Speciale
Militanza etica / L'inizio della scuola
Come ogni anno, all'inizio della scuola si accompagna un senso di ripetizione delle stesse cose: come le stagioni, per usare un luogo comune. E infatti il nuovo ministro dell'istruzione, nella sua prima dichiarazione, ha evocato il luogo comune della contrapposizione vecchi/giovani. Come il suo predecessore, per il quale il problema delle scuole al sud sembra originato dagli insegnanti meridionali che non hanno voglia di lavorare. Prima di loro, un'insegnante consulente "di sinistra" del MIUR, barricadera a governi alterni, aveva parlato di insegnanti che lavorano solo 18 ore. Sembra impossibile parlare di scuola senza luoghi comuni; anche quando se ne vorrebbe parlare bene, si incorre in quello dell'istruzione che rende liberi: dimenticando che la scuola può sì rendere liberi, ma può anche incatenare, trasmettendo la cultura dominante all'interno dei soggetti che apprendono.
I luoghi comuni sono conoscenze vaghe o superficiali, derivanti da percezioni inadeguate, dal sentito dire, da pregiudizi o passioni tristi (rancore, invidia, odio). Ma sono rassicuranti: confermano quello che già crediamo di sapere, ci fanno sentire in buona compagnia, esonerano dalla fatica del pensiero critico. Ci confermano che le cose sono così, che "non c'è alternativa" allo stato di cose presenti: che è l'ideologia dominante del capitalismo del terzo millennio, quella che Mark Fisher chiama "realismo capitalista".
Come li combattiamo, questi luoghi comuni? Con quelle che Spinoza chiamava "nozioni comuni". Una nozione comune sulla scuola, è quella di Raoul Vaneigem che inserisco sempre nei miei documenti di programmazione: una scuola in cui la vita si annoia educa solo alla barbarie. Una nozione comune è ciò che è comune a più cose, presente sia nella parte che nel tutto. L'affermazione di Vaneigem, infatti, accomuna diverse sentenze:
- una scuola che ostacola i desideri stimola l'aggressività;
- non può esserci conoscenza dove c'è oppressione;
- imparare senza desiderio vuol dire disimparare a desiderare;
- ciò che si insegna attraverso la paura rende il sapere timoroso.
Ciò che accomuna queste sentenze è una precisa idea delle istituzioni del sapere: fare della scuola il centro di creazione di vita, non l'anticamera di una società parassitaria e mercantile.
Guardiamo le condizioni di esercizio del diritto/dovere all'istruzione: al di là delle specifiche lagnanze che ciascuno potrebbe fare – che finiscono per diventare anch'esse dei luoghi comuni, se non sappiamo cogliere gli aspetti strutturali che ne determinano le manifestazioni locali –, uno dei mali della scuola attuale è una concezione del sapere finalizzato a uno scopo determinabile a priori, lineare, uniforme, discreto, quantificabile in unità uniformi e discrete. «Insegnare gli strumenti utili ad andare sempre per la via retta è sbagliato e controproducente. Dobbiamo proteggere i bambini da questa specie di terrorismo dell'urgenza, di una male interpretata efficienza, ricettività: l'urgenza non è la risposta ai problemi, è il problema» [Miguel Benasayag, L'esercito degli "adulti biologici". Bambini ossessivi e superficiali, «La Stampa», 21 settembre 2017]. Don Milani la chiamava «gerarchia delle urgenze»: «Quando la scuola è poca va fatta badando solo alle urgenze. Una scuola fatta con l'ossessione della campanella, con l'incubo del programma da finire prima di giugno» [Tutte le opere, vol. I, pp. 704, 752].
