Suzhou / Il Giardino dell’umile amministratore
Si potrebbe, sulla falsariga del concetto di tristes tropiques di Lévi-Strauss, parlare di “tristi luoghi”, cioè non di oggetti di per sé tristi, ma del modo in cui certi siti sognati da tempo, ci deludono. Tale fenomeno si manifesta ancora più prepotentemente quando l’oggetto in questione è un giardino. Mentre la maggior parte delle opere d’arte riesce a mantenere la sua identità e una parvenza di eternità estetica, il giardino sopravvive cambiando incessantemente forma e sostanza. In questa luce tutti i giardini appaiono un po’ malinconici, riflessi di una immagine perfetta che non potrà mai acquisire una Gestalt stabile. In questo senso tutti i giardini sono edenici, ovvero perduti.
L’incontro con un giardino cinese è, se possibile, ancora più problematico ed esposto alla mutabilità del tempo. La città dove il “giardino cinese” appare tuttora accessibile è Suzhou, l’antica capitale della seta, il cui giardino-simbolo – che promette un’immersione nell’atmosfera e nello spirito del “classico giardino privato cinese” – è il Giardino dell’umile amministratore (chiamato a volte Giardino dell’amministratore maldestro).
Questo giardino di epoca Ming fu costruito da Wang Xiancheng sul sito della residenza di un poeta dell’era Tang, tra il 1509 e il 1513. I lavori, che durarono quasi sedici anni, permisero al proprietario di collaborare al progetto con uno dei massimi pittori cinesi di tutti i tempi, il grande Wen Zhengming 文徵明, 文征明. I giardini “privati” di questo tipo appartenevano a funzionari di alto rango che, arrivati all’età matura, vi si ritiravano per coltivare una forma di vita artistica dedicandosi insieme agli amici alla pittura, alla musica, alla poesia e alla calligrafia. Il Giardino dell’umile amministratore ebbe da subito vita travagliata.
Dopo la morte del fondatore, il figlio perse l’intera tenuta giocandosela ai dadi. Il nuovo proprietario, un mandarino locale, morì dopo pochi mesi dall’acquisto, così il giardino diventò proprietà statale. Diviso in due, fu abitato da due mandarini militari finché divenne, nel 1644, proprietà del nuovo imperatore manciù. Sempre nel Seicento alcuni signori della lontana Pechino spostarono addirittura degli edifici e prelevarono varie rocce (in Cina l’estetica dei giardini conferisce da sempre una grande importanza alla collezione di rocce bizzarre) dal giardino. Quando, nel 1736, l’imperatore Qianlong 乾隆帝 prese possesso del giardino si lamentò dello stato di abbandono dell’insieme.
Poco tempo dopo, un nuovo proprietario-funzionario cominciò il restauro della tenuta e battezzò la parte est dell’opera Il giardino ricomposto (la parte ovest fu chiamata invece Il giardino dei libri). Questo movimento di perpetua trasformazione proseguì nell’Ottocento e nel Novecento, quando il giardino fu adibito a quartiere generale delle truppe di occupazione giapponesi. Fu soltanto nel 1961 che i tre giardini residuali (in seguito alla riduzione da diciotto a tre ettari sopravvenuta nei secoli), riuniti e rinnovati per l’ennesima volta, furono accorpati sotto il vecchio nome di Giardino dell’umile amministratore.
Il visitatore che cerca di scoprire questo giardino, catalogato in Cina come “naturale”, può esperire un insieme assai curato con padiglioni, sentieri, pareti bianche e ampie sale aperte. Qua e là sopravvive qualche antica rosa mentre il pino di Buddha (podocarpus macrophyllus) sorprende con le sue sfumature di verde. L’elemento acquatico è un elemento dominante e occupa più della metà del giardino ricostituito. Anche facendo astrazione dalla difficoltà di visitare il giardino in modo sereno e tranquillo, vista la folla che lo occupa a ogni ora del giorno, si prova in questo luogo così importante per la storia dei giardini cinesi un’impressione strana. Il Giardino dell’umile amministratore sa in altri termini di fake, di gigantesco falso. Gli elementi architettonici più “antichi” risalgono a malapena agli anni 1850. Il modo di presentare le piante è moderno e corrisponde più alla citazione di un giardino cinese in un parco tematico che a un qualcosa di originale. La totalità – imponente e non priva di complessità – manca di magia e di patina.
