Una conversazione / Sun Yuan e Peng Yu: I Can’t Help Myself
Talvolta l’arte pare più vera della vita. E l’efficacia di tale verità è data dal non presentarsi in tempo reale in un contesto, in cui ogni esistenza è tele-presente a se stessa.
Una scopa, collegata a un braccio meccanico che muove l’aria, dissipa un cerchio di fumo ogni volta che viene a formarsi dal meccanismo. Sun Yuan Peng Yu (2009) è l’installazione-autoritratto che descrive il sodalizio del duo artistico cinese composto da Sun Yuan (Beijing, 1972) e Peng Yu (Jiamusi, 1974), formatosi nell’ambiente culturale della Beijing degli anni Novanta e diventato stabile dal 2000: “Ogni persona pensa a una cosa sola quando si mette insieme a qualcun altro; una relazione espressiva sarà costruita tra di loro”.
Sun Yuan e Peng Yu hanno espresso la loro singolarità, sfidando gli standard morali prevalenti nell’arte contemporanea globale attraverso un approccio concettuale, in spettacoli e installazioni che evocano un senso di minaccia.
Il loro lavoro si caratterizza per l’uso di materiali inusuali (quali la tassidermia, il grasso umano e le macchine), con un’attenzione particolare per il conflitto e il paradosso, elementi che dall’opera si trasferiscono nel contesto che le accoglie.
Nel 2017, al Museo Guggenheim di New York presentano Dogs That Cannot Touch Each Other (2003): quattro coppie di pitbull americani si affrontano a vicenda, mentre corrono su tapis roulant non motorizzati. Il lavoro suscita l’indignazione di sostenitori dei diritti degli animali, che a due settimane dall’opening della mostra fanno pressione sul museo affinché l’opera venga esclusa dalla mostra. Il compromesso del Guggenheim è di esporre il video della performance, e non l’azione stessa, seppur si trattasse di un’opera “sconvolgente”.
I due artisti cinesi utilizzano tecnologie “abbastanza comuni, quelle presenti nella vita quotidiana”, e creano cortocircuiti, in una tensione tra realtà e ideali. Con l’avvento del motore nel XIX secolo, la distinzione cartesiana tra macchina animale e essere vivente è drammaticamente collassata. Il corpo del lavoratore (il “motore umano” di Anson Rabinbach), come le macchine industriali, converte l’energia in lavoro meccanico. Mentre “all’automa non può più essere negata un’anima”, l’espansione storica della metafora del motore umano ha portato a una simulazione dei gesti della macchina da parte dell’uomo e a una eliminazione della resistenza di quest’ultimo al lavoro continuato. Il progresso era pronto a eliminare la fatica e “la metafora del motore umano ha dato credibilità agli ideali del liberalismo socialmente reattivo”.
Nel Padiglione Cinese della Biennale di Venezia del 2005, il duo invita l’agricoltore cinese Du Wenda, della provincia di Anhui, a presentare il disco volante da lui costruito insieme ad altri agricoltori locali. Questo UFO – fabbricato con rottami metallici e fogli di alluminio, e capace, secondo Du Wenda, di raggiungere la Luna – aveva attirato le attenzioni delle stampa nazionale cinese e successivamente di quella internazionale. Il salto di Du Wenda dalla cultura feudale allo spazio extraterrestre è stato considerato un simbolo (esasperato) del salto della Cina verso la modernità. L’immaginazione di Du Wenda precedeva l’atterraggio lunare nel 2013 del rover Coniglio di Giada, giunto sulla Luna a bordo del vettore cinese Chang’e, prima sonda a effettuare un atterraggio morbido sulla Luna, dopo quello di Luna 24, missione sovietica del 1976.
