Le parole sono importanti? / Stefano Bartezzaghi: Senza distinzione
In principio fu Moretti. Tutti ricordano il film Palombella Rossa (1989) in cui Michele Apicella – personaggio ideato e interpretato da Moretti, presente, ogni volta con una nuova identità, in molti suoi film – è un dirigente comunista e giocatore di pallanuoto. Egli, dopo aver perso la memoria a causa di un incidente stradale, si ritrova a dover ricostruire i pezzi della sua esistenza di militante in un ambiente profondamente cambiato, segnato dalla fine dell’utopia comunista. Molto noto è un passaggio del film in cui Michele, durante una partita, viene intervistato proprio sul suo passato e sulla sua esperienza di militante da una giornalista per lo più impreparata a discutere sul tema. Il suo modo di esprimersi – utilizza parole come “kitsch” e frasi fatte come “alle prime armi” – contribuisce a esasperare lo straniamento di Apicella fino a farlo esplodere. Non appena utilizza una parola inglese (“cheap”), egli, infatti reagisce malamente, schiaffeggiandola e urlandole contro: “Ma come parla? Come parla? Come parla? Le parole sono importanti!”.
Per uno strano scherzo del destino, questa stessa espressione, “Le parole sono importanti!”, pronunciata da Apicella come segno di insofferenza verso le frasi fatte, è divenuta a sua volta frase fatta. Alla prima occasione, essa viene, infatti, sfoderata da parte del “semicolto” di turno di fronte a ogni malcapitato interlocutore che mostrasse di non condividere con lui il lessico o le medesime idiosincrasie linguistiche.
E se le parole non fossero così importanti? È con questo interrogativo che si apre Senza distinzione di Stefano Bartezzaghi (People editore, pp.140, € 15).
Si tratta di una raccolta di scritti, pubblicati nel corso dell’ultima decina d’anni e rimaneggiati per l’occasione, in cui si fa problema della plausibilità delle istanze di adeguamento della lingua alla realtà sociale contemporanea, a gran voce richieste da attivisti e movimenti, in nome della correttezza politica. I saggi, cinque in tutto, sono rispettivamente dedicati ai problemi linguistici sollevati dalle richieste di distinzione di sesso, razza e lingua provenienti dalla società civile; al valore politico di suffissi e desinenze; al problema dell’efficacia simbolica delle parole con riferimento alle locuzioni proposte dal lessico politicamente corretto; per chiudere sul problema del sessismo linguistico e non e del femminicidio. Argomenti spinosi e sommamente polarizzati di cui è molto difficile discutere pacatamente, senza urtare la sensibilità dei soggetti coinvolti.
È proprio la scandalosa pacatezza di questo volume a renderlo una preziosa riserva di argomenti, scritti in uno stile piano e assolutamente non accademico, a disposizione di chi volesse provare a capirne di più sulla faccenda, oltre gli slogan e le appartenenze. Sarebbe, direi, anche un ottimo regalo per i tanti che in buona fede siano genuinamente interessati alle richieste di cambiamento della lingua poste dai movimenti, per capire come calibrare il loro impegno. Si tratta, infine, di un libro prezioso anche per un’ennesima ragione: perché guarda alla questione da un punto di vista progressista, non prestando il fianco ai tanti facinorosi omofobi, razzisti e intolleranti che in tema sproloquiano sui social, di fatto oscurando ogni altro punto di vista critico.
E quindi, perché le parole non sarebbero così importanti?
Bartezzaghi nell’introduzione evoca un vecchio scritto circolato per anni in rete prima di essere ripreso pubblicamente da Paola Cortellesi in un’esibizione durante la cerimonia di premiazione dei David di Donatello del 2018. Questo testo, molto noto, propone un lunghissimo elenco di parole e locuzioni (più di cinquanta) che al maschile suonano perfettamente accettabili, per così dire neutre, mentre al femminile finiscono per alludere alla prostituzione. Cortigiana, massaggiatrice, professionista, donna di strada, intrattenitrice, passeggiatrice, perfino allegra, sono solo alcuni degli eufemismi evocati nella lista. Osserva Bartezzaghi come queste locuzioni, oltre al presunto sessismo, rendano conto di un’altra qualità della lingua, ovvero quella di essere flessibile, di offrirsi come una riserva infinita di modi di dire la stessa cosa. Tutti questi modi di dire rispondono, infatti, a una credenza arcaica che è il vero problema, secondo la quale la donna non debba esporsi pubblicamente. Lo fanno costituendo un tabu (la parola prostituta) che spinge la lingua stessa a produrre infinite varianti per alludervi, in modo che cancellare una parola dal lessico, – la parola prostituta – abbia l’effetto di generare un milione di allusioni.
