Leggere John Berger, alcuni libri
“Ci può essere amore senza pietà?”, si domanda a un certo punto Odile, voce narrante di Una volta in Europa (tr. it. Maria Nadotti, Bollati Boringhieri, 2003). L’interrogativo ritorna più volte, in varie forme e modi, nel libro di racconti di John Berger, sua ultima prova narrativa. È una domanda cui è difficile rispondere; le storie che Berger ci narra sono tutte la variazione intorno a un medesimo tema: l’amore come pietà. I protagonisti dei cinque racconti sono dei perdenti, che mostrano in modo differente il nesso inscindibile che esisteva un tempo tra l’amore e il sentimento di compassione che si prova dinanzi alle sofferenze degli altri (e alle proprie).
La civiltà di cui Berger racconta è quella contadina, giunta al tramonto in Europa negli anni sessanta del XX secolo, dopo oltre mille anni di quasi assoluta continuità. Lo sguardo stesso con cui Berger si rivolge ai suoi personaggi è improntato alla pietas, sentimento insieme pagano e cristiano, che implica una dose notevole di dignità, senso dell’onore, forza d’animo. Félix è un contadino di quarant’anni che resta solo dopo la morte della madre e si mette a suonare la fisarmonica; Boris è un allevatore di pecore e cavalli che perde la testa per la sua giovane amante; Danielle è una rude montanara francese che s’innamora di un taglialegna, gli dà un figlio e va vivere con lui a Bergamo; Odile è una donna che si sposa a diciassette anni, resta vedova a diciotto, ha un altro figlio da un uomo che ha perso entrambe le gambe; Bruno, contadino francese, e Marietta, farmacista di Mestre, s’incontrano a Venezia.
Una volta in Europa è un libro straordinario, scritto nel corso di lunghi anni da uno degli ultimi storyteller europei, “uomo di confidenza” in bilico tra oralità e scrittura. Nella storia di Odile, ad esempio, quello che conta non è infatti solo ciò che accade, ma il modo con cui viene narrato: i cambi di tono, il modo con cui la voce che parla si rivolge a chi ascolta, l’essenzialità della prosa e la sua ricchezza. Berger possiede l’arte di raccontare ma anche l’arte di ascoltare. Lui che da trent’anni vive in un minuscolo villaggio delle Alpi francesi, non sarebbe infatti quel narratore che è senza l’arte dell’ascolto della sua gente, delle loro storie. Ma Berger è molto di più: saggista, poeta, giornalista, critico d’arte, pittore, sceneggiatore. Chi ancora non lo conosce qui lo incontra in uno dei suoi punti più alti e convincenti, in cui prosa e tensione narrativa si sposano in modo perfetto: “Serba le lacrime/amore mio/per la prosa”.
Il titolo del disegno, scritto a mano, è: “Come nasce l’impulso di disegnare qualcosa?”. Sono due penne opera di John Berger; si trovano sulla copertina bianca del volume Il taccuino di Bento (tr. di Maria Nadotti, Neri Pozza, 2014). Sulla sinistra il logo dell’editore entra nello spazio: un riquadro rosso bucato in bianco; sotto: NARRATIVA in rosso. Lo scrittore inglese disegna. Anzi, com’è raccontato in un altro straordinario libro, Contro i nuovi tiranni (a cura di Maria Nadotti, Neri Pozza, 2013), aveva cominciato come pittore a olio. Poi ha capito che lo scrivere era in un rapporto più diretto con la realtà, è nella realtà e vi agisce; così si è messo a scrivere: critico d’arte, giornalista, narratore, sceneggiatore, autore teatrale. Ma non ha mai smesso di disegnare.
Nella pagina del libro – il Bento del titolo è il soprannome di Baruch Spinoza – in cui compaiono le due penne (per scrivere e per disegnare), Berger spiega che l’atto del disegno è qualcosa di simile a una funzione viscerale, come digerire o sudare, funzione inconscia, non sottoposta ai processi razionali. Si occupa di qualcosa d’anteriore allo stesso ragionamento logico. Appartiene – questo lo dico io – al sistema nervoso vago, quello che assicura il respiro e la digestione, indipendentemente da noi. Berger è uno straordinario scrittore. Unisce una grande semplicità di scrittura a una complessità del detto. Meglio: scrive in modo diretto, va al cuore delle questioni, e tratta sempre questioni assai complicate. Usa la sensibilità propria, e quella del lettore, per far procedere il suo dire, il suo ragionamento, che non si appella solo alla razionalità, ma parla alle parti inconsapevoli dei lettori. Fa dialogare il suo inconscio con il nostro inconscio; non quello collettivo, bensì l’inconscio individuale. Per questo non ha mai smesso di disegnare; gli è necessario.
Il taccuino di Bento è sia il taccuino di Berger, che quello del filosofo olandese. Ci sono infatti molte citazioni di passi di Spinoza, intervallati da racconti, brevi storie, riflessioni, disegni, appunti visivi. Un libro inconsueto, a un tempo frammentario e compatto. A tenere tutto insieme è la passione di Berger, che traspare in ogni riga o tratto. I suoi disegni sono raffinati e insieme elementari. Ricordano gli acquerelli di Goethe, e quelli dei grandi scrittori romantici, che accompagnavano le parole con il disegno. Sono modi di vedere il mondo. Con le immagini e con le parole.
