La “rappresentazione” del sacro / Kenro Izu, Requiem for Pompei
«Quando vidi quell’albero, che si ergeva sul tempio con una tale autorevolezza, fui travolto da pensieri che si spingevano ben oltre le semplici nozioni di vita o di morte. Mi resi conto in quel momento che quell’albero poteva avere una risposta. E iniziai a interrogarmi sulla mia stessa esistenza.» (Kenro Izu)
L’albero in questione appare in un’immagine che l’autore scatta in Cambogia, ad Angkor, nel 1993 dove si vede un gigantesco tronco senza più le fronde le cui radici scivolano lungo le pareti del tempio rimanendo ad esso avvinghiate. Tutto è qui rappresentato: la vita da quelle radici superbe e la morte che si può identificare nel morbido buio che fuoriesce dalle aperture del tempio. Altro non esiste.
Andare oltre la nozione di vita o di morte vuol dire dunque spingersi in un ambiente misterioso, dal quale il fotografo giapponese è da sempre attratto, nella spiritualità di luoghi imponenti dove le antiche architetture, modellate dal passare del tempo, restituiscono un’aura alla Storia e alla sua grandezza rispetto al presente, ma in cui si trova anche la ricerca di un profondo dove l’atto di avventurarsi mette inevitabilmente in contatto l’individuo con l’enigma dell’esistenza.
Nato a Osaka nel 1949, Kenru Izu si forma alla Art at Nippon University di Tokyo. All’inizio degli anni Settanta si trasferisce a New York dove la fotografia è nei musei ed è considerata una forma d’arte, cosa che non avviene in Giappone. Ben presto apre un proprio studio specializzandosi in still life e utilizzando macchine fotografiche e tecniche di stampa considerate, in un’epoca di avanguardie artistiche, antiche. Ma Kenru Izo non se ne cura, la sua ricerca ha radici profonde. Il suo primo approccio con la fotografia avviene quando, lavorando nel campo medico, fotografa al microscopio i microorganismi. Si può facilmente immaginare che già all’epoca il giovane fotografo giapponese potesse essere affascinato da forme invisibili a occhio nudo eppure esistenti.
Fin da bambino Izu sogna di vedere le antiche pietre del mondo come quelle di Stonehenge, Bogotà, Angkor, luoghi in cui la stratificazione delle culture ha prodotto un fascino ancestrale incommensurabile. In questi suoi viaggi Izu intuisce che queste architetture vanno ben oltre la storia che rappresentano, possiedono un lato magico che mette in comunicazione l’essere umano con altri mondi paralleli, nonostante essi si siano in un certo qual modo estinti.
Nel 1979 intraprende il primo di quattro viaggi in Egitto, dove si reca per fotografare le Piramidi, ne resta folgorato. La sua passione per queste vestigia storiche assume un senso che travalica l’essere umano, qualcosa cui l’individuo appartiene ma al tempo stesso non governa, come se la costruzione di questi monumenti fosse stata resa possibile solo grazie a una sorta di intervento divino.
A questo primo viaggio molti ne seguiranno, con inalterato stupore l’uomo Izu, “rappresentante” del genere umano, non ci mostra mai una semplice documentazione ma, volendo ascoltare, ci offre un silenzioso “contatto” con quegli altri mondi.
Sacred Places, di cui fanno parte, oltre alle fotografie delle Piramidi d’Egitto, anche quelle delle Piramidi dei Maya, di Stonehenge e di molti altri siti archeologici situati in svariate parti del mondo, dal Messico al sud est asiatico, diventa il progetto più importante e tutt’ora in corso, della sua vita. L’intenzione dell’autore è quella di entrare nel luogo attraverso l’immagine e per far questo utilizza il banco ottico che riproduce accuratamente ogni particolare così come la stampa al palladio che restituisce la materia di ogni cosa.
In questi suoi pellegrinaggi, la fotografia diventa un atto di riflessione, di osservazione paziente e lenta, dove a poco a poco gli uomini diventano parte integrante del paesaggio, corpi della natura. Kenro Izu pur appartenendo al tempo contemporaneo, passa attraverso questi luoghi sacri ricavandone una visione che rimane fedele ai luoghi stessi. Nelle immagini, appare un ritratto in cui l’anima rimane inalterata, qualsiasi sia la forma che il fotografo disegna attraverso la luce.
Molti autori, nel momento in cui scattano, sono spesso alla ricerca inconscia della bella fotografia. Una costruzione mentale che li induce a osservare il soggetto da un punto di vista principalmente estetico, (nel senso di estetizzante). L’intento di Kenro Izu è invece quello di catturare lo spirito del soggetto. Secondo la sensibilità dell’artista giapponese spirito equivale a vita. Per questo tanto i fiori o la frutta dei suoi still life quanto i paesaggi, le architetture e il corpo umano sono per lui tutti soggetti che racchiudono un alito di spiritualità riconducibile ad una sacralità arcaica.