Cosa si può dire, allora, intorno a questo lungo elenco? Si potrebbe cominciare col notare come per raggiungere l’effetto, esso proceda con qualche forzatura. L’aggettivo professionista o intrattenitrice, per esempio, non significa univocamente l’allusione alla prostituzione, tanto che è perfettamente possibile utilizzare in maniera propria sia l’uno che l’altro. Ancora, si poteva e si può dire una frase come “Alessandra è una donna allegra” senza minimamente alludere al mestiere più vecchio del mondo. È quindi solo ad alcune condizioni che le parole evocate nella lista possono funzionare come allusioni.
Si può ancora aggiungere che il convincimento per cui una donna non deve esporsi sia in effetti vero nella società contemporanea solo per una sparuta minoranza di persone iper-conservatrici ma che non corrisponda più alla sensibilità comune in tema. Non sembra essere questa la posizione di Paola Cortellesi che lo ripropone con l’intento di mostrare come, sebbene un tale pregiudizio si consideri superato, esso surrettiziamente agisca per il tramite della lingua, in modo che inavvertitamente molti vi rimangano legati pur non essendone pienamente consapevoli.
La domanda quindi si trasforma: se cambiamo il linguaggio, riusciremo a estirpare la credenza errata di cui è specchio? Bisogna cancellare le declinazioni al femminile di parole come allegro, mondano e via dicendo? Oppure cancellare per decreto le possibilità allusive offerte da questi termini? E se invece accettando il naturale scollamento fra mondo e linguaggio, prendessimo atto del pregiudizio, impegnandoci per superarlo al di là delle parole?
Mi fa qui piacere riprendere il saggio più corposo del volume, dedicato all’articolo tre della costituzione italiana. Come è noto, in questo articolo si proclama che tutti i cittadini italiani sono uguali di fronte alla legge “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Bartezzaghi comincia a valutare le implicazioni semio-politiche di una tale proclamazione.
Inizia dal concetto di razza. Si sarà notato come esso appaia al giorno d’oggi come privo di fondamento scientifico e, d’altra parte, imputabile di grandi tragedie politiche e umane nella storia. Il filologo Lino Leonardi, sulle pagine di Repubblica, ha proposto, in analogia con quanto è stato fatto in ambito statunitense a proposito della parola negro (cancellata dal lessico ed evocata con il termine n-word) di costituire un tabu intorno alla parola razza, ancora una volta confidando nell’automatismo per cui cancellare dal lessico una parola equivalga a cancellare un modo di pensare ritenuto scorretto e antisociale. Ma, come la psicanalisi ha sempre saputo, costituire un tabu intorno a un qualche concetto, fatto o evento è come congelarlo, impedisce che esso possa essere elaborato criticamente rimanendo a galleggiare nell’inconscio, fino al momento in cui potrà essere rievocato. E allora, forse, basterebbe guardare a quello che succede con i razzisti propriamente detti per prendere atto di come questo termine funzioni già, per molti versi, come un tabu, se è vero che non c’è discorso razzista che non esordisca con una preventiva negazione di se stesso (“non sono razzista ma…”). Anche qui allora il problema si sposta dalle parole intese burocraticamente come etichette del reale alle credenze.
Vale dunque la pena chiedersi secondo quali logiche ognuno di noi è portato ad assumerle nella propria visione del mondo. Bartezzaghi propone al proposito una tipologia tripartita di fonti della conoscenza secondo la quale l’esperienza sensibile possa essere considerata come prima fonte, seguita dalla consuetudine determinata dalla tradizione e, in ultima istanza, dalla conoscenza scientifica. Inutile dire che tra i tre ambiti possano darsi relazioni molteplici non sempre coerenti fra loro. Tutti sanno che le stelle non hanno alcun rapporto documentabile con la vita degli individui eppure moltissimi credono nell’astrologia: non basta sapere per smettere di credere. C’è di più. Le credenze di regola ci chiamano in difesa. Quando le previsioni dell’oroscopo non dovessero corrispondere al nostro stato d’animo siamo propensi a trovare giustificazioni, legate a un qualche approfondimento sulla posizione dei pianeti che ci permettano di confermare la nostra opinione di partenza.
