Speciale
Una visita da Fico / Il cool de noantri
Il Ficobus parte ogni mezz’ora, puntualissimo, dalla Stazione centrale di Bologna. E in quindici minuti, puntualissimo, arriva a destinazione. Ad accoglierlo è una specie di casello autostradale da cui s’accede a un enorme parcheggio, ma soprattutto a una maestosa porta che nemmeno la Lodovica a Milano o la Portese a Roma – per non parlare della Mascarella o della Maggiore. Il piedistallo che le sta innanzi serve per i selfie, meglio se scattati con l’asta che allarga il campo della foto, in modo che il logo possa ben fare da sfondo alle facce forzatamente sorridenti dei visitatori festosi in entrata. Il brand che tutto ricopre e tutto certifica, insomma, ci riceve immediatamente marchiando anche noi, i nostri ricordi prossimi futuri, e soprattutto le nostre immagini postate sui social o inviate per uozzap ad amici e parenti. Tutta pubblicità gratuita.
Il logo in questione, sarà già chiaro, è quello di Fico, la recente, al momento ultima, invenzione commerciale di Oscar Farinetti, sito nell’immediata periferia bolognese, a cui facciamo fatica ad attribuire un nome comune, a identificare con un genere specifico di punto vendita. Loro si autodefiniscono “il più grande parco agroalimentare del mondo”, ma c’è di più: trattasi al tempo stesso di mercato, supermercato, centro commerciale, luna park, giardino zoologico, orto condiviso, vivaio, centro sportivo, museo d’azienda, scuola di cucina, serie infinita di ristoranti, buffet, osterie, bistrot, bar, enoteche, trattorie e chioschetti d’ogni forma e natura, dall’elegante pluristellato al minuscolo angolo per street food o carretto dei gelati. Tutto, comunque, rigorosamente fico – dato che, fra l’altro, è abbastanza chiaro che il brand name sarà pure la sigla di Fabbrica Italiana Contadina, come si legge nel logo, ma all’essere cool de noantri, e cioè appunto fico, immediatamente rinvia. Il fruttino che gli fa da referente, oltre che da mascotte, è puro camuffamento semantico.
Di Fico se n’è parlato tanto, nel bene come nel male, ma tanto altro, a visita conclusa, ci sarebbe ancora da dire, dato che le sorprese, le delusioni, il divertimento, la curiosità, il piacere non sono certo mancati. Schivando la solita, noiosissima dialettica degli apocalittici e degli integrati, e prendendosi il tempo necessario per l’ispezione e la concomitante riflessione, ci piacerebbe capire, al di là dell’evidente megaoperazione di marketing alimentare e territoriale (l’Italia innanzitutto!), il senso di questo luogo, la ragione profonda che, forse inconsapevolmente, lo anima. Dovremo ritornarci, inevitabilmente, per studiarne più nel dettaglio le articolazioni spaziali e i loro effetti di senso: ma quelli son fatti del semiologo, per destino sempre al lavoro, o dello sfaccendato amante della cucina e goloso della buona tavola.
Qui registriamo soltanto alcune impressioni di viaggio, parzialmente e inevitabilmente in disordine – dato che il luogo in questione, se pure prova a organizzare rigorosamente i percorsi di visita e le relative esperienze di consumo (il decumano centrale va dagli antipasti ai primi, poi i secondi e i contorni, infine i dolci e il caffè, lateralmente il vino), finisce per rivelarsi un felice labirinto dove è bello perdersi, ritrovarsi nei punti già veduti, confondersi e girare in tondo, soprassedere, alzare lo sguardo per scrutare cosa ci aspetta più in là, infilarsi in corridoi laterali, proseguire all’esterno e rientrare da dove viene meglio, fermarsi e riorientarsi, ricominciare da capo. Più che un labirinto, forse, si tratta di un dizionario, dove una volta dentro si può saltellare senza fine fra denominazioni e definizioni, parole che spiegano altre parole, segni al posto d’altri segni, cose che producono cose, persone al lavoro e persone a riposo, in un vortice euforico senza soluzione di continuità.
Del resto, la moltiplicazione nell'esercizio dello shopping è previsto in anticipo: non solo le strade, là dentro, sono tante e le mappe che le spiegano invece pochissime, ma, soprattutto, il visitatore è invitato ad alternare l’uso dei propri piedi con quello della bicicletta: si può essere, da Fico, ora pedomobili ora cicloamatori, percependo dunque il luogo – come spiegava a suo tempo Kevin Lynch parlando di una Los Angeles da abitare precipuamente in macchina – in modo completamente diverso perché con velocità e ritmi molto contrastanti. Le bici a tre ruote, giusto per non cadere, sono a disposizione all’ingresso, anteriormente hanno un cesto dove stipare gli acquisti, si possono parcheggiare un po’ dovunque lungo il percorso, sia interno sia esterno, e alla schiera delle casse, in chiusura, hanno tragitti preferenziali. Un carrello del supermercato a pedali, insomma: trovata al tempo stesso funzionale e ludica, non senza l’ausilio dell’ennesimo brand, quello delle biciclette in questione, che fa promozione di sé offrendo un servizio in più al cliente.