Un esempio del concretizzarsi di questo terrorismo dell'urgenza sono i test a crocetta che sempre più spesso diventano, da presunti strumenti di rilevazione dei dati, pretesto per sentenziare sul lavoro degli insegnanti (confondendo in maniera scorretta, e scientificamente inaccettabile, ciò che è descrittivo con ciò che è normativo). In questi test il sapere viene dissezionato analiticamente, ridotto a unità discrete, atomiche e misurabili, che premiano «una forma peculiare di intelligenza analitica, apprezzato dai gestori e dalle imprese del settore finanziario che non vogliono che dipendenti pongano domande scomode o verifichino le strutture e gli assiomi esistenti: vogliono che essi servano il sistema. Questi test creano uomini e donne che sanno leggere e far di conto quanto basta per occupare posti di lavoro relativi a funzioni e servizi elementari. I test esaltano quelli che hanno i mezzi finanziari per prepararsi ad essi, premiano quelli che rispettano le regole, memorizzano le formule e mostrano deferenza all'autorità. I ribelli, gli artisti, i pensatori indipendenti, gli eccentrici e gli iconoclasti – quelli che pensano con la propria testa – sono estirpati». Queste parole sono di Chris Hedges, un bravo giornalista d'inchiesta che dopo aver scritto reportages sulla guerra degli USA all'Iraq si è occupato di un'altra guerra, quella contro il sistema educativo [Why the United States Is Destroying Its Education System, ZNET 2012, trad. it. Perché gli Stati Uniti distruggono il loro sistema scolastico].
L'opposto del terrorismo dell'urgenza è una scuola che si prende tutto il tempo e tutti i tempi di cui ha bisogno. L'opposto della scuola delimitata dalla condizione giuridica dell'insegnante, che è, oggi, dipendente pubblico con contratto di diritto privato; per il quale, il centro della propria professione non è lo scopo – educare, insegnare, trasmettere, formare –, ma il burocratico scambio contrattuale fra ore prestare e salario ricevuto. Dove non si mette in questione la qualità delle ore prestate: ricordate quella consulente ministeriale che contrapponeva le proprie "molte" ore alle "poche" degli insegnanti in classe? Le sue ore erano al servizio della "buona scuola" di Renzi: più ne faceva, più danno faceva alla scuola – ma che te lo dico a fare?
Lo scorso anno un evento imprevisto ha scosso molte placide coscienze, svegliandole dal sonno dogmatico del There Is No Alternative: il movimento globale dei Fridays for Future. Milioni di ragazze e ragazzi hanno invaso le strade e le piazze per imporre all'opinione publbica l'urgenza di politiche avverse al Global Change, alla catastrofe climatica verso cui stiamo viaggiando a fari spenti nella notte. Quanta rabbia, quanto rancore ha suscitato il fatto che una studentessa sedicenne ha saputo dire le precise parole là dove tanti reputati adulti non ne erano stati capaci – oltretutto, sovvertendo la vulnerabilità da cui è affetta, e che dovrebbe confinarla nella "disabilità", in capacità di tessere relazioni e affetti. Ma come può la scuola affrontare il mutamento climatico? Già alla fine degli anni Sessanta Gregory Bateson ci diceva che la questione ambientale si manifesta nella duplice forma della catastrofe ambientale, e della crisi dell'ecologia della mente. Esiste una singola disciplina che possa racchiudere questi ambiti? In tutta evidenza, no: non per caso Bateson proponeva un approccio ecologico, ben sapendo che l'ecologia non è una disciplina, ma un insieme di conoscenze e competenze pluridisciplinari. Occuparsi del mutamento climatico significa non solo acquisire conoscenze nei più diversi ambiti disciplinari – scienze naturali, fisica, biologia, urbanistica, storia, filosofi, letterature, matematiche, a voler fare un elenco ridotto –, ma soprattutto acquisire la capacità di collegarle: è qui che la scuola può giocare un ruolo rilevante. Compito non facile: ma imprescindibile. Chiedersi come dovrebbe essere una scuola siffatta, potrebbe essere il compito che insegnanti, studenti, famiglie dovrebbero darsi nei prossimi anni.
