizzazione della belva. Il mio orso si ferma alle soglie del buio che lo ha inghiottito. Appena immaginabile assenza. 

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