Magistrale è l’opera Old people’s Home (2007) in cui tredici anziani – resi in modo iperrealistico, molto simili ai leader della scena politica mondiale in quegli anni, seduti su sedie a rotelle elettriche – si scontrano lentamente e in moto continuato come autoscontri alle giostre. Peng Yu afferma in un’intervista precedente che “l’idea di Old Persons Home è giunta mentre erano in Europa: “Abbiamo visto molti vecchi per strada” e continua Sun Yuan “ci sono tredici protagonisti. Ci immaginavamo queste tredici persone che si recavano in luoghi diversi per fondare ognuno una propria nazione. E governarla gelosamente. Pensavamo: che ne sarà di loro nella vecchiaia, quando non potranno più esercitare i loro poteri? Abbiamo immaginato che si trovassero all’ospizio a giocare all’autoscontro, ognuno sulla propria sedia a rotelle. Forse non si rassegneranno mai a smettere di lottare. Persino quando non hanno più il fisico, il gesto della lotta rimane per loro l’unica cosa che li fa sentire vivi”.
La lotta tra la compulsione umana e la natura fisica dei materiali è oggetto anche dell’opera I Can’t Help Myself (2016), presentata all’ultima Biennale di Venezia da Sun Yuan e Peng Yu, su cui è incentrata l’intervista che segue.
Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Per realizzare “I Can’t Help Myself” (2016) avete utilizzato un robot industriale, di quelli comunemente impiegati nelle catene di montaggio, un braccio meccanico chiuso in una grande teca in plexiglass che si muove cercando di contenere un liquido vischioso molto simile al sangue, sensori di riconoscimento visivo e sistemi software che gli permettono di eseguire ben trentadue movimenti diversi. I suoi movimenti paiono al contempo gesti calcolati e movimenti fuori controllo: trasmettono un senso di pericolosità, una minaccia, e lasciano intendere qualcosa che riguarda un'azione calcolata a priori dal potere e dalla classe dirigente. Quale è stata la prima idea o collegamento da cui siete partiti per realizzare questa opera polisemica? E in prospettiva cosa predice questa opera immaginando scenari e minacce future?
Sun Yuan e Peng Yu: L'idea nasce da una forma di disturbo ossessivo compulsivo: quando un bicchiere d'acqua viene rovesciato sul tavolo e l'acqua si diffonde, le persone usano inconsciamente le mani per bloccare il flusso d'acqua, per impedire che l'acqua goccioli a terra o più in là sul tavolo. Il senso di controllo è un istinto umano. Viviamo tutti in un sistema, controllati dal sistema, e cerchiamo di controllare più cose nel sistema. L'incarnazione del potere di una persona risiede in quanto controlla il mondo. Più si ha il controllo e più si ha il potere. Questa regola non cambierà mai, dai tempi antichi fino al futuro. Nel frattempo, il libero arbitrio di un uomo è come il flusso dell'acqua, sempre cercando di liberarsi del controllo. Questa è una contraddizione, che ci intriga. È inspiegabile che anche in futuro, quando l'uomo avrà più libertà, allo stesso tempo sarà governato ugualmente, e in forma forse diversa da come accade oggi, da un sistema più potente. In un certo senso, non saremmo in grado di ottenere più libertà senza una regola più potente.
Per quanto riguarda le minacce che potrebbero venire dal futuro, pensiamo che giungeranno sempre dall'uomo, non dalle macchine. Le macchine non hanno il libero arbitrio. Semplicemente eseguono il libero arbitrio umano in modo accurato. Alla fine della giornata, non importa quanto potenti siano le macchine che vediamo, ciò che vediamo è ancora il potere dell'umano, e l'assurdità dell'umano.
La macchina di “I Can’t Help Myself” (2016) esegue anche azioni che non le sono affatto consone. Il modo del tutto sgraziato con cui si muove fa schizzare il “sangue” sulle pareti della teca. Lo spettatore non può far altro che guardare, oltre la teca di vetro, osservare i gesti della macchina mentre si viene pervasi da un profondo senso di inquietudine: un automa umanizzato che spala sangue. Che ruolo ha lo spettatore in rapporto alle vostre opere, quando ci sono recinti che lo relegano solo a un ruolo passivo?
