Una mostra di Alberto Sinigaglia / L’evanescenza del sublime
Che ne è del sublime oggi? La domanda si pone a intervalli pressoché regolari negli ultimi decenni, da quando in particolare l’esperienza risulta sempre più mediata da un’interposta immagine. A monte potremmo addirittura dire da quando il sublime stesso è diventato immagine, iconografia da imitare, ma soprattutto da quando la fotografia, ovvero la riproducibilità tecnica, ha moltiplicato le immagini e esteso la loro diffusione fino a rovesciare il rapporto immagine-realtà. Già Susan Sontag negli anni ’70 segnalava l’usanza adottata in alcuni siti turistici di predisporre per i visitatori dei punti da cui fotografare con la migliore veduta del luogo. Figuriamoci oggi con i cellulari! Nessuno resiste a scattare una foto davanti a una cascata o a un tramonto, tutte foto uguali, come hanno gloriosamente reso famoso Penelope Umbrico o Kurt Caviezel.
C’è appunto chi, come loro, ha reagito alla moltiplicazione e omogeneizzazione delle immagini con un lavoro post-fotografico, come ormai viene chiamato, cioè attingendo dai social per mostrare il lato assurdo del comportamento umano, ormai indecidibile tra automatismo indotto e spontaneità sentita. Altri vogliono entrare nel meccanismo stesso della moltiplicazione per vedere se se ne può trarre altro. Così Alberto Sinigaglia.
In vacanza in Kamchatka nella natura più selvaggia che si possa immaginare, lui fotografo nota come tutti i presenti si affrettino a fotografare a raffica tutti dallo stesso punto. Gli vengono due idee. La prima è di riprendere in brevi video quelle scene di fotografia, idea scontata si dirà, ma arricchita dal fatto che il luogo è caratterizzato da emissioni vulcaniche di vapori che di mano in mano avvolgono tutto, come dissolvendo l’immagine e tutto: siamo di fronte a una sparizione, alla negazione dell’immagine nel momento stesso della sua moltiplicazione compulsiva. È il sublime stesso a sparire – il titolo dell’esposizione di Sinigaglia che stiamo descrivendo, che si tiene allo spazio Baco di Bergamo fino al 19 luglio, è appunto Vanishing Sublime –, ma è anche il sublime a far sparire, o meglio a ricondurre alla sparizione, alla impossibilità o inefficacia dell’immagine, del linguaggio, come nella sua definizione classica. Jean-François Lyotard, che ha scritto pagine memorabili sul tema, parla di indeterminazione, di incommensurabilità, di inesprimibilità a causa della discrepanza tra immaginazione e intelletto da un lato e tra reale e linguaggio dall’altro. Ne riparleremo.
Questa prima idea riguarda la moltiplicazione, che Sinigaglia riporta alla fotografia stessa, medium meccanico che l’ha resa globale, avendo la “riproducibilità” come carattere intrinseco, consustanziale, il cui derivato attuale è il “copia e incolla” dei dispositivi d’oggi, come ricorda l’artista con un’opera esposta nell’ultima sala, che consiste nelle due parole scritte con il neon, posta accanto all’unica immagine fotografica della mostra, una cartolina d’inizio secolo scorso di una cascata enormemente ingrandita, stampata su un green screen da studio fotografico teso in mezzo alla stanza. Il sublime è diventato un fondale, tutte le fotografie lo ripeteranno come tale.
“Lo smartphone standardizza qualsiasi paesaggio fotografico. All’interno di questa fittizia realtà anche una cascata altro non è che decoro, come tutto il resto ora, scorcio ‘instagrammabile’ e packaging ideale per accelerare la consumazione di immagini, di desideri, invidie. È una sorta di utopia al collasso, in cui spiritualità ed edonismo coesistono, un luogo dove le criticità e le espressioni della contemporaneità emergono in modo chiaro e violento. Quando l’immagine attraversa i social, la sua riproduzione, slegata da una soggettività specifica, vista come genericità, si mostra per quel che è: una copia priva di originalità”, si legge sul comunicato di presentazione della mostra.