Non è importante insomma, come per il sapere scientifico, che il discorso astrologico sia smentito dai fatti: esso si rivela resistente alla falsificazione.
Un medesimo ragionamento può essere portato avanti per quanto riguarda le razze: sappiamo che la teoria razzista non ha alcun fondamento scientifico ma siamo propensi a operare “distinzioni” sulla base di tratti somatici o abiti culturali. Lo stratagemma di sostituire alla parola razza quella più edulcorata di etnia viene di regola utilizzato per sdoganare modi di pensare criticabili. Posto che nessuno sosterrebbe (quantomeno pubblicamente) che gli ebrei siano biologicamente disprezzabili, cambia qualcosa se ad essi ci si riferisca sulla base di considerazioni culturali e connotazioni etniche? E che dire dei WASP, ovvero dei bianchi protestanti americani, indicarli meccanicamente come suprematisti privilegiati è razzismo o pregiudizio?
Sia il razzismo che il pregiudizio si basano spesso su stereotipi. Che possiamo definire tecnicamente come unità espressive (locuzioni standard sul piano del significante) in grado di veicolare luoghi comuni (sul piano del significato). Saranno loro il problema? Si può riflettere su come un luogo comune possa essere veicolato anche da frasi non stereotipiche. Si può benissimo dire “Torinesi falsi e cortesi”, facendo uso di uno stereotipo bello e buono. Ma si è pur sempre liberi di formulare la propria frase altrimenti: “Non amo affatto generalizzare, io; però ho notato che i nativi della Città della Mole spesso tendono a voler apparire affabili mentre invece in cuor loro ti disprezzano”. In quest’ultimo caso, si presenta come acuta riflessione personale (“ho notato che”) il medesimo luogo comune espresso dallo stereotipo, ovvero dalla frase fatta. Come a dire che cancellato lo stereotipo rimane il pregiudizio. Da qui il paradosso della richiesta di espellere dal lessico la parola “razza”: come confutare il pregiudizio se non lo si può più chiamare per nome dato che la parola che lo designa non è più ammessa? Se le razze non esistono possiamo continuare a nominarle? La risposta è sì, il linguaggio ce lo permette: neppure le streghe esistono eppure dobbiamo pur continuare a utilizzare questo termine seppure per esecrarlo.
Bartezzaghi, già autore di un saggio dedicato a questi problemi (cfr. Banalità, Luoghi comuni, social network e semiotica, 2019) nota come le cose si complichino ulteriormente se si considera che sia i luoghi comuni che gli stereotipi possono essere allo stesso tempo veri o falsi. Stereotipi e luoghi comuni non sono sempre falsi e politicamente retrivi: che d’inverno faccia freddo è un luogo comune ma è anche generalmente vero. Tutti noi, infatti, utilizziamo luoghi comuni per orientarci nel mondo. D’altra parte non è solo il razzismo a classificare le persone sulla base di credenze scientificamente false. Anche l’astrologia, per esempio, lo fa. Cosa distingue, quindi, l’astrologia dal razzismo? La rigidità: il razzismo offre tipologie rigide. Ed è proprio la rigidità delle nostre classificazioni a mal adattarsi alla provvisorietà del nostro punto di vista. Un mondo di attestazioni meno rigide, che riconoscesse il giusto spazio alla processualità del vivere, senza l’ossessione di incasellare chiunque in tipologie “ontologiche” che ne fissino l’identità una volta per tutte sarebbe un mondo più umano.
Andando alle distinzioni di sesso. Chiaramente i nostri costituenti asserendo che tutti i cittadini avessero “pari dignità sociale e fossero uguali davanti alla legge”, si riferivano a una concezione binaria, costruita sulla base della predisposizione riproduttiva (ovvero degli organi genitali). A ben vedere però la frase utilizza il maschile sovraesteso (“tutti i cittadini” stava per “tutti i cittadini e le cittadine”), cosa che, al giorno d’oggi, urterebbe la sensibilità di molti (che forse utilizzerebbero l’asterisco per risolvere il problema). Nelle lingue a essere sovraesteso è di regola il termine non-marcato e a proposito del genere il termine non-marcato è quello maschile. È per questo che a proposito della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino nessuno avrebbe pensato che la cittadine potessero essere in qualche modo escluse ed è ancora per questo che nessuna delle tante donne che elessero l’assemblea costituente mostrò di aversene a male per una tale evenienza.