Confrontato a tale delusione e voglioso di dare comunque un senso alla visita (e alle aspettative verso quest’opera giardinistica) ho trovato a un tratto l’elemento che permette di creare – anche fenomenologicamente – quel senso di magia che le faceva difetto. Si tratta dell’utilizzo della finestra, o meglio della pseudo-finestra, declinata qui e in altri giardini cinesi in svariati modi, sempre sorprendenti. La deambulazione in un giardino di questo tipo dimostra la potenza straordinaria di un dispositivo che tutti pensiamo conoscere. Basta seguire il filo delle “finestre” dei giardini di Suzhou per rendersi conto di come un artefatto tanto semplice generi una serie illimitata di paesaggi.
Si è detto spesso che la Cina ignora il paesaggio non possedendo alcun termine per identificare il concetto di origine europea. Shanshui, 山水, montagna-acqua, la formula che proviene dalla pittura classica, sembra indicare un modo di rappresentazione non-paesaggistico e privo di prospettiva centrale. Il “paesaggio cinese” non è un fermo-immagine, bensì l’incontro mitico dell’elemento duro (montagna, roccia) con quello liquido (l’acqua in tutte le sue forme). Si tratta di un paesaggio “filmico”, non statico come era invece quello che attraversò l’arte europea dal Quattrocento in poi.
Eppure, di fronte alla serie interminabile di finestre nei giardini cinesi nasce il dubbio che le cose siano in verità più complesse. Georg Simmel, uno dei maggiori teorici del paesaggio, spiegava che esso nasce come risultato di un’operazione di inquadratura o incorniciatura: il soggetto ritaglia “un pezzo di natura” (ein Stück Natur) che, concentrato all’interno di un quadro, gli farà scoprire “un mondo”. Il paesaggio non è quindi mai dato “naturalmente”; necessita una mediazione, che avviene grazie a operazioni che separino una parte dalla totalità, pur mantenendo l’idea che quel ritaglio appartenga a qualcosa di più vasto, la natura per l’appunto. La storia del paesaggio europeo corrisponde a un lavorio estetico che concentra dapprima le visioni del mondo (della natura) all’interno del dipinto-“finestra aperta” (Alberti) e che permette poi di fissare all’interno, e grazie alla vista, degli scenari identificabili come paesaggio. Il giardino cinese con le sue sequenze quasi ininterrotte di finestre è dunque una potentissima macchina paesaggistica. A Suzhou tutto ciò è palese. Ecco una finestra rotonda che si apre all’interno di un muro: già da lontano desta la nostra curiosità. Man mano che ci avviciniamo il ritaglio visibile si trasforma. Anzi, dal momento in cui il nostro occhio segue quel punto, il nostro essere-nel-mondo cambia: i nostri passi svelano dettagli sempre nuovi.
Il susseguirsi di finestre di ogni genere fa apparire il giardino come un enorme teatro; ad ogni svolta, la realtà diventa scena perché ripresa all’interno di una finestra. Le finestre sono di tantissime forme, regolari e irregolari, semplici e aggraziate; anche questa loro bellezza ogni volta diversa è fonte di piacere. L’effetto di mise en abîme che accompagna la scoperta del giardino rinforza la riflessività: mentre prima il percorso sembrava banale, un mero remake, ora, grazie alle finestre, la realtà si fa doppia, triplice… infinita. Il paesaggio, lo sappiamo, si dà per sorpresa. In questi giardini che ci parevano mancare di magia, la sorpresa è programmata, o meglio costruita: le finestre non smettono di offrirci ritagli inaspettati. Viene in mente un’ulteriore analogia: nel viso umano gli occhi sono finestre, mentre sul muro le finestre fungono da occhi. Nei giardini cinesi esposti alla trasformazione e al degrado, le finestre onnipresenti funzionano proprio come degli occhi, e tutto ciò che di primo acchito sembrava piatto e ripetitivo appare ora come un’affascinante seconda natura.