Già, perché la prima cosa che viene da dire su Fico è che si tratta una geniale macchina che inscatola marche, ognuna delle quali sovradetermina l’altra, come una serie di bambole russe dove Eataly, ovviamente, la fa da padrone (l’Eatalyworld sta nel layout dell’intero spazio), offrendo corner a grandi e medi produttori d’ogni ben di dio, dalle mortadelle bolognesi ai prosciutti di Parma, le paste di Gragnano, il Grana padano, i risi, i vini soprattutto piemontesi, il tartufo bianco, il sugo di pomodoro, le conserve di frutta e verdura, i dolci, il caffè, i gelati – il tutto, appunto, rigorosamente griffato da aziende che, va detto, facilmente ritroveremmo in buon supermercato cittadino. Così, se ogni singolo prodotto rivendica una qualità comunque eccelsa, quel che di più vale e fa valere è il rinvio reciproco, dato innanzitutto da un affastellamento palesemente fieristico, ma poi soprattutto dal principio del dire ognuno il bene dell’altro, non foss’altro perché tutti sotto il medesimo ombrello, quello dell’essere italiani, e perciò, diciamolo ancora, strafichi.
Questa paziente e patente organizzazione commerciale sembra cozzare con l’altra retorica che dà l’anima a Fico, che è quella di una produzione agroalimentare specchiata, onesta, pulita e giusta innanzitutto perché doverosamente biologica, naturale, organic, e dunque, in linea di principio (ma solo in quella) lontana dal mondo luccicante dei marchi industriali. Insomma, l’interno di Fico è una teoria ininterrotta di brand gastronomici, dove del prodotto in vendita si magnifica, prima ancora della bontà, il lavoro necessario per produrlo: ed ecco sotto vetro, come in un museo vivente, umani e macchine perennemente al lavoro, a far salumi e latticini, conserve e cioccolata, paste secche e prodotti da forno. L’esterno invece è il regno delle materie prime, anzi primissime, perché dell’ingrediente si vede proprio la sua origine naturale, si tratti di vegetali (orti, frutteti, vigneti, serre…) come di animali (stalle, porcili, pollai, arnie…). Si crea così, oltre allo stridore evidente fra (effetti di) natura e (effetti di) cultura, una curiosa atmosfera: i bimbi, le coppiette, i gruppi organizzati, le scolaresche, i visitatori tutti ammirano le simpatiche bestiole, salvo poi accorgersi che quelle stan lì perché pronte per il macello.
I cartelli didattici che spiegano il loro migliore utilizzo (la razza tale dà ottimi salami, quell’altra è più adatta ai prosciutti, quell’altra ancora alle bistecche, quell’altra ancora dà il lardo, oppure il fegato grasso…) lo testimoniano apertamente: con buona pace degli animalisti, siamo in uno zoo di bestie edibili. Di modo che, ammirando l’agnellino paffutello o il maialetto striato, non diremo giammai “che carino!” ma piuttosto “che buono!”. Tornando dentro, manco a dirlo, ci imbattiamo difatti nella dimostrazione iperaccurata di come si prepara la porchetta, con tanto di coltelloni pronti a squartare un bestione da duecento chili per ridurlo in squisiti paninetti da accompagnare con un’ottima birra obbligatoriamente artigianale.
C’è qualcosa che non quadra, o che forse quadra benissimo: ed è l’aporia concettuale – etica ed estetica insieme – dell’attuale gastromania, che da una parte mira alla rivalutazione del locale, della tipicità, della tradizione, del famigerato chilometro zero; mentre dall’altra vuole automagnificarsi come spettacolo, mettersi orgogliosamente in mostra, rivendendosi al megafono come tema spudoratamente pop. Ritornerebbe così miseramente la questione degli apocalittici e degli integrati: occorre cedere alle sirene di un’industria alimentare che sta facendo di tutto – e spesso bene – per ripulirsi l’anima dai peccati di gioventù (la nostra, zeppa di scatolette e surgelati)? oppure è meglio restare accigliati nell’orto di casa a sperare che crescano delle melenzane decenti per una parmigiana sufficientemente saporita? Bah, ecco domande veramente inutili, mal poste, non foss’altro perché, alla fine, quel che conta è ciò che sta nel piatto, e da lì arriva nei nostri stomaci, passando per le papille fortunosamente gustative.
Il satori arriva nel giardino degli agrumi – data la stagione invernale ben protetti in una serra ben riscaldata.
Alberelli di aranci, mandarini, pompelmi, limoni, bergamotti, clementine, kumquat e quant’altro sono circondati dalle bottigliette di succhi e bibite a cui daranno gusto e sostanza, mentre lì accanto un alberello rinsecchito è ornato con altrettanti contenitori in finto vetro. Il messaggio è sin troppo chiaro: occorre rinsaldare, stipulandolo daccapo, il patto fra la materia prima e il prodotto finito, così come, parallelamente, il contratto fiduciario fra la marca e il consumatore. Con una specie di capriola a 360 gradi, siamo tornati dove eravamo (al supermarket) passando per il suo contrario (il mercato del contadino), la cui opposizione, direbbero i linguisti, s’è definitivamente neutralizzata. Beviamo arancia e aranciata indifferentemente, magari fra una pedalata e l’altra, per rifocillarci e rasserenarci. Ecco cos’è, oggi, essere fico.