Perché si tratta del nomale funzionamento della lingua e succede in altri mille casi. Nella distinzione alto/basso il termine non-marcato e sovraesteso è alto per cui frasi come “il tavolino è basso 20 centimetri” non si danno. Perché si usa alto e non basso, uomo e non donna? Si possono rintracciare delle ragioni storico/evolutive di queste scelte nella lingua con l’accortezza di considerare l’eventualità che esse possano semplicemente essere frutto del caso o della consuetudine.
C’è poi il problema di identificare un approccio corretto alle distinzioni di genere. L’opposizione maschio/femmina non è un’opposizione fra categorie, fra scatole chiuse, ma fra poli di una medesima categoria. Fa una bella differenza perché significa che la relazione fra i poli del maschile e del femminile è di ordine tensivo e non di cesura netta. C’è di più. Una corretta articolazione logica della categoria, seguendo il quadrato logico aristotelico e la moderna teoria semiotica, si organizza anche attraverso le negazioni dei poli. Ogni qual volta si danno due poli di una categoria, nel nostro caso /maschile/ vs /femminile/, una descrizione accurata di essa comprenderà anche i poli del /non-maschile/ e del /non-femminile/ a rendere conto della natura processuale che la costituisce.
Assumere una identità rigida, pretendendo una irriducibilità della propria condizione che stia a fondamento di una nuova categoria, è dal punto di vista logico una forzatura. Nella sigla LGTB+ il simbolo non alfabetico del più testimonia il fallimento di una visione ontologica delle identità di genere che non riuscirà mai a corrispondere alla varietà della realtà. Il linguaggio è un sistema di descrizione del mondo per definizione imperfetto perché in costante cambiamento sono le sensibilità, i punti di vista, le parole e le “cose” del mondo, incluse le identità di genere che possono variare infinitamente e anche non essere permanenti. Rifiutando di posizionarsi nello spettro tensivo offerto dalla categoria maschio/femmina non si fa altro che costruire intorno a sé un ulteriore stereotipo che sarà gioco facile considerare come una gabbia in futuro.
Ed è così che per questa via si arriva alla sorgente semiotica del problema: il problema del valore. La nostra percezione è orientata da assiologie che sono per lo più spontanee e naturali. Un bambino qualunque sarà attratto da un dolce ma respinto dal solo assaggio del caffè: è naturale. Ci vorrà una giusta educazione alimentare perché egli si persuada di quanto possa essere gustoso anche un caffè amaro.
Ecco allora la parola chiave di tutto: educazione. L’educazione interviene per mediare e problematizzare le automatiche associazioni fra percezione e valore, dirigendole correttamente. Questi passi avanti vengono guadagnati a fatica, grazie a un lavoro per definizione contro-natura, ovvero contro la naturale propensione del bambino alla discriminazione.
E allora l’educazione appare come un vero e proprio percorso di decostruzione, in cui si impara, con fatica, a relativizzare la propria percezione, imparando a distinguere sempre più senza attribuire connotazioni morali alle distinzioni, ovvero senza discriminare. Gran parte delle battaglie della destra contro il politicamente corretto hanno a che fare con la volontà di fare sopravvivere le proprie discriminazioni restaurando luoghi comuni del passato, non di rado facendo appello a un fantomatico stato di natura. Contro un tale andazzo si può scegliere di continuare a distinguere, indicando la differenza, la diversità e allo stesso tempo non discriminandola, ovvero accogliendola come una ricchezza. Ciò non ha nulla a che fare con l’evocazione di tabu o di cancellazioni di parole ma con qualcosa allo stesso tempo più fragile e più complesso: l’educazione al nuovo.
E allora fissarsi sulle parole, magari facendo bella mostra di sé di fronte al prossimo che usa un lessico che non ci piace al motto “le parole sono importanti” è il miglior modo per impedire una reale comunicazione e rinchiudersi in una torre d’avorio di purezza, in fin dei conti, velleitaria e ininfluente sul progresso e sull’emancipazione sociale.