Non abbiamo alcun obbligo di considerare il pubblico. Questa opera non è un film commerciale, non abbiamo bisogno di guadagnare soldi dal pubblico. In effetti, anche quando un'opera non viene esposta c'è un pubblico, che è l'artista stesso. Gli artisti a volte hanno bisogno di osservare le loro opere come pubblico. Quando hai bisogno di considerare altri pubblici oltre a te stesso, significa che questo pubblico è diventato un materiale nel tuo lavoro, un lavoro sperimentale. A questo punto, questo pubblico fa già parte del tuo lavoro, sta dentro, e quindi non è più un pubblico. Il vero pubblico è ancora l'artista stesso, che osserva un materiale guardando un altro materiale.
Anche “Dear” (2015), all’Arsenale, è contenuta dentro la teca, dove un sontuoso trono in silicio bianco, e quindi un oggetto dove si presume siedano persone che rivestono potere. A intervalli regolari, un tubo di gomma inizia a sbuffare aria altamente pressurizzata che lo trasforma in una frusta feroce. Questa, contorcendosi in modo convulso, danneggia sia la teca, sia lo stesso “trono”. Quando l’aria smette di pompare violentemente, la poltrona torna a essere inerte, e si trasforma in un oggetto quasi seducente e invitante nel suo candore austero. Ma solo fino all’attacco successivo. Anche qui ogni fruitore è solo costretto a essere passivo testimone dell'azione del potere, delle trame ambigue della dittatura, della repressione, la coercizione?
Il pubblico è solo un passante. Può imbattersi in questa strana scena. Non ha bisogno di fare associazioni su realtà politiche o sociali. Basta guardare questa scena.
La seduta è liberamente ispirata a quella del Lincoln Memorial di Washington DC? Fino a che punto un sistema che si professa democratico, oggi, può essere immune da retroscena controversi?
Naturalmente. La forma di questa sedia si riferisce alla sedia di Lincoln. La democrazia è un argomento interessante, ma non siamo bravi a farlo. Non siamo sicuri che sia davvero un'esplorazione, o una trappola, o forse entrambe le cose. Ma ha il potenziale per esplodere con grande potenza.
I vostri lavori sembrano agenti che esprimono un’intenzione, un’azione, al posto vostro sulla scena. Talvolta si tratta di elementi meccanici ed elettrici dotati di una durata infinita, per cui sono in grado di mettere in scena perfomance senza fine. La macchina, prolungando l’estensione temporale di una intenzione, può modificare la stessa?
No, l'attore che interpreta l'Amleto può morire, ma il personaggio Amleto non muore. Vivrà sul palcoscenico per sempre; nuovi attori entreranno in scena e lo spettacolo continuerà.
La macchina è incapace di mettere in atto azioni che non siano programmate dall’uomo, ovvero azioni che vadano oltre l’esperienza umana. Ma la macchina non sente fatica, per cui è in grado di eseguire un lavoro in maniera continuativa, almeno fino a quando essa sarà alimentata. Nel vostro lavoro non c’è ibridazione tra natura umana e macchinica, piuttosto le due sono mantenute distinte. Perché?
Le macchine non hanno il libero arbitrio, che deve essere definito dall'uomo. Le macchine possiedono qualsiasi natura che l'uomo decide di dare loro. La meccanica è parte della natura umana. Le macchine non fanno altro che amplificare questo, molte volte più del corpo umano, ma è ancora la volontà umana che funziona. La durata delle macchine deriva dal disegno delle persone, non da sé stesse.
Nella vostra domanda c’è qualcosa che ci sfugge: cosa si intende quando si dice che "la natura umana e quella meccanica sono tenute distinte"? Se una macchina risponde a questa domanda, questa domanda non avrà risposta. Penso che quello che voi state cercando di chiedere è: “perché c'è un confronto tra il moto meccanico e il flusso del liquido?” Perché c'è una persona che trova interessante questo confronto, essi sono progettati per essere ciò che è.
Ringraziamo Laura Scaringella, Fabio Benincasa e il Macro Asilo di Roma.