Al contempo la sua è una fotografia che rivela come la complessa bellezza della vita possa tramutarsi in decadimento e di come questo non smetta comunque di essere “bello”. Un approccio che emerge anche nell’atto del guardare affidato al fruitore, il quale soltanto attraverso una altrettanto lunga e paziente osservazione delle immagini può comprendere la totalità empatica che ha guidato la mano dell’autore, molto lontana dalla rapidità con cui tanta fotografia digitale contemporanea, fatta per essere consumata, si è affermata in tempi recenti.
Questo è infatti ciò che traspare dalle immagini di Izu: una identità che perdura nel tempo senza alterarsi poiché non è invenzione dell’uomo, del suo pensiero, ma un’opera divina e pertanto che lo trascende.
Requiem for Pompei, lavoro iniziato nel 2015 in collaborazione con Fondazione Fotografia Modena e con il Parco Archeologico di Pompei, ruota attorno alla vicenda apocalittica accaduta alla città, su cui il vulcano ha eruttato la sua lava incandescente pietrificando ogni cosa e dove la vita si è fermata lasciando il campo alla morte.
I calchi, riproduzioni in vetroresina realizzati nel secolo scorso, che l’autore posiziona in armonia con le linee e i reperti del luogo, compaiono negli ambienti come fossero anime alla ricerca del proprio corpo. Senza più un senso di vita divengono tutt’uno con ciò che sta loro intorno. Non più individui che lì hanno vissuto, ma parte integrante del paesaggio. Ravvisiamo in questo la volontà dell’autore di sublimare il luogo attraverso la rappresentazione scenica della morte, che fa dialogare – in modo diverso dalla pura e semplice cronaca – gli ambienti e le figure.
L’uomo disteso a terra, con il braccio destro piegato sotto la testa e le gambe un po’ ritratte, una postura molto frequente quando si dorme, il bambino supino o la donna seduta rannicchiata, vengono “sistemati” da Izu lungo le stradine, nelle case, al cospetto di colonne, mosaici e affreschi conservati nelle abitazioni nobili come la Casa del Poeta Tragico o la Villa dei Misteri o ancora la Casa del Fauno dove il corpo dell’uomo addormentato affronta arreso, nella sua nudità, quello di una improvvisa amata che lo osserva dal muro, sensuale nel biancore puro del suo corpo.
È una vista conturbante, che scuote i sensi di chi guarda, li eccita, come accade nel film di Rossellini “Viaggio in Italia” in cui la coppia protagonista in visita agli scavi di Pompei (siamo agli inizi degli anni Cinquanta) assiste eccezionalmente al procedimento che permette agli archeologi di rinvenire, attraverso l’iniezione di gesso in una cavità posta nel terreno, il corpo di due persone. Forse moglie e marito – spiega l’accompagnatore –, producendo così in Katherine Joyce (interpretata da Ingrid Bergman), che vive assieme al marito un profondo malessere legato alla loro relazione, uno sconvolgimento tale da farla allontanare piangendo.
Tale partecipazione emotiva riguarda la vicinanza tra l’uomo antico e l’uomo contemporaneo che può vedere l’emergere di corpi che si sono consumati nel tempo ma la cui forma esiste ancora in quel vuoto protetto dal terreno, intenti in azioni totalmente replicabili ancora oggi.
Nel film come nelle immagini di Izu, l’incontro con l’improvvisa concretezza della morte altera il percorso della ragione, confuso dall’instabilità del sentimento. Ciò apre la percezione dell’uomo ad una dimensione diversa, in cui il sacro torna a far parte della materia riconducendo il corpo privo di vita all’unione indissolubile con il proprio spirito.
La fotografia può avere il potere di evocare, “non è una mera forma di arte – puntualizza l’autore – bensì un percorso di ricerca costante nella vita, per trovare il significato più recondito dell’esistenza stessa. Per questo considero ogni fotografia come la mia orma lasciata su un sentiero, talvolta sono orme nette e profonde, altre volte indefinite e superficiali.”
Il percorso fotografico di Izu dunque è come un sentiero che si allarga e si restringe ma rimane sempre se stesso. Ogni volta offre un punto di vista diverso focalizzandosi ora sul paesaggio ora sull’uomo, come nei due capitoli sull’India Where Prayer Echoes e Eternal Light of India in cui il luogo della preghiera e il volto dell’uomo si sovrappongono. Sono tutte serie di immagini che rappresentano lo sviluppo naturale di Secret Places. “È un progetto sulla vita – dice ancora Izu – sul fatto che tutto è all’interno di un unico grande ciclo”.
In occasione dell’esposizione “Requiem for Pompei” in corso a Modena fino al 13 aprile 2020, la già ampia bibliografia di Kenro Izu si arricchisce di una nuova monografia dall’omonimo titolo, dedicata proprio a questo segmento di lavoro e pubblicata per i tipi di Skira.