La seconda idea è audace. Sinigaglia decide di non scattare altre fotografie, bensì di prendere una manciata di pietre del luogo e portarsele via. Si penserà che abbia preteso ingenuamente di rispondere allo svuotamento dell’immagine con il (presunto) reale, ma non è così, non finisce qui. A casa infatti l’artista ha preso dei resti di smartphone rottamati e li ha aggiunti alle pietre, integrando l’insieme in un amalgama a formare un blocco solido. Alcuni di questi blocchi parallelepipedi sono esposti come delle sorte di sculture. Ma è solo l’inizio di un processo per cui Sinigaglia ha, diciamo così, usato tale blocco come matrice di un nuovo procedimento fotografico, cioè un procedimento modellato su quello fotografico ma con matrice, materiali e strumenti diversi.
Questo modo di procedere ha indotto i curatori della mostra e dello spazio Baco, Mauro Zanchi e Sara Benaglia, a parlare di “metafotografia”, titolo con cui hanno realizzato due mostre collettive con ottimi due cataloghi (Skinnerboox editore), a cui sono seguite mostre personali di alcuni degli artisti come questa stessa di Sinigaglia. Ma il termine “metafotografia” rimanda troppo al metalinguaggio, che a me non pare la posta in gioco, ma che anzi il tema sia proprio se sia in atto un passaggio ulteriore.
Sinigaglia dunque da quegli amalgama ha poi tagliato delle sezioni millesimali – anche di queste sono esposti alcune – che ha usato come vetrini fotografati al microscopio elettronico, “come se fossimo dei geologi o archeologi”, si legge sempre nella presentazione. Queste fotografie meccaniche, non-umane, non-retiniche, sono l’esito finale del processo: “Abbandonando definitivamente la visione umana sul paesaggio, le immagini prodotte dal microscopio elettronico sono il CTRL+C CTRL+V ultimo dello svanire del paesaggio, del sublime, definitivamente compromesso dal suo doppio”.
Questa l’intenzione dichiarata, di denuncia quindi, che ne è del fascino che chiunque subisce di quelle immagini – a parte quello che pochi, ahimè, sentono per il procedimento stesso, ma questa è forse un’altra storia che solo i cultori più stretti dell’arte contemporanea si sentono di affrontare? Il sublime, come l’aura, come il punctum, sono duri a morire, si trasformano, si spostano, si ri-presentano. Per alcuni sta oggi proprio nel confronto con il non-umano.
Torniamo allora a Lyotard, che qui non può non venire in mente, perché egli ha affrontato la questione del sublime in rapporto alle avanguardie artistiche affermando che queste lo hanno trasformato da iconografia-rappresentazione ad astrazione-forma (e da spazio in tempo: l’“istante-ora” di Barnett Newman). D’altro canto, questione non secondaria, il sublime non è un sentimento di impotenza, di sopraffazione, di scacco, ma invece di ambiguità, meglio di indeterminazione, di discrepanza, non soluzione tra le facoltà del soggetto, di una scissione tra ciò che egli può concepire e ciò che può immaginare. Questa crea una tensione, una “agitazione”, che dà il tono del sentimento del sublime, una privazione che crea una intensità, che non ha a che vedere né con il bello né con il piacere, ma con il delight, la délice, traduce Lyotard da Edmund Burke. Non è quello che proviamo di fronte a queste immagini di ingrandimenti da microscopio? Sono delle immagini “astratte”, che assomigliano cioè alle composizioni dell’arte astratta, ma che in realtà sono il cuore stesso del reale, compreso il meccanico e il tecnologico; sono a loro volta immagini meccaniche, non umane, ma al tempo stesso volute-assunte dalla ricerca dell’artista; sono la pietra e lo smartphone, ma al tempo stesso non più; infine non sono fotografie in senso proprio ma l’esito del procedimento fotografico portato al suo stadio vertiginoso.
Vengono in mente la quinta Verifica di Mulas, quella degli ingrandimenti con cui Ugo Mulas ha ritrovato il fondo di sali d’argento dell’immagine fotografica, evidentemente analogica, o la serie Jpg di Thomas Ruff, che ha ritrovato invece i pixel di quella elettronica. Lungi dall’essere delle pure verifiche metalinguistiche o applicazioni dimostrative, tutte forse mirano al cuore sublime dell’immagine, non solo fotografica ma “assoluta”, se così si può dire. A me è apparsa così la nuova mostra di Sinigaglia, una multimedialità che ruota intorno al fotografico eletto a procedimento ripensato, post e meta insieme, ma non solo.