Ma non possiamo occuparci della catastrofe ambientale senza occuparci, in modo critico, delle condizioni di sistema che la determinano: dello sfruttamento delle risorse umane e naturali, della subordinazione della vita alla legge del profitto, della riduzione a merce dei viventi, umani e non. E di ciò che da questo stato di cose consegue: lo stato di guerra diffusa, una sorta di terza guerra mondiale strisciante, a "bassa intensità". E la migrazione di centinaia di milioni di esseri umani nel mondo. Le Nazioni Unite, con una stima molto prudente, certificano 258 milioni di migranti alla fine del 2017. Se per ciascun migrante consideriamo almeno un altro che sta provando, o non è riuscito, a migrare, arriviamo a oltre mezzo miliardo di migranti, di fatto o in viaggio: cioè un 15mo dell'umanità. Questo scenario è un caso esemplare: non si possono studiare i flussi di donne e uomini che sfuggono alla morte – non importa se per guerra, terrore o carestia, come vorrebbe l'infame distinzione fra migranti "economici" e "politici" – come fossero movimenti di carrarmatini sulla plancia del Risiko. O ci si fa complici del genocidio dell'ammazziamoli a casa loro, o si ha la consapevolezza che l'alternativa a un mondo diverso è la guerra civile globale, il genocidio.
Rispetto a questo scenario la scuola è posta davanti a due alternative non eludibili: o diviene strumento di allargamento della disuguaglianza, della segmentazione sociale, dello sfruttamento bestiale dell'uomo sull'uomo; o assume il compito etico di mettersi in mezzo fra i segmenti che la attraversano, per produrre connessione del comune, nella consapevolezza che la contraddizione fondamentale non fra garantiti e non, ma fra l'1% e il 99% dell'umanità non è aggirabile.
È chiaro che solo una profonda rivoluzione del sistema-istruzione può dar concretezza a quest'abbozzata proposta di riforma dei contenuti: una rivoluzione che trasformi in una scuola del comune e per il comune – una commonschool – quel luogo di lavoro nel quale noi insegnanti vaghiamo come tante monadi isolate e senza finestre, ognuno a rincorrere i suoi guai, ognuno col suo viaggio ognuno diverso, ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi, chiedendoci come tanti piccoli Shylock se il collega accanto non abbia versato una goccia di sangue o un grammo di carne in più per ottenere uno o due ducati in più.
Ma accanto alle "condizioni oggettive", di sistema, è necessaria una condizione soggettiva: l'etica di una scuola militante. Dove per "militante" non si intende il richiamo alla mistica stakanoviana del lavoro, ma a quel dovere fondato sul vivere e agire nella verità, producendo verità, liberi da qualsivoglia direttore della coscienza estrinseco: sulla concatenazione fra il Beruf weberiano e la socratica parrhesia – il "coraggio della verità" – dei filosofi stoico-cinici.
Una scuola militante è una scuola di donne e uomini, insegnanti, student@ e genitor@, che fanno proprie le parole dell'allievo di don Milani: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l'avarizia». Che attraversano come militanza etica i campi del sapere, per produrre verità nel comune, con chi è disposto ad agire per il comune e nel vero. Nella consapevolezza che senza rivoluzionare la scuola non è possibile rovesciare questa società dell'ingiustizia. Ma anche: che non può esserci alcuna rivoluzione del sistema d'istruzione, senza rovesciare lo stato di cose esistente, coniugando la calma potenza dei bisonti con la selvaggia cavalcata dei dothraki, il candore delle volpi e l'astuzia delle colombe.
Una scuola che non insegna a riflettere su come, attraverso quali pratiche di sfruttamento del lavoro, quali violazioni dei diritti, quali conseguenze per il futuro viene creata la società presente; che non insegna a pensare la possibilità di un altro mondo dentro il presente, è una scuola che ha perso il proprio senso e la propria funzione: e allora tanto vale venderla all'incanto: perché una scuola che non si schiera, che si adegua e depone le armi, è una scuola che diserta.