Il barbagianni ci guarda dalla copertina del libro di John Berger, Perché guardiamo gli animali (tr. Di Maria Nadotto, il Saggiatore), tradotto da Maria Nadotti sua lettrice e interprete. Si tratta di uno scatto del fotografo londinese Tim Flach, specializzato in ritratti di animali: li rende umani. In effetti, il barbagianni che ci traguarda con i suoi occhi gialli e neri sembra proprio rivolgersi a noi (a me). Cosa vuole? Perché ci (mi) guarda? Lo spiega Berger in quello che è uno dei suoi saggi più belli contenuto nel volume, cui dà il titolo. Scrive l’autore che quando sono intenti a esaminare un uomo gli occhi degli animali sono “vigili e diffidenti” (è vero, così interpreto lo sguardo un po’ obliquo del volatile). L’animale può guardare – continua – così anche un’altra specie. Non riserva per nulla uno “sguardo speciale” all’uomo. Piuttosto è l’uomo che sente che quello sguardo gli è familiare: “Gli altri animali sono tenuti a distanza da quello sguardo. L’uomo diventa consapevole di se stesso nel ricambiarlo”. Proprio così. Ecco cosa ci (mi) attira in quel barbagianni. Ma c’è un’altra cosa che aggiunge Berger nel suo scritto: l’animale ci scruta attraverso “uno stretto abisso di non-comprensione”. Per questo l’uomo sorprende l’animale, perché crede di capirlo. Ma è vero anche il contrario: l’animale, specie se domestico – cane, gatto – può sorprendere l’uomo.
“L’uomo guarda sempre – aggiunge – attraverso la propria ignoranza e la propria paura”. Se avessi lo spazio trascriverei qui tutto il saggio di Berger, proprio come fa Pierre Menard con il Don Chisciotte in un racconto di Borges. E probabilmente non sarebbe la stessa cosa che ha scritto John Berger, ma quello che io ci ho visto nel saggio di John Berger. Tutta una questione di sguardi. Noi ci siamo staccati dagli animali, per questo popolano le stanze dei nostri figli. Dormono stringendo peluche di animali come topi, coccinelle, orsi, cani, gatti, scimmie e altri animali che sono usciti dai film e dai cartoni animati che guardano (e noi guardiamo con loro quando sono piccoli). Siamo rimasti degli animali e guardandoli ci guardiamo. Il saggio dice queste cose e molte altre che mi sono immaginato ci siano scritte. Leggere è un’attività aggiuntiva, non sottrattiva; anche guardare è così. Del resto, leggere presuppone l’atto di guardare (anche se chi non vede, chi ha perso la vista e legge con le mani, ugualmente “vede”). Berger ha scritto un libro magnifico.
La mano che disegna il profilo contiene l’occhio; sta tra il pollice e l’indice, e ci guarda. Un bulbo oculare a colori, lo stesso, in bianco e nero, che troviamo nell’interno. La copertina del libro di John Berger, Cataratta (t. it. di Maria Nadotti, Gallucci, 2015) è opera di Selçuk Demirel, illustratore nato in Turchia sessantun anni fa, collabora a “Le Monde” e al “The New York Times”; vive a Parigi e lavora in stretto contatto con lo scrittore inglese. Il libro di Gallucci esce nella collana “Alta definizione”, che si distingue per una piega della sovraccoperta nell’angolo basso, a destra, dove si mostra il cartoncino che lo rilega; è azzurro e vi sono indicati in basso titolo e autore (ma non nome del disegnatore). Si tratta di un libro inconsueto perché è dedicato alla cataratta; o meglio, alla perdita di visione di Berger a causa della cataratta e alla conseguente operazione cui lo scrittore si deve sottoporre per vedere ancora bene. Per gran parte del libro il personaggio disegnato da Selçuk Demirel se ne sta sdraiato e appoggia la testa al braccio ripiegato. Noi vediamo il suo capo, gli occhi, ovviamente, e una piccola parte del corpo; il disegnatore turco gioca sugli occhi che disegna in modo sempre diverso per dar forma visiva, nella pagina di destra, a quello che scrive, nella pagina a sinistra, Berger. Questi sta raccontando come vede, cioè male. Paragona la visione di un occhio a quella dell’altro. Vede bene con uno maluccio con l’altro. Deve operarsi. Lo fa. Rimuovono la cataratta.
La parola viene dal greco e significa “cascata” o “inferriata”, “un’ostruzione che scende dall’alto”. Prima Berger si fa rimuovere l’inferriata dall’occhio sinistro; mentre sul destro permane. Così si mette a guardare e a misurare le differenze. Il commento visivo del disegnatore è un controcanto: spiritoso, inventivo, immaginario. Dà forma alle parole di Berger, le interpreta. Lo scrittore è operato all’occhio destro, e scrive qualche appunto su come ora vede. Da quel momento in poi l’uomo sdraiato si mette dritto; la sua testa ora è diversa. Il disegno si movimenta. La testa coincide con l’occhio stesso, che è dilatato: un enorme bulbo; del resto, Berger è un campione del guardare (e del vedere). Bellissima la frase citata nella quarta: “Se le porte della percezione fossero purificate, tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è, infinito” (W. Blake). Era la frase preferita dal fotografo Luigi Ghirri, sintesi della sua poetica.